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Lui & Lei

una stella in febbraio


di Membro VIP di Annunci69.it giullorenzo
18.01.2017    |    1.867    |    0 5.0
"“Siamo andati sul mare e non c’era la spiaggia, solo rocce nerastre..."
Una stella, in febbraio.

La routine di ogni giorno è saltata, perché la neve ha trasformato la città in uno strano magmatico ammasso di bianchi e di neri. E c’è un silenzio irreale nelle strade coperte da uno strato di ghiaccio rigato dalle pale degli spartineve. Qualche macchina, lenta, che compare e scompare senza alcun rumore; poche persone a piedi, costrette sulla strada dai marciapiedi stracolmi di neve schiacciata, montagne di neve. Neve bianchissima dove nessuno l’ha toccata, neve picea sporcata dalle auto e gettata a mucchi fianco alle strade, contro i cancelli e i muretti dei palazzi del centro. Bianchi e neri, e silenzio.
Vado a piedi al lavoro, con le labbra che sentono il gelo e aria calda che mi esce dal naso come un fumo sottile e leggero, quasi a dire che dentro di me non c’è il freddo ma un caldo profondo. I semafori il fumo i motorini i bar e la musica dei tram dei SUV e dei clacson sono spariti nel nulla. Si, è febbraio, ma stavolta si sente l’inverno perché la neve ha riportato un tempo, un orologio, una stagione. Qui normalmente potrebbe essere sempre anche luglio o settembre, perché i colori gli odori e la luce non cambiano mai: la città è un senso unico enorme e infinito sempre uguale a se stesso, come ogni città. Ma oggi no: bianchi e neri e silenzio, freddo intenso e caldissimo fumo che esce: è febbraio.

Mauro arriva col suo fuoristrada, mi sorpassa a tre metri dal solito portone grigio. Mentre entra e parcheggia io fumo, perché poi non mi va che un amico di mio marito mi veda fumare in ufficio e magari pensi a me come a una qualunque, io che non alzo mai gli occhi a guardare i maschi, che mi vesto sempre semplice, pulita e elegante, che non mostro mai il seno e che sono davvero una brava signora che pretende rispetto e lo merita.
Si, forse anch’io sono sempre la stessa che sia luglio o settembre: una stella come tutte le altre, senza strani colori, senza troppi profumi. Ma oggi questo silenzio, e la neve, e la strana città che ho sentito al mio fianco… oggi anch’io sento come un contrasto, bianchi e neri, freddo duro e gelato all’esterno e qualcosa di caldo e profondo che si muove in un luogo indeciso tra lo stomaco e giù, dentro, in fondo. E’ febbraio e c’è un tempo, un orario, una stagione.

