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Un occhio molto privato - Capitolo cinque


di eborgo
28.01.2023    |    826    |    0 9.2
"Si protese rapido verso di me e prese il mio labbro inferiore nella sua bocca..."
Capitolo quinto. Bulli, pupe e lingue lunghe.

Me ne stavo lì, legato alla seggiola, il cerotto sulla bocca e una rabbia sorda che tendeva ogni mio singolo muscolo. Guardavo il corpo di Nadifa legato, con le braccia e le gambe aperte, su quel cazzo di letto e non potevo far nulla per evitarle di essere stuprata. Guardavo il suo petto che si sollevava e abbassava in corti e veloci respiri. Le avevano passato un cuscino sotto la schiena per tenerle l’addome sollevato. Polsi e caviglie erano impastoiate dalle corde bianche.
Guardai i suoi occhi terrorizzati puntarsi nervosi, ora su di me, ora sui nostri aguzzini fasciati di seta. Non potevo muovermi, non potevo parlare non potevo nemmeno pensare. Non mi ero mai sentito tanto disperato e inerme in vita mia.
Fabryzia mi mise le mani guantate sulle spalle e mi carezzò lentamente la base del collo e la parte superiore del petto.
Rossana si inginocchiò sul letto, proprio in mezzo alle gambe aperte della ragazza. La vestaglia di seta colava come un liquido denso e oleoso sul suo lungo corpo sottile scendendo in mille lucide pieghe che brillavano ad ogni movimento. Il suo corpo nudo e pallido contrastava con la seta scura dell’indumento e il suo sesso in piena erezione sporgeva lungo e duro dalle falde dell’indumento. I muscoli di Nadifa si tesero in uno spasmo e la ragazza sollevò il capo con aria triste e rassegnata.
Il rosso si voltò verso di me e il suo sguardo arrogante incontrò il mio. Con gli occhi, l’unica parte del mio corpo che poteva in qualche modo parlare, lo supplicai di non farlo. Lui si voltò di nuovo verso la ragazza e si chino a baciarle l’addome. Fece correre le labbra e la lingua sulla sua pelle, attorno all’ombelico, la baciò e leccò sul pube e fra le gambe. Nadifa respirava piano, il capo voltato su un fianco e gli occhi chiusi. Emise solo un piccolo grido, quando Rossana la penetrò dopo averle acchiappato i fianchi con le mani per facilitare l’operazione. Prese a muoversi lentamente avanti e indietro dentro di lei, chinandosi a baciarle quei piccoli seni bruni che mi piacevano tanto e carezzando la sua pelle.
La scopò piano, a lungo, godendosela come un matto, baciando ogni centimetro del suo corpo.
Non so quanto tempo durò ma sembrò infinito. Alla fine Rossana raddrizzò la schiena e, levando il suo uccello da dentro di lei, se ne venne ansimando e spruzzando il suo seme sulla pancia della ragazza. Lo fece con lunghi spasmi del suo grosso sesso pulsante che divennero più radi e più tenui man mano che l’orgasmo si andava spegnendo. Poi sedette sui talloni e con la punta delle dita prese lentamente a spargere il suo sperma sull’addome di Nadifa.
Quest’ultimo gesto lo fece per me, fissandomi negli occhi con aria insolente.
Distolsi lo sguardo da quella dimostrazione di possesso e fissai il pavimento. Alle mie spalle Fabryzia si mosse. Mi passò di fianco e raggiunse il suo amico che nel fratempo si era alzato dal letto. Uscirono dalla stanza lasciandoci soli.
Mi ci volle parecchio per sollevare il capo cercando lo sguardo di Nadifa.
