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Un occhio molto privato - Capitolo due


di eborgo
28.01.2023    |    966    |    0 8.0
"I suoi occhi spaventati si piantarono nei miei..."
Capitolo secondo. L’amante di mio marito è mio marito.

Il silenzio nell’androne era totale. Questa perla nera, uscita di casa nel momento più sbagliato della sua vita, ci stava osservando con lo sguardo sorpreso di un bambino al circo Barnum.
Una testa di meravigliosi riccioli neri su un delizioso ovale color mogano, due occhi scuri, appena bistrati, un naso dritto e sottile su due labbra disegnate da un artista e al momento atteggiate in un vago sorriso divertito. Alta, magra, bellissima, indossava una semplice camicetta azzurra scollata, con le maniche arrotolate, e una gonna al ginocchio di cotone color senape. Le gambe nude, meravigliose, finivano in due perfetti piedini calzati da sottili sandali a tacco basso di pelle marrone.
Una visione. Il tempo si fermò per qualche secondo.
«Signor Bassi» accennò con un live accento straniero, «ma che cosa…?»
Poi si rese conto che c’erano in giro delle pistole, che io avevo sulla bocca un grosso cerotto bianco e che nessuno rideva. Il sorriso le morì sulle labbra e fece istintivamente un passo indietro verso la porta di casa.
Bassi le fu addosso con uno scatto inaspettato per uno della sua stazza. L’afferrò per la vita bloccandole anche le braccia e le chiuse la bocca con l’altra mano, premendole la testa contro la sua spalla. La giovane principessa somala prese a divincolarsi mugolando come un’ossessa, gli occhi sgranati dal terrore. Feci per intervenire ma Rossana mi afferrò per un braccio e mi tirò indietro piantandomi la canna della pistola nel fianco.
«Apri l’ascensore e portalo dentro» grugnì Fabryzia.
Il rosso spalancò il battente e mi spinse all’interno della cabina seguendomi a ruota. Poi entrò l’altro, rinculando e trascinando dentro la ragazza che si torceva come un’anguilla stridendo e sbuffando. Tra le braccia del grosso travestito non aveva alcuna chance. La porta si chiuse e il rosso premette il bottone del secondo piano. Fabryzia schiacciò il corpo della ragazza contro la parete della cabina e, sempre tenendole la bocca tappata le piantò la canna della mia pistola sulla tempia.
«Se non stai ferma ti ammazzo» le sibilò nell’orecchio. «Chiudi il becco o ti faccio un buco in testa.»
La situazione si stava rapidamente trasformando in qualcosa di opaco e scivoloso. Non potendo né muovermi né parlare, decisi che per il momento tanto valeva attenmdere lo svolgersi degli eventi.
Con un paio di singhiozzi, soffocati dalla mano di Bassi, anche la giovane somala parve gettare la spugna.
L’ascensore si fermò al piano con un lungo respiro asmatico e le porte scorrevoli si spalancarono gemendo. Fabryzia uscì per prima stringendo a se la ragazza. Rossana mi spinse fuori e mi sbatté contro il muro. Nella mano libera comparve una piccola chiave con la quale aprì la porta di casa. Lasciò entrare il suo amico e la ragazza poi mi spinse dentro.
La stanza era piuttosto spoglia, illuminata solo da un paio di abat-jour. Un grande letto matrimoniale coperto da lenzuolo e federe di raso blu scuro stazzonato, un cassettone finto antico con due sedie ai lati, una grossa poltrona rivestita da un mezzaro di seta viola e un semplice armadio a due ante di legno scuro ne formavano il sontuoso arredamento. Sulla parete di fondo, due finestre coperte da tende a pacchetto bianche davano sul cortile. Su quella alla mia destra si aprivano due porte, una su un piccolo bagno e l’altra su un cucinino. Il pavimento di parquet aveva visto tempi migliori ed era parzialmente coperto da due tappeti kilim parecchio vissuti.
Nella stanza la tensione era talmente spessa da poterla spalmare su una fetta di pane. La giovane dea somala, sentendosi in trappola, aveva ripreso a dimenarsi tra le braccia di Fabryzia.
«Nel primo cassetto ci sono delle corde» sbuffò quest’ultimo rivolto al suo amico. «Tirale fuori, dobbiamo legare questa stronza. Ci dev’essere pure un bavaglio.»
Il rosso mi spinse a sedere su una delle sedie a fianco del cassettone e si mise a frugare nel cassetto tirandone fuori un rotolo disordinato di corde bianche che gettò sul letto e un bavaglio da porno shop, una pallina di gomma nera attraversata da una corda di canapa bianca.