Devo telefonare a Francesco, sto pensando mentre salgo le scale per provare a tornare tra le anonime stelle, devo farlo sennò se la prende. E’ un marito fantastico, si, dolce, attento, sempre uguale a se stesso e mai sopra le righe… ma è febbraio, e mi viene il pensiero che Francesco è anche tanto seccante in quel suo monumento vivente alla nostra società, è noioso e pedante con quelle sue “mission”, se le porti all’inferno: è febbraio, più fa freddo e più il caldo si muove laggiù, dentro me.
Ma è un momento, e mi sento più libera un attimo dopo mentre entro in ufficio. Un ufficio è comunque un ufficio, la mia scrivania è mia perché c’è la mia agenda bianca e blu, c’è la sagoma del registratore, c’è la mia penna d’argento. Ma anche un matrimonio è così, rassicura proprio perché lo si fa già sapendo ogni volta dove lui toccherà, cosa vuole che tu faccia in fretta e cos’altro non fare, e anche i corpi sempre uguali a se stessi, e le voci, le emozioni ogni volta più lente, meno tese, più spente… Chiudo gli occhi e distendo le gambe sotto la scrivania. E quel caldo da dentro sale su come un sogno, un lunghissimo sogno. E c’è Mauro, nel sogno, proprio lui, la sua faccia, i suoi capelli neri e le mani, grandi, forti decise.
Un bussare leggero, una porta che cigola, i miei occhi si aprono: Mauro è entrato e sorride. Io lo guardo, ma una parte di me non è uscita dal sogno. Nel mio sogno Mauro porta un berretto, nel mio ufficio ora invece ha i capelli all’indietro e tirati col gel. Parla col suo tono abituale, professionale ma dolce, tra un “ti seduco” e un “ti allontano”, e accavalla un ginocchio sull’altro. Sa che ha davanti la lucida e gelida stella che ha sposato il suo amico, che ogni sera si accende e al mattino si spegne sempre uguale a se stessa, e che vuole da lui un lavoro preciso ogni giorno senza chiacchiere inutili e senza mai errori. E improvviso mi arriva il coraggio, senza proprio volerlo, le parole mi escono fuori da sole.
“Ti ho sognato, sai Mauro, dieci minuti fa. Mi ero appisolata per la stanchezza appena arrivata in ufficio! C’era un piccolo porto di mare con un lungo canale a dividere il mondo di qua dal paese di là, un canale scurissimo, lento, profondo. E era estate, una estate caldissima…”.
“Io dov’ero?”
“Eri dentro al mio mondo, di qua, camminavi al mio fianco, parlavamo di tutto e di niente”.
Non è vero, le parole non sono del tutto sincere. Io nel sogno lo tenevo per mano e provavo pian piano a infilare le mie dita tra le sue, una alla volta. Lui mi lasciava fare, poi all’improvviso strinse forte la mia mano e a quel punto non lo so se parlavo, qualche cosa di strano mi stringeva lo stomaco e accecava i pensieri.
“C’era un ponte a metà del canale, con un traffico enorme, tutti andavano a velocità folle e passare era come buttarsi dentro ad un frullatore chiudendo gli occhi per non vedersi morire”
“Io ce l’ho un frullatore, mia figlia non mangia la frutta e mia moglie gliela deve frullare, con qualche carota”.
“Neanch’io mangio la frutta. Sai, nel sogno fumavo…”.
“Fumi sempre e non dovresti, lo sai quanto scoccia a Francesco…”.
“Si, ma in sogno fumavo la pipa, come un uomo, come un sano ispettore Maigret! Poi, passato quel ponte, il paese era strano per essere al mare, tutto rosa come un borgo montano ma i negozi fatti come a Parigi, oro e tanti vestiti…”
“Io dov’ero?”
“Camminavi con me, te l’ho detto, parlavamo del nuovo progetto per il Ministero”.
No, bugia! Nel mio sogno la mia mano gli si era appoggiata alla spalla, la stringeva e si muoveva piano a scostare la camicia e a cercare la pelle, e la sua si era invece appoggiata al mio fianco, mi attirava al suo corpo camminando più stretti, e la voglia era che si spostasse, a toccarmi il sedere...
“Siamo andati sul mare e non c’era la spiaggia, solo rocce nerastre. Tu eri come Francesco, ti sentivo sicuro; e sentivo sparire ogni ansia, Ministero, scadenze, perché mi pareva che con te vicino non ci sarebbero stati problemi, che li avresti comunque risolti…”
Ma nel sogno in realtà io ero giunta alla pelle, carezzavo una spalla e dicevo “ho una voglia di te che mi ammazzo se non riesco a baciarti, si, mi ammazzo sul serio”, poi ridevo e buttavo la pipa nell’acqua, a far fumare i pesci.
“Sei carina a sognarmi così” - Mauro ha fatto una smorfia - “vorrà dire che sono importante anche se mi rompi le scatole tutti i giorni con le tue scadenze…”.
“Si, davvero, è importante sentirsi protetti in un lavoro come questo, e parlare e sentirsi capiti”.
Dentro al sogno in realtà mi ero messa in ginocchio, glielo avevo scoperto abbassando i calzoni e gli slip. Lo guardavo, rosa e teso davanti ai miei occhi, con la punta curvata un po’ a destra. La scoprivo con due dita, pianissimo, poi iniziavo a baciarlo e muovevo la lingua cercando di entrare in quel piccolo spacco. E lo sentivo crescere tra le mie labbra e gonfiarsi, finché non fu durissimo, ed allora lo succhiavo con rabbia, lo ingoiavo e subito lo lasciavo andare, con la mano sinistra gli tenevo ben stretta la base e la destra era dietro e lo portava verso di me, palpandogli il sedere come fosse un’arancia. Mauro allora ansimava, le sue mani grandissime a tenermi la testa e a cercarmi i capelli, e le macchine e il mare e i negozi non c’erano più.