Mi stava fissando, il corpo rilassato, scosso solo da qualche leggero singhiozzo. Nei suoi occhi vidi solo un grande sconforto, nemmeno un briciolo di riprovazione per me. Ci guardammo a lungo, respirando piano, scrutandoci a fondo. Fece un piccolo salto nervoso quando Fabryzia rientrò nella stanza. Si era messo una vestaglia di raso nero sulla camicia da notte di seta color salmone, un capo molto comodo, con maniche ampie e sfasate, che gli scendeva drappeggiata fino ai piedi. Nella mano destra guantata stringeva la mia pistola, nella sinistra un rotolo di corda. Venne alle mie spalle. Sentii che scioglieva le corde che mi stringevano i polsi e le mie braccia caddero inerti lungo i fianchi. Le mie caviglie erano ancora solidamente legate alle gambe posteriori della sedia quindi, se cercavo di alzarmi sarei caduto a faccia in avanti. Rimasi seduto. Lui prese le mie mani e le portò ancora dietro lo schienale della sedia. Mi legò nuovamente i polsi tra loro quindi si chinò e mi liberò le caviglie. Portai lentamente le gambe dritte davanti a me e le stirai a lungo, con un gemito di soddisfazione.
Mi aiutò ad alzarmi dalla sedia sfilando le braccia dallo schienale e mi sorresse per permettermi di riprendere l’uso delle ginocchia anchilosate.
«Andiamo» mi disse piano, «hai bisogno di rilassarti.»
Passammo davanti al letto e il mio sguardo corrucciato incrociò un’ultima volta quello inespressivo di Nadifa. La guardai a lungo riempiendomi gli occhi del suo viso dolce e triste. Poi uscimmo dalla stanza.
Fabryzia mi tolse il cerotto dalla faccia e la pallina di gomma dalle labbra. Avevo la bocca arida come i pensieri di un politico.
Scendemmo le scale ed entrammo in salotto. Era una stanza ampia, arredata in maniera anonima, anche se costosa, come tutto il resto della casa. Sulla parete di fronte all’ingresso un paio di porte finestra coperte da tende a drappo davano probabilmente su un balcone. Due grandi divani, uno ad angolo e uno a tre posti occupavano la parte destra della stanza. In mezzo a loro, un basso tavolino di vetro era coperto di riviste di moda e di arredamento. Di fianco alla porta c’era un grosso cassettone ottocento, sul quale si ergeva l’orribile scultura lignea di un santo con in mano un breviario. A sinistra la stanza faceva una corta "L" e lì si trovava una bassa libreria piena di quei volumi rilegati che non legge mai nessuno. Una gigantesca televisione Bang e Olufsen e un impianto stereo dall’aria futuribile, entrambi di certo rubati, erano appoggiati sul piano superiore. Di fronte al televisore, due grandi poltrone di pelle nera con davanti un tavolino basso di legno formavano un secondo salottino.
Fabryzia mi condusse verso le poltrone. Sulla parete di fondo si aprivano due finestre, coperte da tende uguali alle altre. la luce calda del pomeriggio filtrava attraverso il tessuto. Tra le due finestre, un enorme piattaia di legno scuro, quasi nero, era carica di bottiglie di liquori e di ogni genere di bicchieri diversi.
Si sedette in poltrona facendomi inginocchiare davanti a sé. Sul tavolino c’era un vassoio con una brocca d’acqua e un bicchiere. Posò la spingarda, sollevò la brocca e versò l'acqua nel bicchiere. Me lo porse e mi aiutò a bere. Il liquido fresco, scendendomi in gola, mi fece bene.
«Va meglio?.» mi domandò scostando dalla guancia una ciocca castana della parrucca.
Feci cenno di si con il capo. Lui si sedette in poltrona e accavallò le gambe. La vestaglia si aprì e attraverso lo spacco della camicia da notte di seta comparve la sua coscia nuda.
«Mi dispiace per la ragazza» disse carezzandosi le gambe. «Ti avevo avvertito di non fare sciocchezze.»
«É giovane» mormorai, «col tempo le passerà.» L’avrei inculato con un bidone dell’immondizia, ma non volevo darlo a vedere.
«Vieni qui» disse allungando una mano guantata.
