Gay & Bisex
Giochi di sperma


19.01.2011 |
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"Come infatti feci, un bellissimo pompino di venticinque minuti nei cessi dell’aula magna, durante la cerimonia per la consegna delle borse di studio..."
Ho sempre amato il succo di maschio, quel nettare in grado di mandarmi in estasi. L’ho sempre considerato la conclusione giusta di un rapporto sessuale, il frutto di tutti i miei sforzi messi in atto per soddisfare l’altro, o gli altri, qualora avessimo giocato in gruppo. Per questo mi sono sempre prodigato a prendermi cura del cazzo dei miei ragazzi, anche dopo che avevano raggiunto l’orgasmo, continuando a cullarlo nella mia bocca, a baciarlo, a stimolarne l’asta e l’ampia cappella, sebbene la maggior parte fosse restia a giocare ancora e i loro piselli tendessero a restringersi subito dopo. A volte, ciò ha istigato in me un senso di fallimento, di delusione, quasi ne fossi io la causa, quasi non fossi abbastanza eccitante, abbastanza erotico, da stimolarli ancora. Ricordo ancora la contentezza di quando, in terza superiore, finalmente riuscii a succhiarlo ad Andrea, il classico fighetto con le gambe storte e la camminata da calciatore che tutte le ragazzine adolescenti di una scuola di provincia adoravano. L’avevo incontrato per caso durante il primo anno, nei giorni di autogestione, e da allora era scattata una sorta di venerazione inconscia, che spesso, durante le mie notti solinghe, diveniva una polluzione istantanea al solo pensiero di lui che montava sopra di me. Dentro di me.Mi ci vollero tre anni, e tanta attesa tra sospiri e lavori di mano, per riuscire a farlo mio. Anzi, per essere fatto suo, dato che, come mi ebbe a dire quel giorno, lui non era affatto un frocetto, mio pari, ma aveva solo voglia di svuotarsi le palle, compito che avrei dovuto eseguire alla perfezione. Come infatti feci, un bellissimo pompino di venticinque minuti nei cessi dell’aula magna, durante la cerimonia per la consegna delle borse di studio. La solita noia di fine anno, resa più interessante, quella volta, dai diciotto centimetri di Andrea che affondavano veraci nella mia bocca. Al termine, un bello schizzo abbondante, non troppo denso, che mi scivolò con cura lungo il palato, mentre io continuavo a succhiare avidamente l’asta della mia felicità. O meglio, avrei voluto continuare, poiché non appena Andrea se lo ebbe scosso, se lo rimise nei pantaloni della tuta e se ne andò. E tutte le altre volte in cui riuscii a succhiarglielo, di solito nei bagni della scuola, il procedimento si rivelò lo stesso.
Persi quindi fiducia nel pompino, nella catarsi che lo schizzo finale dell’uomo da me bramato, e finalmente avuto, doveva inculcarmi e iniziai a dedicarmi prevalentemente al sesso anale. Del resto, per quello, non importava essere particolarmente coinvolti; era sufficiente girarsi, inarcare il posteriore (e devo dire di aver sempre avuto un bel posteriore, sodo al punto giusto) e lasciare che gli uomini dessero libero sfogo ai loro istinti primordiali, fottendomi, montandomi, infilando in profondità quel che Madre Natura aveva creato tra le loro gambe. Certo, a volte era divertente, era eccitante, e anche doloroso sentirsi slabbrare così a fondo, con così tanta forza, ma altre volte, complice la minor larghezza dell’uccello del momento, poteva diventare terribilmente tedioso. Come quando Daniele, bellissimo ragazzo livornese, surfista, pettorali da sballo che avrei solleticato con la lingua per ore, mi scopava. Pur con tutto il suo sex appeal, pur con la bellezza naturale dei posti in cui era solito portarmi con la sua Peugeot, pur con tutto l’amore di questo mondo, non credo di aver mai avuto un orgasmo con lui. Del resto, con quindici centimetri non era affatto facile far godere un culo che era già stato allargato al punto da poterci infilare quattro dita di una mano. Non gliel’avevo mai detto, per non mortificarlo, ma una volta ero stato scopato anche da due cazzi contemporaneamente, proprio nel campo accanto al quale eravamo soliti parcheggiare l’auto, ai cui finestrini aperti spesso mi appoggiavo, fumando una sigaretta e guardando il cielo, mentre Daniele si affannava alle mie spalle, nel disperato tentativo di farmi godere e riempirmi di quelle poche gocce di sperma che quella sera sarebbe riuscito a produrre.
Ah, la vita, che delusione può essere a volte.