In ufficio in febbraio c’è molto lavoro, il telefono squilla e la gente ti chiama, bussa, chiede, pretende. Meno male… Ora Mauro se ne deve andare, c’è da fare, da correre, da realizzare. Lo saluto strizzandogli l’occhio con un piccolo vezzo che non mi ero mai permessa prima, e lui allora sorride, si avvicina e mi bacia una guancia, anche questo è nuovissimo tra di noi, un bacetto leggero come fossi una bimba. Non lo sa che nel sogno la mia lingua lo leccava laggiù: il suo bacio è un saluto, esce, e sono al lavoro.
E ora scorro l’agenda, poi rispondo al telefono una, due, cento volte; ma ho una voglia tremenda di chiudere gli occhi e riprendere il sogno, mi divora, mi costringe a staccare il telefono e a chiudere gli occhi. Perché ora nel sogno ci siamo spostati dentro un grande giardino, e i rumori del porto non si sentono più, solo il caldo e le stelle sperdute in un immenso cielo, tutte fatte diverse, strane, piene di punte e di luci dal giallo più pallido al rosso deciso e a un bianchissimo che sembra ghiaccio. Ci sediamo sul prato, Mauro allunga una mano, tira su la mia maglia e comincia a toccare e a strisciare; io sto immobile, adesso, e mi sento sudata e mi lascio toccare, in silenzio. Poi anch’io allungo una mano e gli sfioro le labbra e gli accarezzo il viso.
E’ un segnale, come quello del capotreno al macchinista. Mauro comincia a spogliarmi, sempre più svelto, proprio come il treno quando parte. Comincia dalle scarpe, me le toglie e sfila via i calzini sottili a righe colorate che porto sempre d’estate; sbottona i miei jeans e li toglie, poi sfila la culotte e mi viene da aprire le gambe, più che posso. Lui mi toglie la canotta, sbottona il reggiseno e lo lascia cadere. Non parla, non si spoglia, con le braccia mi gira, pancia in giù, poi allarga le mie gambe. Io non parlo, sono solo eccitata e lo aspetto, e una voglia tremenda sta infiammando il mio sesso e lo bagna. Lui mi si stende sopra, sento che si sta aprendo i calzoni e poi subito lo sento entrare. Dio, mi scopa, è bellissimo sentirlo dentro che si muove pian piano, che si appoggia al clitoride facendomi avere mille brividi dentro, poi si spinge là in fondo, e mi apre, e mi gode.
Ma si ferma di colpo, esce e con una mano mi allarga le cosce, e poi subito un dito bagnato di saliva densissima mi entra dietro, forte, dritto, deciso. So che è un sogno perché non mi brucia quel suo dito che si muove là dentro; spingo appena, c’è una parte di me che lo vuole cacciare per tornare a svegliarmi ma ce n’è pure un’altra, più decisa e che invece lo tira più dentro. Mauro ha tolto il suo dito, ora sento il suo viso accostarsi e la lingua leccare là dietro e cercare di entrare anche lei. Poi saliva, e saliva, e saliva, e la lingua che la spinge dentro. E mi tira un po’ su con le mani, fino a mettermi appena in ginocchio, e mi allarga le gambe e io sento il suo pene che si appoggia e che spinge, che mi vuole aprire. No, non è più un pene, adesso, non è un organo maschile in erezione: è un cazzo, un cazzo durissimo e caldo, un cazzo che comincia a entrare dietro mentre il mio corpo lo spinge e si apre, fino a portarlo dentro.
Lui si muove adesso, sempre senza parlare, lo spinge sempre più in fondo e sembra che a ogni sua spinta quel cazzo diventi più duro e più grosso. E mi prende sui fianchi, i suoi colpi sono sempre più forti, si, mi sbatte, mi sbatte. Non facciamo l’amore, no, Mauro usa il mio corpo; non facciamo l’amore, Mauro mi sta inculando. E il bruciore si fonde a un piacere tremendo, ogni istante è più intenso, a ogni colpo mi viene la voglia di urlare, dire “ancora, dai ancora”... Quando infine lui viene io lo sento, e poi lui piano piano mi si sgonfia là dentro, come quando si buca una palla. Lascia andare i miei fianchi e si alza.

Apro gli occhi, ora dentro l’ufficio c’è un qualcosa di strano, un odore dolciastro. Sarà Mauro, con quei suoi dopobarba, avrà usato una qualche pomata, antirughe antistress antitutto. Sarà Mauro, con le sue spalle dolci e gli occhioni…
Dio, devo telefonare a Francesco. E c’è tutta la settimana da impostare, da progettare... altro che sogni! Sogni? E se fossi io? Se quel sogno fossi semplicemente e banalmente io? Mando al diavolo questa mattina, esco in mezzo alla neve e cammino. Passo un ponte, guardo il fiume coperto di ghiaccio: gelido, come la vergogna che provo. Un semaforo, rosso: come la mia voglia di farmi sbattere, di farmelo mettere dietro. Io, io. Io, seria e vogliosa, impeccabile e puttana, io deliziosa e ripugnante. Io, io. Io con un finto presente, io con storie inventate, io che fumo la pipa e la butto nel mare; io, io…