Invece di assecondarlo, mi rimisi in piedi e camminai piano fino alla finestra. Lo sentii arrivare alle mie spalle. Mi abbracciò premendomi le mani guantate sul petto e attirò la mia schiena contro di se. Chinò il capo e mi baciò sul collo. Il raso che strusciava contro la pelle mi diede un brivido lungo la spina dorsale.
«Visto che hai i polsi legati dietro la schiena puoi prendermi in mano l’uccello, amore» mi sussurrò nell’orecchio, «proprio come piace a me.»
Prese a strusciare il suo coso velato di raso lucido sulle mie chiappe, piano, a fondo. Lo sentii diventare duro mentre la sua bocca continuava a correre su e giù lungo il mio collo e le spalle. Iniziai a carezzarlo con le dita attraverso il serico tessuto e lo feci scorrere sui polpastrelli. Lo sentii crescere, lungo e duro contro il palmo delle mie mani. Lui ansimava e mugolava eccitato. Con due dita mi costrinse a voltare la testa e, da sopra la spalla mi baciò sulla bocca infilandomi la lingua tra le labbra. Rimanemmo davanti alla finestra per un bel pezzo, io a fargli quella serica sega e lui a brucare le mie labbra con gusto dandomi la sua lingua da succhiare per bene. Alla fine si allontanò di un passo e mi prese per un braccio.
«Vieni» gorgogliò, «mettiamoci comodi.»
Sedette di nuovo in poltrona sollevando la camicia da notte di raso color salmone fin sopra i fianchi. Il suo uccellone duro si ergeva dritto contro l’addome, sporgendo da un paio di lucide mutandine di seta che a malapena riuscivano a trattenere i testicoli al loro interno. Allungò una mano e mi fece sedere sul grembo, le sue cosce velate di nylon fra le mie gambe nude.
«Mi fai impazzire, tesoro» zufolò carezzando e pizzicando i miei fianchi con le dita guantate. «Così, nudo e legato, sei eccitante da morire.»
L’esaltazione gli faceva quasi tremare la voce. Avvicinò il viso al mio petto e mi prese i cappezzoli tra le labbra, mi baciò e mi passò la punta della lingua tra i pettorali. Le sue dita fasciate di lucido raso scorrevano sulla mia pelle come se fosse stata unta. Lentamente, anche il mio coso cominciò a indurirsi. Lui si appoggiò allo schienale e lo prese fra le mani guantate. Il contatto con il raso provocò un guizzo al mio uccello e questo lo fece impazzire. Carezzandomi i testicoli mi fissò negli occhi e con aria provocatoria si passò lentamente la lingua sulle labbra. Mi chinai lentamente su di lui e lo baciai sulla bocca, spingendo la mia lingua fra le sue labbra. Rispose al mio bacio con un lungo gorgoglio di piacere, soddisfatto ed eccitato dalla mia iniziativa nei suoi confronti. Ci succhiammo le labbra a vicenda mentre le nostre lingue si incrociavano e si cercavano.
Si staccò da me e con occhi lucidi per l’eccitazione prese a masturbarmi lentamente. Ora il mio sesso era duro e spesso tra le sue dita.
«Come mi trovi, amore?.» Gorgogliò esaltato.
Mi chinai ancora su di lui e gli passai la punta della lingua tra le labbra. Sotto di me il suo uccello già duro ebbe un guizzo ulteriore. «Come uomo fai schifo» risposi in un soffio, «ma come donna mi fai impazzire.»
Avvicinò ancora il mio viso al suo. «Io sono solo donna…» mormorò.
Le nostre bocche si incollarono di nuovo l’una contro l’altra. Il soli suoni nell’aria erano quello dei nostri respiri eccitati e quello umido dei nostri baci. Mi succhiò le labbra con foga e spinse la sua lingua in profondità nella mia bocca. Ogni tanto ero costretto a tornare in superfice per respirare e lui ne approfittava per baciarmi e leccarmi il collo e le spalle.