Questo pensai, finché Stefano non comparve nella mia vita. Alla mirabile età di ventotto anni, quando, devo essere onesto, il mio fisico era nel suo periodo migliore. Non avendo un lavoro all’epoca, passavo molto tempo in palestra, per svagarmi, e avevo messo su un corpicino capace di eccitare gli omosessuali nascosti tra le quattro mura dell’Olympia Gym, che spesso non mancavano di sorridermi o darmi pacche sul culo, con l’intenzione non troppo nascosta di palpare quanto fosse sodo. Stefano, per l’appunto, era uno degli istruttori, di non ricordo bene cosa, forse funky. In tutta onestà non credo di aver mai prestato alcun interesse per altri aspetti della sua vita che non fossero quella parte del corpo che andava dal suo ombelico alle cosce, perché era la parte più perfetta che avessi mai vista. Tonico il sedere e, nonostante i calzoncini (o forse proprio per quelli?), enorme il pacco. Quelle forme appetitose che, anche se non viste direttamente, attirano l’occhio e ti portano a chiederti quanto splendide saranno se libere di uscire da quei calzoncini e svettare verso il cielo.
Non fu affatto facile soddisfare le mie fantasie, perché Stefano era etero, o così tutti lo credevano. Era fidanzato, e qualcuno diceva che presto si sarebbe sposato. Con una sciacquetta, mi ripetevo io, ogni volta che la vedevo spuntare in palestra, agitare la borsetta di Luis Vitton e chiamarlo, con quella stridula voce da gallina, per discutere in quale costoso ristorante sarebbero andati a cena quella sera. Come potevano, mi chiedevo, invidioso al massimo, le pulsioni sessuali di Stefano trovare degna soddisfazione in lei? In quell’ochetta giuliva e sterile che, scommetto, si lamentava ogni volta che il siluro killer del suo ragazzo premeva sulle labbra della sua passerina, troppo strette per accoglierlo, troppo noiosa per farsi scopare come una vacca in calore. Come io non avrei avuto remore alcuna a fare.
L’occasione, ghiotta, molto ghiotta, si presentò qualche mese dopo, durante la cena di fine estate organizzata dalla palestra. I proprietari affittarono un gazebo ad uno stabilimento balneare di Lido di Camaiore, scelta che si rivelò felice, poiché passammo una bella serata. Serata che si rivelò decisamente più interessante quando seppi, da Stefano stesso, che la sua ragazza l’aveva lasciato, perché stufa del troppo tempo che lui dedicava alla palestra, e quindi al suo lavoro.
Storie da film, mi dissi quella sera, quando Stefano mi si sedette accanto, parlando in continuazione e raccontandomi la fine delle sue vicende amorose. Era triste, o così diceva di essere, ma a me tutto sembrava meno che la personificazione del dolore per la fine di una storia. Sarà stato l’alcol, sarà stata l’atmosfera festosa, o forse l’emozione di averlo accanto, di sentire le nostre gambe che si strusciavano sotto il tavolo ogni volta in cui ci muovevamo, ma quella sera ero particolarmente eccitato. E, a un certo punto notai, anche Stefano lo era, dato che di frequente allungava la mano per toccarsi il pene, vistosamente ingrossato nonostante i jeans.
Alla fine della cena, verso le undici, i vari invitati iniziarono ad andarsene e Stefano mi chiese se volevo fare un giro sulla spiaggia, così raggiungemmo la battigia, iniziando a camminare scalzi sulla rena, con le onde che ogni tanto ci schizzavano. Ridevamo, ed eravamo felici, come una coppia vecchia di cent’anni. Poi, stanchi, ci lasciammo cadere su due sdraio, proprio di fronte al mare, continuando a chiacchierare mentre la notte avanzava. A un certo punto Stefano mi sorprese, dopo aver maledetto più volte la sua ex, dicendomi di aver un disperato bisogno di farsi una sega. E, senza che io potessi replicare alcunché, abbassò i jeans svelando l’oggetto dei miei sogni proibiti. Il suo cazzo. Un cazzo che, a riposo, oscillava tra i dieci e i quindici centimetri, un grosso salsicciotto la cui rosata cappella sporgeva nascosta da quella morbida pelle che avrei voluto leccare avidamente. Se lo toccò, scappellandolo, e iniziò a masturbarsi, socchiudendo gli occhi e lasciandosi cullare dal ritmo della sega.
“Eh no!” –Gli dissi io, deciso ormai a tentare il tutto per tutto. –“Non devi segarti! È un gran spreco di sborra!”
“Hai ragione!” –Disse lui, con un sorriso malizioso. E mi prese la testa, piegandomela sul suo cazzone. –“Fammi un pompino, così non andrà sprecata!”
