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Gay & Bisex

Chi comanda?


di Zibibbo2
25.06.2023    |    7.229    |    6 8.9
"Non puoi trovare un’altra soluzione?” Mi guardò con i suoi occhi scuri..."
Al solito, mi contatta con un messaggio.
“Ho bisogno di un passaggio in centro, oggi pomeriggio.”
Al solito, tento di fare il prezioso.
“Sono un po’ impegnato, oggi.”
“Dai, non farti pregare.”
“Ma poi stiamo un po’ assieme?”
“Vediamo.”

Questa conversazione si ripete sempre simile, più o meno, da quasi un anno, almeno un paio di volte alla settimana. Vorrei poter dire che in tutto questo tempo ho imparato qualcosa, che ho capito che non devo farmi mettere i piedi in testa da un ragazzetto, ma non è la verità. Lui mi ha in pugno, anche se di fatto usa modi gentili, e sa come farmi fare quello che vuole. Dosa con una certa maestria la quantità delle sue attenzioni e le cose che posso fare con lui, mi fa vivere di gocce che mi devo far bastare. E io gli sono devoto.
L’anno scorso era arrivato per una sostituzione di poche settimane nella ditta in cui lavoro io, attraverso il lavoro interinale. Subito non mi aveva colpito, forse per l’età giovane: ventidue anni, alto e magro, con i capelli corti e lo sguardo sempre serio e assorto. Non dava molto confidenza, non solo a noi dell’azienda ma anche agli altri ragazzi più giovani; se ne stava in disparte, osservava attento quello che accadeva attorno a lui, non parlava. Di contro era un ottimo lavoratore: molto interessato a capire come funzionavano i macchinari a cui era stato assegnato e in particolare alla programmazione della linea.
Dopo la prima settimana di lavoro, il capoturno mi aveva parlato durante una pausa.
“Senti, hai presente quello nuovo?”
“Beh sì, non è che ci abbia parlato molto, ma…”
“Senti questa: ho scoperto oggi che non ha la macchina.”
“Ah.”
“In pratica ogni mattina prende due autobus per arrivare, parte alle cinque di mattina. Cose fuori di testa.”
“In effetti…”
“Ti volevo chiedere un piacere: visto che non abita distante da te, gli puoi dare un passaggio? Ma solo se non ti chiedo troppo.”
“Figurati.”
Il nostro capoturno è davvero una persona per bene: ci tiene che tutto funzioni al meglio e si fa in quattro per cercare delle soluzioni. In passato mi aveva aiutato in un paio di situazioni complesse, non potevo negargli il piacere. Quindi mi sono accordato con Martin, questo il nome del ragazzo, per passarlo a prendere l’indomani.
I viaggi in auto fino alla fabbrica erano silenziosi. Martin continuava a essere introverso, rispondeva a monosillabi e con un tono di voce piuttosto basso alle mie domande, tanto che dopo i primi giorni avevo lasciato perdere. Avevo notato che non era poi così magro come mi era sembrato: aveva due gambe massicce, frutto di anni di calcio (come ero riuscito a farmi dire in un raro momento di conversazione). Aveva anche due belle spalle e, cosa a cui non avevo fatto caso subito, due piedi belli grandi, purtroppo sempre chiusi nelle scarpe.
Un giorno, appena saliti in auto a fine turno, mi aveva chiesto se potevo accompagnarlo a ritirare una cosa che aveva ordinato in centro; mi sembrava gentile accontentarlo, e quindi dissi di sì. Poiché però non era arrivato quello che cercava, risalendo in macchina mi chiese se potevamo fare lo stesso anche il giorno dopo. Al che gli risposi: “Senti, Martin, per me non è un problema portarti al lavoro, però non posso scarrozzarti in giro per la città. Non puoi trovare un’altra soluzione?”
Mi guardò con i suoi occhi scuri. “Posso pagarti, se vuoi.”
“Ma non è questione di soldi!”