Poi mi fece sollevare tenendomi per i fianchi e si portò il mio uccelle duro davanti alla faccia. Cominciò a baciarne il glande, prendendolo appena tra le labbra e dandogli dei piccoli tocchi con la punta della lingua. Poi si mise a baciarlo e leccarlo lungo l’asta, scendendo lentamente verso la radice. Si chinò e, tenendomi i testicoli sollevati sulle punte delle dita guantate li succhiò e li titillò con la lingua. So quanto sia disdicevole, ma la cosa mi faceva impazzire. Ne mordicchiò la pelle, la prese tra le labbra mentre l’asta del mio coso scivolava piano contro la sua guancia.
Un vero bocchinaro. Io, al confronto, ero un dilettante. Aveva dalla sua il fatto di poter usare le mani, cosa da non sottovalutare mai. Alla fine lo prese tra le labbra e cominciò a farlo scorrere avanti e indietro nella sua bocca, sempre carezzandomi e stuzzicandomi i testicoli con la punta delle dita. Ogni tanto i nostri sguardi si incrociavno e nel suo brillava la soddisfazione di vedermi godere.
Si levò di bocca il mio missile e mi fece sedere di nuovo sulle sue ginocchia. Lo baciai sulla bocca e la sua lingua saettò tra le mie labbra. Contro la pelle continuavo a sentire il raso della vestaglia e della camicia da notte, quella sensazione di lucido e morbido che mi si strusciava addosso. Le sue labbra scorrevano umide di saliva, sotto le mie, si liberavano e riafferravano a loro volta la mia bocca. La sua lingua si muoveva lenta contro i miei denti, sul mio palato, contro le mie guance.
A un tratto smise di baciarmi e mi spinse dolcemente indietro.
«Mettiti in ginocchio e prendimelo in bocca, amore.»
Era quasi un rantolo ma non ammetteva replica. Mi trovai inginocchiato tra le sue gambe con il suo uccello che sfregava contro le mie guance, tozzo e duro come un palo della luce. Lo carezzai a lungo con le labbra e ne leccai l’asta soda e vellutata con la lingua. Lui si afferrò il pacco e lo tirò indietro mettendo davanti alla mia bocca il lembo di pelle tra scroto e sfintere. Lo baciai piano e lo stuzzicai con la punta della lingua, scendendo lentamente verso la rosetta del suo sedere.
Questo lo mandò davvero in visibilio. Gemeva e sospirava strusciandomelo sulla faccia, muovendo piano i fianchi per farsi baciare dove più gli dava piacere. Si chinò in avanti, mi prese le guance con entrambe le mani e mi infilò la lingua nella bocca. Il suo grosso uccello pulsava rigido contro il mio petto mentre le sue dita coperte di raso scorrevano sulle mie guance e sul collo. Si tirò nuovamente indietro e mi costrinse a riprendere in bocca il suo sesso eccitato. Era grosso e rigido e dovevo umettarlo bene di saliva per fare in modo che scorresse liscio tra le mie labbra. Muovendo piano la testa avanti e indietro accompagnavo il movimento del suo bacino e intanto accarezzavo l’asta con la lingua, avvolgendola e leccandola con metodo. Lui gemeva e ansimava come un mantice. Si sfilò dalla mia bocca una volta ancora e mi baciò ancora, succhiandomi avidamente le labbra.
In quella fece il suo ingresso Rossana spingendo avanti a se una Nadifa inerte, con le mani legate dietro la schiena.
Fabryzia mi spinse indietro e io finii seduto sui miei talloni. I nuovi arrivati vennero verso di noi. Nadifa sembrava uno zombie, il rosso, al contrario era nudo sotto la vestaglia di raso color tortora, che portava aperta in un lucido e serico svolazzare che accompagnava ognuno dei suoi passi. Il suo sesso penzolava molle tra le gambe.