Fabryzia levò la mano dalla bocca della ragazza e la tenne ferma con entrambe le braccia mentre il suo amico le ficcava la pallina di gomma tra le labbra e legava strettamente i due capi della corda dietro la sua nuca. La giovane somala gemette chinando momentaneamente il capo ma quando Fabryzia la spinse verso il letto, vedendo le corde riprese a divincolarsi sbuffando e mugolando come un’ossessa.
«Stai ferma, puttana» sbottò Bassi che faticava a tenerla. La fece cadere a faccia in avanti sul lenzuolo di raso e le si sedette ginocchioni sul dorso torcendole le braccia dietro alla schiena.
«Adesso ti faccio vedere io, stronza di una negra» sbuffò.
Anche lui aveva il fiatone. Sotto le sue gambe la ragazza tentò ancora debolmente di divincolarsi ma quando le corde cominciarono a stringerle i polsi si abbandonò sul letto ansimando come una preda catturata, la schiena scossa da piccoli singhiozzi.
Rossana era intanto tornata accanto a me e mi teneva seduto premendomi una mano sulla spalla.
Fabryzia fini di legare le mani alla sua vittima poi si alzò in piedi e la fece voltare sulla schiena. «Adesso ci divertiamo.»
Si tirò su la gonna di pelle fino all’altezza della vita e, siccome le sue mutande le avevo in bocca io, sventolò un uccello duro e teso. La Ragazza cercò di tirarsi indietro gemendo ma lui l’afferrò per le cosce e tenendole una per ogni mano la trascinò di nuovo verso di se. La gonna le si sollevò fino a metà coscia e lui gliela sollevò del tutto. Poi afferrò le deliziose mutandine di pizzo che la bella indossava sotto la gonna e le strappo via con un gesto brusco. La giovane somala sconvolta dal terrore cercò in tutte le maniere di divincolarsi dalla presa di lui sulle sue cosce. Senza risultato. Il travestito l’avvicinò ancora e la penetrò per bene, a fondo, con un gemito di piacere. Lei gemette ancora, agitandosi e ritraendosi con le poche forze che le rimanevano infine si abbandonò sul letto, scossa dai singhiozzi, gli occhi chiusi e grosse lacrime che le rigavano il volto.
Fabryzia cominciò ad andare avanti e indietro lentamente, tenendola stretta per le gambe. «Adesso te ne stai brava, vero, stronza?» disse ansando come un mantice. «Questo è il premio per avermi fatta incazzare.»
Tutto questo mi faceva girare i coglioni. Mi alzai di scatto sfuggendo alla presa di Rossana e mi buttai su Bassi colpendolo con una spallata. Lasciò andare le gambe della ragazza, perse l’equilibrio e sfilandosi da lei fece due passi malfermi sui tacchi alti e cadde all’indietro rovinando sul pavimento.
Il rosso mi saltò addosso e con un calcio sul retro delle ginocchia mi fece crollare per terra. Poi alzo la pistola a mo’ di mazza per colpirmi in testa ma Fabryzia lo fermò allungando una mano. «Fermo, aspetta…» ansimò, «Lasciamo finire a lui.»
Rimanemmo immobili tutti, per alcuni secondi. Come una drogata, la ragazza riuscì a tirarsi su dal letto e cercò di correre verso la porta d’ingresso. Rossana l’acchiappo con un balzo e la ributtò in malo modo sul letto.
«Portamelo qui» disse Fabryzia da terra, «e dammi la pistola.»
Stava seduto a gambe larghe, la gonna sollevata e con una mano si accarezzava lentamente l’uccello duro. Il suo amico mi fece alzare, prese la mia 357 dal letto e mi portò da lui. Mi costrinse a inginocchiarmi fra le sue gambe e gli porse la pistola. Lui la prese e mi ci carezzò una guancia.
«Adesso ti levo il bavaglio» mi disse suadente, «perché devi mettere in bocca qualcos’altro.» Il cuore prese a battermi nel petto come i tamburi della giungla nera. Del resto me l’ero cercata.
«Se urli» continuò lui, «ti rompo tutti i denti e se mi mordi ti ammazzo, chiaro?»
Continuai a guardarlo negli occhi ma non risposi. La sue dita continuavano a scorrere su e giù lungo il suo uccello duro come un palo. Fece un cenno con il mento e alle mie spalle il suo amico mi liberò del bavaglio.