Torno indietro e risalgo in ufficio, lascio la giacca a vento e la borsa, attraverso il corridoio buio e entro nell’ufficio di Mauro, senza bussare.
“Si, sono presa da te, ma stavolta non è come al mare, questa volta è diverso e si fa come dico io!”
“Cosa dici? Cosa al mare?”, con lo sguardo stupito da inferiore che non si aspettava un rimprovero.
“Lo vedrai, lo vedrai…”
Mauro guarda il mio volto deciso senza dire più nulla, forse pensa che sono impazzita col freddo, o chissà, sta provando a considerare un qualcosa che non si aspettava. Io mi giro, chiudo a chiave la porta e sbottono la camicetta sotto il maglione a V, perché so che il mio seno sa attirare gli sguardi e anche altro. Lui si alza, sta cercando una qualche parola, forse vuole scappare ma non gliene do il tempo, passo dietro la sua scrivania e gli prendo la mano. Poi lo spingo contro il muro, lo giro e mi ci metto dietro.
“Resta fermo così”.
Mauro è in piedi, con la faccia sul muro. Le mie mani gli si stringono ai fianchi, poi sbottonano svelte e sapienti i calzoni e li lasciano scendere giù fino a terra, e poi subito prendono i boxer e anche loro finiscono giù, sulle caviglie. Ha un sedere stupendo, teso, tondo e tirato.
“Resta fermo così” – e la voce stavolta mi si è fatta profonda, eccitata e eccitante – “apri un poco le gambe”.
E mi metto in ginocchio, con la testa appoggiata alle natiche, piano piano lo apro con le mani che mi si son fatte di colpo forti esperte e decise, con una lo mantengo largo e con l’altra scivolo davanti, gli prendo il pene e lo accarezzo. Lo sento crescere, indurirsi. Mauro è immobile, trema e non sa se parlare, e siccome non sa tace e mi lascia fare. Io gli stringo la punta, poi pian piano scendo giù e lo masturbo, scivolo all’indietro e striscio sul solco che divide le anche, una due dieci volte, ripetendo precisa e paziente lo stesso percorso.
Il suo pene ora è duro come io lo volevo e il respiro di Mauro si è fatto affannato, eccitato, quasi ansante. Ecco, è questo il momento: mi fermo all’improvviso, bagno un dito con la mia saliva e lo poso sopra il buco dell’ano e poi spingo, oscillando, una spinta ed un tocco più lieve, una, due, dieci volte.
”Resta fermo così”.
E affondo la faccia dove prima era il dito e lecco, proprio dentro il suo buco, lo lecco e lo riempio di saliva.
“Tocca a te, questa volta, non parlare e stai fermo, si così, fermo e zitto”.
E Mauro all’improvviso molla la presa e rilassa i muscoli, si apre alla mia lingua umida che lo cerca, e io colgo quell’attimo, mi sposto e entrò forte col dito, senza perdere neanche un secondo. Mugola, il damerino, non capisco se è un gemito del suo dolore per quel dito cacciato là dentro o se invece è soltanto piacere, se si gode questo strano diverso e perverso piacere.
Il suo pene ora è un cazzo, come dentro il mio sogno, è diritto e durissimo, e io allora tiro fuori quel dito, quasi a toglierli il piacere sottile che stava cominciando a sentire, porto una mano davanti e ricomincio a masturbarlo. Lo stringo muovendo la mano dalla punta alla base, forte, violenta, e con l’altra gli accarezzo i testicoli e li sento gonfiarsi, sento lo sperma che sta piano piano salendo e che vuole scoppiare. Ma mi fermo di colpo, porto ancora la mano di dietro e entro dentro di nuovo. Questa volta due dita, e non ferme: ora svelte si muovono come a scoparlo e gli aprono il culo spostandosi indietro per poi subito entrare là in fondo, sempre più veloci, sempre più decise.
Mauro mugola, il suo sperma è salito e lui adesso gode, viene contro il muro mugolando e ansimando. L’altra mia mano gli vola sulla punta del pene e raccoglie il suo seme, bianco e denso; tolgo via le due dita e gli rientro dentro con la mano tutta piena di quel caldo che gli ho sottratto, una, due, poi tre dita.
Mi alzo in piedi, lo bacio sulla nuca.
“Resta fermo così”.

Me ne vado lasciandolo lì in piedi, mezzo nudo e in silenzio.
Si, è febbraio, e stavolta si sente, questa neve ha riportato un tempo, un orologio, una stagione. E una donna, una stella nella sera colorata e diversa da tutte le altre.
Devo telefonare a Francesco, adesso.
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