“Non intendevo soldi.” Mi prese la mano destra e me la portò sul suo pacco. “Ho visto che mi guardi, possiamo giocare.”
Ero sconvolto per due motivi: intanto quella era la frase più lunga che mi avesse rivolto, e poi perché mi sentivo scoperto. Mantenni una forma di calma. “Meglio che ne parliamo in un posto tranquillo.”
Cercai un posteggio più appartato, fuori dal centro abitato: una zona in cui sapevo non sarebbe passato mai nessuno, nel cortile di una fabbrica dismessa. Mi slacciai la cintura, poi mi rivolsi a lui: “Vuoi dirmi cosa ti passa per la testa?”
“Nulla. Era una proposta.”
“Sei gay?”
“No.”
“E allora?”
“E allora per me non è un problema farmi toccare un po’ e farti divertire. In cambio di qualche passaggio.”
“Lo fai spesso?”
Si chiuse nelle spalle. “No, ma adesso toccami.” Mi prese la mano e se la portò sul petto. Quasi in trance, iniziai a sfiorarlo. Lui mi guardava sornione, con una nuova luce negli occhi. “Tocca bene, tocca tutto quello che vuoi.”
Fu allora che si tolse la maglietta, con un gesto rapido. Aveva un petto ampio e tonico, con due capezzoli grandi e invitanti. Iniziai a pizziccarli e lui chiuse gli occhi, mordendosi al contempo il labbro inferiore. Con l’altro mano iniziai a esplorare la forma di quel torace, del cenno di peluria in mezzo ai pettorali e della linea che scendeva verso l’inguine. Il suo corpo era tonico e giovane, la pelle liscia ricopriva fasci di muscoli in tensione, che facevano sussultare il mio tocco.
Mi avvicinai per baciarlo. Quasi avesse presagito cosa stavo per fare, spalancò gli occhi: “Non sono frocio”, mi disse, fissandomi. Ero a pochi centimetri dal suo viso; non si era neppure scostato, non aveva esitato, eppure avvertivo un ordine imperioso in quelle parole e in quegli occhi che non si staccavano da me. Non aveva alcun timore; il timido ragazzo che avevo giudicato troppo in fretta ora stava mezzo nudo sotto le mie mani e mi proibiva di baciarlo.
Forse per tentare di riprendere il controllo, abbassai la mia mano verso il suo pacco. Con un gesto gentile ma deciso mi fermò. “Questo, la prossima volta.”
“Ma, prima…”
“Prima era per farti capire.”
Tutto ciò era perversamente arrapante. Mi stava proponendo un patto: potevo giocare con lui e con il suo corpo in cambio di qualcosa.
Mi appoggiai al sedile.
Lui però non smetteva di guardarmi.
“Adesso, segati.”
“Adesso?”
“Sì, adesso. Davanti a me.”
Mi aprii la patta dei pantaloni. Il mio cazzo saltò fuori, tanta era l’eccitazione di quello che stavo facendo, aumentata per altro dal fatto di non essere in un luogo riservato. Certo nessuno sarebbe passato di lì, eppure il pensiero che potesse capitare…
Strinsi la mia asta. Lui era sempre fermo sul sedile, sempre senza maglietta. Iniziai a fantasticare sul suo cazzo e sui suoi piedi: me li avrebbe mai mostrati? E poi, mi avrebbe scopato un giorno? O saremmo andati avanti così? Mi immaginai su un letto, a gambe aperte, e lui che mi penetrava fissandomi intensamente. Immaginai il suo cazzo dentro di me, la punta grossa che pulsava e mi mandava in estasi; il suo viso che si contraeva in smorfie di piacere, perchè si sarebbe scaricato dentro di me…
E venni. All’improvviso, come un pivellino, mi sborrai addosso.
Per tutto il tempo lui era stato impassibile, ma non si era rivestito; solo quando vide il liquido bianco che formava un piccolo grumo prese la maglietta e si rivestì. Io, stordito, mi pulii alla meglio con un fazzoletto di carta. Poi senza dire una parola misi in moto e mi avviai verso il punto in cui lo lasciavo di solito.
Prima di scendere, disse il solito “A domani” e si allontanò, come se nulla fosse successo.
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