Mi prese per i capelli e attirò la mia testa verso la sua cappella. Chiusi gli occhi e aprii le labbra. Lo sentii entrare in bocca, grosso e umido. Prese subito a muoverlo avanti e indietro, ansimando di piacere. Aveva un sapore acre. Mi ricordò vagamente di quando la baciavo alla mia ex. Lasciai che lo muovesse per bene tra le mie labbra. Si fece succhiare per un paio di minuti, poi sollevò la mia testa e, attirandomi contro di se mi baciò sulle labbra. Cercai di ritrarmi ma la sua lingua era già nella mia bocca. Mi baciò con gusto, a lungo, tenendomi stretto contro il suo petto, la lingua che entrava e usciva dalle mie labbra. Ancora qualche piccolo bacio poi smise.
«Adesso vedi di usare la lingua, amore» sussurrò, «altrimenti stiamo qui fino a domani.»
Era eccitato come un ossesso quando mi rimise il glande fra le labbra. Feci come mi aveva detto, lo lasciai entrare a fondo nella mia bocca e mentre lui lo muoveva avanti e indietro assecondai il movimento e gli carezzai l’asta con la lingua, leccandola e picchiettandola con la punta. Sono gli incerti del mestiere, del resto prima me lo levava di bocca meglio era. Lo sfilò improvvisamente dalle mie labbra e mi spruzzò la lacoste nuova con diversi getti di seme vischioso. Mi lasciai cadere seduto sui talloni mentre lui esauriva il suo orgasmo fra le proprie dita.
Guardai alle mie spalle. Rossana era sul letto, e teneva buona la ragazza somala. Mi fece un sorriso divertito strizzandomi l’occhio. La giovane era riversa sul letto, i polsi dietro la schiena e la pallina di gomma tra le labbra aperte. Aveva gli occhi semichiusi e persi nel vuoto. I nostri sguardi si incontrarono per un’istante e vi lessi parecchia paura.
Fabryzia si alzo dalla poltrona e dopo avermi di nuovo riempito la bocca con le sue mutandine, la sigillò con il cerotto.
«Dobbiamo andare» disse rivolto al suo amico, «legali per bene, che non possano andare in giro.» Si lisciò la gonna di pelle sulle cosce e entrò in bagno.
Rossana si alzò dal letto, sistemò la ragazza su un fianco, le tolse i sandali poi le congiunse le caviglie e cominciò a legarle strettamente assieme. Lei prese a singhiozzare sommessamente, gli occhi fissi nei miei. Le sorrisi per tranquillizzarla, ma senza molto successo. Con il bavaglio sulla faccia e tutto quanto, non doveva essere quel gran sorriso.
Il rosso le fece piegare le gambe bene all’indietro e collegò polsi e caviglie con un altro pezzo di corda. Nel gergo della mala si chiama “incaprettare”.
Poi venne da me, mi tirò su da terra e mi fece sfilare i mocassini. Mi fece sedere sul letto e si accosciò a legarmi le caviglie. Lo avrei potuto spedire nel mondo dei sogni con un bel calcio sul naso ma a che pro? Legato come un salame non sarei andato molto lontano. Legò strettamente assieme le mie caviglie e strinse accuratamente i nodi poi mi fece sdraiare su un fianco di fronte alla ragazza. Anche a me fece piegare le gambe e collegò praticamente assieme polsi e caviglie. Spinse i nostri corpi uno contro l’altro e con diversi giri di corda attorno alla vita li legò assieme belli aderenti.
Fabryzia uscì dal bagno e si fermò ai piedi del letto.
«Adesso vi lasciamo soli, piccioncini» disse con un sorriso mellifluo, «vi consiglio di stare buoni e tranquilli.» Appoggiò una mano sulla coscia della ragazza facendole fare un maledetto salto. «Non datemi problemi e andrà tutto nel migliore dei modi.»
Spensero una delle due abat-jour e uscirono dalla porta. La serratura scattò due volte.
Saggiai le corde e mi resi conto che non c’erano grandi possibilità di liberarsi. Il rosso era evidentemente un professionista del bondage. Il corpo della giovane somala tremava contro il mio per il terrore e la tensione. Aveva un profumo delicato. Lo assaporai ad occhi chiusi. Lei, dopo qualche momento di imbarazzo, appoggiò il capo alla mia spalla. Le carezzai piano la fronte con la guancia e sentii che un poco si calmava. Avrei voluto parlare con lei ma non potevo. Per tranquillizzarla dovevo usare una comunicazione silenziosa fatta di gesti protettivi. Anche se così sistemato, non potevo proteggere nemmeno me stesso.