Io non esitai minimamente, aprendo la bocca e iniziando a lavorare quella bistecca succulenta di carne di uomo. Nonostante tutte le delusioni avute alla fine di ogni pranzo sessuale, ero certo che quella non avrebbe potuto deludermi. No, da un cazzo del genere, da un uomo del genere, che trasudava sensualità in ogni mossa, avrei potuto ricevere solo litri di sborra. E non mi sbagliavo.
Gli succhiai il cazzo per ventidue minuti, senza smettere mai, nemmeno per riprendere fiato. Eccitato, coinvolto, estasiato dal poter finalmente assaporare quel che avevo a lungo bramato e, dai mugugni soddisfatti di Stefano, capii che il mio lavoro lo stavo proprio facendo bene. Quando infine sollevai lo sguardo da quei ventiquattro centimetri di carne, dura e turgida, osservando il bel demonio che mi aveva a lungo torturato, pregustando quel che credevo sarebbe stato lo schizzo della mia vita, Stefano mi guardò sorridendo.
“Non penserai che sia già finita, no?” –E mi fece cenno di alzarmi e rivestirmi. –“La notte è giovane e noi abbiamo ancora parecchie cose da fare!” –Si rimise l’uccello nei jeans e si incamminò verso l’uscita dalla spiaggia, facendomi cenno di seguirlo.
Montai in macchina con lui, che mi piegò di nuovo sul suo cazzo, facendosi fare un veloce pompino nei pochi minuti che ci separavano da casa sua. Appena entrati, appena richiuso il portone verde del suo appartamento, mi sbatté al muro, lasciando cadere chiavi e portafoglio a terra, e mi infilò la lingua in gola, iniziando un bacio che proseguì per numerosi minuti. Quando si staccò, indicandomi il divano poco distante, già mi aveva infilato la mano destra dietro ai pantaloni, solleticandomi il buchetto del culo con le dita, sempre continuando a ridere con quel suo modo porco e malizioso. Quel modo che mi eccitava da matti.
Mi tolse maglietta e pantaloni, gettandomi a pecorina sul divano e tuffandosi con la faccia tra le chiappe sode che, scherzando scherzando, più volte aveva palpato. Sentii la sua lingua conficcarsi nel mio buchetto, aprirlo, andare in profondità, esplorare ogni cavità di quel luogo che presto avrebbe accolto la fonte della vita. Infine, quando lo ebbe lubrificato bene, si sollevò e mi piantò dentro il suo cazzo, in piena erezione. Ebbi un sussulto, all’inizio, perché era decisamente più grosso di quanto credessi e sebbene le mie pareti anali fossero state dilatate parecchio nel corso dei quindici anni della mia vita sessuale non riuscii a trattenere un grido quando la sua cappella mi spaccò lo sfintere, premendo dentro di me. Stefano mi agguantò il collo, mentre io inarcavo il culo, facendogli posto al suo interno, e poi iniziò a fottermi, a cavalcarmi come avevo sempre voluto. Era un vero stallone, migliore di ogni sogno erotico che avevo avuto su di lui. Mi scopò a pecorina, mi scopò in piedi, mi scopò sdraiato sul tavolino da caffè, guardandomi in faccia e godendo del mio sorriso di vittoria. Lo sapeva, quel porco, che lo avevo sempre voluto e adesso mi stava dando quel che a lungo avevo bramato.
Dopo due ore era ancora lì, a montarmi sul divano, io ormai con il buco completamente dilatato, bagnato di sudore e dei miei umori, ma non ancora di quel che volevo. Disperatamente volevo.
“Non ti stanchi mai, eh?!” –Mi sussurrò, chinandosi su di me.
“Non nelle cose che mi piacciono!” –Risposi. –“Sei bravo!”
“Ti piace? L’ho visto fare su Machofucker! Hai presente? Tutti quei cazzoni che scopavano a pelle quei culi rotti riempiendoli di sborra? Minchia, l’avrei voluto fare con Lisa, ma quella troia si è sempre rifiutata!!!”
“Ora puoi farlo!” –Commentai io, fiero di aver sopravanzato quella sciacquetta insoddisfacente.
“Lo so! Ora ho la mia troia!” –Mi disse lui. E non appena cercai di protestare, facendogli notare che ero comunque un maschio, lui spinse ancora più volte, strappandomi un grido, di godimento estremo e dolore.
Ormai il suo uccello era enorme, lo sentivo riempire tutto lo spazio scavato all’interno del mio ano. Premeva sulle pareti, causandomi orgasmi continui, pronto per esplodere in tutta la sua maestosità. Ma Stefano, non contento, mi tirò giù, dicendo che voleva vedermi in faccia mentre mi inseminava.