«Dobbiamo andare» disse spingendo Nadifa su uno dei divani, «bisogna che ci diamo una mossa.»
Fabryzia sembrava piuttosto seccato per essere stato interrotto mentre il sottoscritto, docile e premuroso, gli stava facendo un servizio coi fiocchi.
«Prendi la negra» sbottò indicando la ragazza, «portala di sopra, legala, imbavagliala e chiudila in una stanza.» Scostò una ciocca di capelli che gli era andata negli occhi e continuò. «Non rompermi il cazzo per un quarto d’ora, poi ci cambiamo e leviamo le tende.»
Rossana con aria scocciata afferrò Nadifa per un braccio e la rimise in piedi.
«Cerca di darti una mossa.» sibilò rivolta verso di noi. Poi spinse la ragazza davanti a sé e uscirono dalla stanza.
Fabryzia mi prese per le spalle e mi attirò verso di sé.
«Adesso finiamo la nostra scopata poi porto sopra anche te» mormorò ricominciando a baciarmi con passione. Lasciai che le sue labbra succhiassero le mie e che la sua lingua esplorasse per qualche momento la mia bocca, poi mi ritrassi.
«Cosa intendi fare?» domandai.
Carezzandomi l’uccello provo ancora a baciarmi ma io scostai il viso. Si lasciò sfuggire un sospiro contrariato. «Vi lasciamo qui legati e ce ne andiamo» sbuffò. «Farò in modo che in qualche ora riusciate a liberarvi. Nel frattempo noi saremo già lontani.»
«E questa casa?»
«Non so nemmeno chi siano i proprietari. So solo che sono in viaggio all’estero per un paio di mesi.»
Ridacchiò attirandomi in un ennesimo bacio lascivo e indecente. Siccome ero in ginocchio sarebbe stato un delitto non approfittarne, così mi ritrovai di nuovo in bocca il suo uccello che nel frattempo si era un po’ ammosciato ma che tra le mie labbra riprese rapidamente corpo. Lo succhiai per bene mentre lui gemeva di piacere muovendolo avanti e indietro sempre più in fretta. Venne all’improvviso senza lasciarmi il tempo di sfilarmi e il suo seme caldo e denso mi riempì la bocca. Per impedire che mi scivolasse in gola mi sfilai il suo palo dalle labbra e sputai tutto quanto sul tappeto persiano che avevo sotto le ginocchia.
Mentre riducevo drasticamente il valore di quel mediocre Bukara, il mio sguardo cadde sul tavolino di legno accanto a me. La mia pistola era lì, appoggiata sul piano del tavolo, nera, bella, il calcio di legno scuro che chiamava la mia mano.
Fabryzia mi prese per le spalle e mi attirò verso di se.
Presi la mia decisione in un decimo di secondo.
Invece baciarlo, come si aspettava, mi sollevai e feci come per sedermi nuovamente sul suo grembo ma invece di farlo, approfittando delle gambe larghe, le appioppai una tremenda ginocchiata nei gioielli di famiglia. Si chinò su se stesso senza fiato, rosso come un peperone e io caddi all’indietro sul tappeto. Vidi che, nonostante il dolore che gli bloccava il respiro, cercava di alzarsi per potermi afferrare. Inarcai la schiena e con uno sforzo bestiale, riuscii a far passare le mani sotto al sedere e mi ritrovai con i polsi legati al di sotto delle cosce.
Nel frattempo, ancora senza fiato, lui si era faticosamente tirato su dalla poltrona, lo sguardo carico di odio e una mano guantata protesa verso la mia arma. Con l’altra si reggeva ancora i cocci fra le gambe. Le mie cellule grigie ragionavano a mille. Capii che non ce l’avrei fatta a far passare i piedi attraverso le braccia prima che lui riuscisse a prendere il revolver. Piegai le ginocchia fino in fondo e lasciai partire un calcio con i controfiocchi.