Lasciammo scorrere il tempo nella penombra della stanza cercando di muoverci quel tanto da aiutare la circolazione a mani e piedi, resa difficile dalle corde. Forse Valeria, la mia segretaria, non vedendomi arrivare in ufficio mi avrebbe cercato e anche la signora Bassi. Ma potevano passare dei giorni prima che mi trovassero. Mi misi a pensare; se volevo liberare me stesso e la bambola somala potevo solo contare sulla mia esperienza.
Passarono un paio d’ore prima che il rumore dell’ascensore che si fermava al piano scatenasse nuovamente la nostra agitazione. I suoi occhi spaventati si piantarono nei miei. Erano belli, un poco a mandorla e leggermente bistrati. Non trovai nulla di più rassicurante che sfregare delcatamente la punta del mio naso contro il suo. «Ti sono vicino» le dissi con lo sguardo. Il suo corpo tremava appena contro il mio e percepii nettamente il suo cuore battere come un forsennato contro il mio petto.
La serratura scattò un paio di volte e i due entrarono nella stanza.
«Prendi la ragazza» disse Fabryzia al suo amico, «e mettila nel baule della macchina. Ricordati di bendarla.»
Il rosso sciolse la corda che legava assieme i nostri corpi e poi quella che teneva attaccati polsi e caviglie della ragazza. La girò verso di se, la fece alzare in piedi e se la caricò a sacco sulle spalle. Lei mugolò una protesta e cercò di divincolarsi. Rossana le diede una pacca sul sedere e si avviò verso la porta. La bella riuscì ancora a sollevare la testa per cercare me. I nostri sguardi si incrociarono disperati, il suo per il terrore, il mio perché non potevo dirle nulla. Poi uscirono dalla porta.
Mi voltai imbufalito verso Bassi. Lui si sedette sulla sponda del letto e si lisciò bene la blusa di raso color prugna.
«Stai calmo» zufolò infilandomi delicatamente una mano fra le cosce, «vi portiamo da un’altra parte.» Prese a carezzarmi i genitali attraverso il tessuto leggero dei pantaloni. «Domani qui ci sarà del movimento e non vogliamo rischiare che qualcuno vi trovi troppo presto.» Si morse il labbro inferiore continuando a carezzarmi là sotto. «Ti voglio tutto nudo nel mio letto» mormorò, «e penso che anche Rossana abbia delle idee su di te.»
Non potendolo fare non commentai. Forse, la strada per filare via da lì passava per quella porta. Potevo convincerli che la cosa mi piacesse, che mi eccitasse. Magari abbassavano le difese. Non mi serviva molto, bastava una distrazione.
Rossana rientrò nella stanza. «La negra è sistemata» disse con un mezzo sorriso.
Fabryzia si alzò dal letto. «Forza, portiamo giù anche lo sbirro.»
Lui mi afferrò per le spalle e il rosso per i piedi. Uscimmo dall’appartamento e mi misero in piedi in ascensore. Mi ripresero in braccio per attraversare l’androne e uscire in cortile. La Audi era parcheggiata dove prima si trovava la golf del rosso. Aprirono il baule. La ragazza era rannicchiata nel buio, gli occhi bendati con un foulard di seta verde marcio. Ci guardava senza vederci, come una bestiolina in preda al panico.
Prima di infilarmi nell’auto bendarono anche me. Poi il portello del baule si chiuse sopra di noi. Sentii che lei cercava il contatto con il mio corpo e le mie mani legate trovarono la pelle del suo addome sotto la camicetta. Tremava come una foglia.
Passarono alcuni lunghi minuti prima che l’auto si mettesse in moto. Partimmo con alcuni leggeri scossoni. I nostri sequestratori guidavano con prudenza. Meglio per noi.
Il viaggio nel buio totale del baule durò qualcosa tipo una mezz’ora. Gli ultimi minuti mi sembrarono in salita dal che ne dedussi che eravamo tornati verso la collina. Non potevamo comunque essere a casa di Fabrizio Bassi a meno che sua moglie non fosse d’accordo con loro, cosa che mi sentivo di escludere.
Le porte dell’auto vennero chiuse delicatamente. Poi il baule si spalancò. La benda sugli occhi mi impediva di vedere alcunché. Dita esperte sciolsero i nodi alle mie caviglie e a quelle della ragazza. Ci aiutarono a scendere. Sotto i piedi nudi sentii del terreno sconnesso, terra, pietra e qualche ciottolo. Per un momento pensai che ci avessero portato in qualche roggia e che stavano per farci a pelle. Ma la voce di Fabryzia questa volta mi rassicurò.