“E’ questo che sei adesso, la mia donna da inseminare!” –Mi disse, mentre mi apriva le gambe, mettendosele sulle spalle. –“Prometti che onorerai e rispetterai in tutti i modi la santità del mio sperma? Senza sprecarlo, senza rifiutarlo, senza gettarlo via anche qualora fosse in abbondanza?!”
“Lo prometto! Lo prometto!” –Gridai, stringendo i denti. –“Sborra, cazzo, sborra! Riempimi!!”
Allora Stefano me lo piantò nel culo, fissandomi e sbattendomi per tre colpi d’anca. Al quarto già sentivo lo schizzo pulsare dalla sua cappella direttamente dentro di me. Finalmente! Finalmente, Dio, finalmente! Lo avevo così tanto voluto e adesso era lì, libero di sguazzare dentro di me. E non fu un solo schizzo, fu una moltitudine. Non vedendoli, non seppi con precisione il loro numero, ma superarono di certo la decina a giudicare dalle grida e dalle smorfie di godimento a cui Stefano si abbandonava. Godeva, come un cane in calore che ha trovato la cagna da fottere. Io ero la sua cagna ed ero fiero di esserlo.
Quando l’ultimo schizzo uscì dalla sua cappella, mi aspettai che Stefano mi togliesse il cazzone dal culo, immaginandolo grondare moscio e bagnato. Invece quel bel porcellino affascinante dimostrò ancora una volta di essere degno discendente di una stirpe di maschi meridionali, gran trombatori, come suo nonno era solito parlare di sé, alla luce dei sette zii che aveva dato a Stefano. Non solo non lo tolse dal mio culetto, ma continuò a fottermi, come nulla fosse, allungandosi a volte per baciarmi in bocca, strizzandomi l’occhio soddisfatto. Un quarto d’ora dopo decise infine di mettere la parola fine allo sfruttamento di quello che lui stesso definì il più bel culo che avesse mai sfondato. E, posso metterci la mano sul fuoco, decisamente mi aveva sfondato. Credo che sarei stato in grado di prendere un’intera mano e parte del braccio dentro di me.
“Vuoi provare?” –Ironizzò Stefano, prima di buttarsi sopra di me e baciarmi. Con amore, con passione, con quella dolcezza che in quelle tre ore di sesso selvaggio era stata opacizzata dal cavalcare imperterrito. Mi baciò, e scese con la lingua lungo il mio corpo, giocando con i miei capezzoli turgidi, navigando sui miei addominali, sprofondando nell’ombelico e leccandomi infine l’uccello.
Avevo già sborrato due volte, mentre Stefano mi scopava, certo che quell’esemplare perfetto di maschio non mi avrebbe mai succhiato. E invece eccolo lì, a gustarsi fino in fondo i miei diciotto centimetri, a lavorarli di gusto, con la bocca, in quello che scoprii essere il suo primo pompino. Mi fece godere, impazzire direi, portandomi ad allungare le braccia di lato e ad afferrare il lenzuolo del divano. Infine mi fece sborrare, tanto, forse quanto lui aveva sborrato in me. E, per par condicio mi disse, adesso io avrei sborrato in lui.
La raccolse tutta nella sua bocca, continuando a baciare e a succhiare il mio pisello, stanco per l’ottima prestazione, quindi, sempre baciandomi il corpo e facendomi rabbrividire ad ogni tocco delle sue labbra latine, risalì fino alla mia bocca, aprendomela poco dopo con la lingua e lasciando fluire il succo di maschio all’interno della gola del suo produttore. Fu un bacio bellissimo, vischioso, colmo di tutta la passione che c’era stata tra noi quella notte. Fu un bacio che non accennava a finire, poiché la sborra era davvero tanta e nessuno dei due voleva ingollarla subito. Volevamo giocarci, volevamo passarcela di bocca in bocca, assaporando quei deliziosi filamenti di latte e saliva, sentendoli attorcigliarsi alle nostre lingue, fecondarci il palato, lubrificarci i denti. Quella sborra era, come avevo sempre voluto, il frutto della nostra unione. Per lo meno una parte, quella visibile. Quella non visibile era scomparsa dentro il mio ano, e presto, quella che inghiottii in quell’interminabile incrocio di lingue, l’avrebbe raggiunta.
Da quella notte appartenni a Stefano. E lui a me, uniti da un giuramento sottile come i filamenti di sperma che ci scambiammo e che continuammo a scambiarci per tutti gli anni successivi. Anche adesso, a quarant’anni, Stefano è sempre un gran figo, quel manzo latino che tutti in palestra ammirano. Se i suoi figli diverranno come lui, saranno certamente dei gran trombatori. Molto porcelli, proprio come il padre, che non ha mai rinunciato al piacere di quei giochi di sborra che solo con me poteva provare.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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