La pedata lo prese in pieno in mezzo al petto e lo scagliò con violenza contro lo schienale della poltrona. Questa diede il giro ed entrambi rovesciarono rovinosamente all’indietro facendo un baccano d’inferno. Con uno sforzo riuscii a far passare i piedi e le ginocchia attraverso le braccia legate. Ero praticamente libero, mi voltai e afferrai la pistola.
Più che vederla percepii un’ombra che mi volava addosso. D’istinto, afferrai l’arma e ruotai furiosamente il braccio verso la figura indistinta di Rossana, praticamente già sopra di me. Il cozzo violento tra il metallo della pistola e la sua fronte produsse un rumore sordo, come quando Gerard Depardieu si getta dal secondo piano su un mucchio di scatole di cartone. Lo vidi volare indietro e rotolare ai piedi del divano. Se non gli avevo rotto la testa poco ci mancava. Sulla porta, Nadifa pietrificata osservava la scena a bocca aperta.
Mi voltai verso le poltrone e scorsi Fabryzia che si trascinava a piccoli passi verso la piattaia di legno scuro. Con la coda dell’occhio vidi la piccola pistola automatica di Rossana appoggiata sul piano accanto alle bottiglie.
Sollevai il busto e mi voltai verso di lui, una gamba ad angolo retto e il ginocchio dell’altra posato sul pavimento. Lo presi di mira reggendo la pistola con entrambe le mani.
«Lascia perdere» ringhiai alzando il cane della berta. «non riusciresti nemmeno a toccarla.»
Si immobilizzo e sollevò le mani a mezz’asta. Guardò verso la pistola del rosso che si trovava a poco più di un metro da lui. Potevo sentire i sui ingranaggi frizionare mentre valutava se tentare di prenderla o lasciar perdere. Si mise dritto e buttò il fiato fuori dai polmoni.
Fece un mezzo giro verso di me. «Ok» disse umettandosi le labbra asciutte, «possiamo metterci d’accordo, posso darti un sacco di soldi.»
Era in pedi, in controluce davanti alla finestra leggermente curvo per il dolore all’inguine e le mani sollevate,.
Ci guardammo negli occhi per qualche secondo.
«Sei stato tu a costringere il tuo amico a violentare Nadifa» dissi a denti stretti. «Il rosso fa solo quello che gli dici tu.»
Mi guardò con un sorriso beffardo.
«Macché violentare» rispose con tono stanco. «Rossana e la negretta si sono fatti una bella scopata.»
Tirai il grilletto e la Colt Lawman saltò fra le mie mani con un botto secco e potente.
La sua spalla destra ebbe un sobbalzo, la tenda dietro di lui si mosse appena e il vetro della finestra andò in frantumi con uno schianto. Da parte a parte, come gelatina.
Mi guardò a bocca aperta, lo sguardo sorpreso. Poi le gambe cedettero smettendo di tenerlo in piedi. Si appoggiò al muro e si lasciò scivolare per terra mentre una smorfia di dolore gli contorceva i lineamenti.
Mi alzai in piedi e mi avvicinai, le braccia abbassate e la pistola puntata verso il pavimento.
Bassi era bianco come un cencio, il braccio destro inerte e la mano sinistra che reggeva mollemente la spalla ferita. «Sei pazzo…» biascicò, «un pazzo bastardo…»
Una piccola pozza di sangue scuro prese a formarsi di fianco a lui.
Probabilmente avrei avuto dei guai ma mi sentivo alla grande.
Mi voltai. Nadifa mi stava guardando appoggiata alla parete di fondo, le mani dietro la schiena e le labbra schiuse dalla sorpresa.
Presi la piccola automatica sul piano della piattaia e andai verso di lei. Posai le pistole sul cassettone e la feci voltare. Le liberai i polsi, poi fece lo stesso con i miei. Eravamo liberi sul serio ma nessuno dei due disse una parola.