«Adesso andiamo verso la casa» disse a voce molto bassa, «vi guidiamo noi. Non fate mosse stupide perché vi sistemo con questa.» Mi appoggiò la pistola sulla guancia. Fece lo stesso con la ragazza perché la sentii gemere. Una mano mi prese per il braccio e ci avviammo lentamente. Attraverso la seta della benda non filtrava alcuna luce e l’unico suono udibile era quello dei grilli. Il rumore ovattato della città era lontano. Percorremmo una sessantina di metri che a piedi nudi su quel parterre non furono proprio una passeggiata. Poi ci fu un vialetto di pietre larghe e quattro scalini sui quali, se non mi avessero sostenuto, mi sarei rotto lo stramaledetto collo.
Entrammo in casa e la porta venne chiusa dietro di noi. Ci tolsero le bende e impiegammo diversi istanti a riabituarsi alla luce. Cercai la ragazza e scambiammo uno sguardo veloce. Rossana mi spinse verso una larga scala di legno alla nostra destra. Eravamo in una casa moderatamente di lusso, un condominio a villette probabilmente, pavimenti di legno, poster incorniciati alle pareti, cose così.
Ci trovavamo su una specie di pianerottolo che fungeva da ingresso, Davanti a noi una scala scendeva verso quello che si sarebbe detto il salotto o la “zona giorno”, come dicono all’Ikea. Si intravvedevano dei divani, un tavolino basso e un tappeto moderno di dubbio gusto. Immaginai fosse la casa del rosso.
Alla nostra destra la scala saliva con tutta probabilità verso le camere da letto. Venni appunto spinto verso quest’ultima e salii seguito dal gruppo eterogeneo dei miei accompagnatori. Ci fecero entrare in una ampia stanza. Mi guardai attorno. Armadi a muro laccati di bianco alle mie spalle, un grosso cassettone, con un paio di sedie di design accanto, alla mia sinistra, moquette carta da zucchero per terra e sulla parete di fondo due finestre schermate da tende a drappeggio di velluto color melanzana. Un paio di finti comodini Luigi XI ai lati di un monumentale letto matrimoniale e una libreria d’angolo occupavano buona parte della parete alla mia destra. Accanto al cassettone si apriva la porta del bagno.
«Adesso vi leviamo il bavaglio» ci informò Fabryzia, «se alzate la voce o vi fate prendere da una crisi isterica ve li rimetto.» aveva sempre la pistola in mano. Ci indicò le pareti. «Non ci sono vicini» disse, «i muri sono spessi e se vi dovessi sparare non sentirebbero più rumore di quello di una porta sbattuta.»
Si avvicinò alla ragazza che fece un mezzo passo indietro. «Non datemi problemi» le disse fissandola negli occhi, «e ne usciamo tutti in buona salute.»
Rossana armeggiò con il bavaglio della ragazza e le liberò le labbra. Lei era talmente stremata che si lasciò cadere seduta sul pavimento, il capo chino e il fiato corto.
Levò il bavaglio anche a me.
«Devo andare in bagno» sbottai, «e probabilmente anche lei.» Indicai la principessa con un gesto del mento.
«Adesso vi fate un bel bagno» disse Rossana, «e poi tutti a dormire.»
Mi sedetti sul bordo del letto e osservai la scena. Roba da matti. Prigioniero di due travestiti che prima mi violentavano e poi mi facevano fare il bagnetto. Ci slegarono le mani e il rosso andò in bagno ad aprire l’acqua. Appena libero aiutai la ragazza ad alzarsi e l’abbracciai.
«Va tutto bene» le dissi piano, «non essere spaventata, è tutto sotto controllo.»
Mi guardò negli occhi come se le stessi raccontando che venivo da Marte. Le sorrisi e lei riuscì appena ad increspare le labbra in una parvenza di sorriso.
Fabryzia ci guardava divertita, la pistola pronta ad annaffiarci di piombo.
«Non c’è bisogno di essere violenti con lei» dissi sostenendo il suo sguardo. «Non è colpa sua se ci troviamo in questo casino.»
Lui fece un gesto con la pistola. «Va bene, saremo dolcissimi» fece. «aAdesso levatevi i vestiti.» Siccome nicchiavamo ripetè il gesto. «Forza» insisté, «via tutto.»
Ci spogliammo. La giovane somala era piuttosto spaventata e la dovetti aiutare, cosa non del tutto spiacevole. Rimanemmo nudi davanti ai nostri amici fasciati di raso. La ragazza si era parzialmente nascosta alle mie spalle e mi teneva stretto per un braccio, nemmeno fossi stato Nembo Kid.
Fabryzia ci squadrò massaggiandosi il mento con due dita. «Ma guarda» disse, «siete proprio una bella coppia. Giulio Cesare e la regina di Saba.»
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