Il rosso si mosse gemendo sul tappeto. Gli andai vicino, lo sollevai per le spalle e lo appoggiai di schiena contro il divano. Era palliduccio anche lui. Un rivolo di sangue, poco più rosso dei suoi capelli, scendeva da una larga lacerazione a lato della fronte e gli colava lungo la guancia e sul collo.
Mi accovacciai di fianco a lui.
«Devi darmi l’indirizzo di questo posto» dissi scuotendolo per una spalla «il tuo amico ha bisogno urgente di un’ambulanza.»
Mi guardò con aria confusa, poi si riprese e sputò fuori l’indirizzo.
«Adesso stai qui bravo e non ti muovere.» Ordinai.
Aveva ripreso rapidamente la sua arietta insolente. Si protese rapido verso di me e prese il mio labbro inferiore nella sua bocca. Lo succhiò piano per un paio di secondi, poi lo lasciò lentamente scorrere tra le sue labbra finché con un lieve schiocco non ne venne fuori.
«Lo so che ti faccio impazzire» mormorò con voce effeminata, «e il tuo culo è un pezzo di burro.» Sorrise lascivo.
«Ti farò visita in galera» replicai sorridendo a mia volta, «così mi dirai come i tuoi compagni di cella trovano il tuo.»
Mi alzai per raggiungere Nadifa. La presi tra le braccia e la strinsi forte. Tremava come una foglia. Sentii le sue dita sottili che si posavano carezzevoli sulla mia schiena.
«É finita» mormorai, «ma non posso perdonarmi per quello che ti è successo.» La guardai negli occhi. «É un grosso peso sul cuore.»
Mi sorrise e si strinse a me. «Non c’era bisogno di sparargli» disse parlando contro il mio petto, «ma quando lo hai fatto ti avrei voluto baciare.»
Sollevò il viso e le sue labbra si posarono sulle mie. Era bella da togliere il fiato. La baciai piano, delicatamente, stringendola tra le braccia.

Udii l'ambulanza che partiva a sirene spiegate. Presi il telefono e composi il numero dell’ufficio.
«Capo!» gridò Valeria non appena ebbe riconosciuto la mia voce. «Dove diavolo sei finito? Sono due giorni che ti sto cercando!»
Le raccontai più o meno quello che era successo e le dissi che le avrei detto di persona il resto dei particolari. Diedi l’indirizzo della villa e le chiesi di precipitarsi qui con qualcosa di pulito da mettermi addosso, poi riagganciai.
Lasciai gli sbirri in salotto e salii al piano di sopra. Mi ero infilato i calzoni di Rossana arrotolandoli abbondantemente sulle caviglie.
Trovai Nadifa nella camera dove ci avevano tenuti legati. Aveva indosso la corta vestaglia di seta viola di Fabryzia. Era tranquilla adesso, quasi luminosa, e quella vestaglietta le stava da dio. Mi avvicinai a lei.
«Adesso arriva la mia segretaria e ti riportiamo a casa» le dissi guardandola negli occhi.
Mi ringraziò con un sorriso. Prese a giocherellare con le dita sul bordo dei miei calzoni, solleticandomi l’addome. Io feci lo stesso con le falde della vestaglia. Adesso che tutto era finito un lieve imbarazzo si era creato tra noi.
«Va tutto bene?» Le domandai in un soffio. «Sei sicura?»
Fece cenno di si con la testa.
«Non voglio perderti» sussurrai attirandola a me. «Ma mi rendo conto che quello che è successo tra noi… La nostra intimità voglio dire… Mi rendo conto che…»
Non mi lasciò finire. Mi baciò sulla bocca e si strinse contro di me.
«Accompagnami a casa» mormorò, «ho bisogno di restare sola con te.»
Uno sbirro bussò alla porta. «Mi scusi» disse, «di sotto la stanno cercando.»
Lasciai Nadifa e lo seguii. L’ultimo sole del pomeriggio filtrava attraverso le tende. Mentre uscivo dalla stanza avevo ancora in bocca il sapore delle sue labbra.
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