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La stagione dei silenzi


12.04.2025 |
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"Le negai l’orgasmo, poi glielo concessi solo quando tremava troppo per restare in ginocchio..."
Era arrivata con passo incerto, ma lo sguardo abbassato non tradiva debolezza: piuttosto, una curiosità pericolosa. Di quelle che si fingono timide per avere il tempo di scegliere a cosa arrendersi.La cascina era immersa nel silenzio. Fuori, la campagna lombarda respirava lenta tra nebbie di marzo e odore di legna bagnata. Dentro, c’era solo il suono del camino e del suo respiro irregolare.
L’avevo chiamata senza spiegazioni.
"Domani, alle diciassette, in cascina." Lei aveva detto sì. Senza domande, senza condizioni. Non che le avrei concesso il diritto di porle.
La guardai mentre si toglieva il cappotto, le mani leggere, incerte, quasi volesse darsi il tempo di capire se era pronta. Ma non era quello il punto. Non le era richiesto essere pronta. Le era richiesto solo di fidarsi.
"Spogliati."
La mia voce ruppe il silenzio come un colpo secco di frusta. Lei si fermò un istante. Non per paura, ma per rispetto. Poi obbedì. Piano.
La osservai. Ogni bottone, ogni gesto era una resa, ma anche un'affermazione. Sapeva che la stavo guardando come si guarda un oggetto prezioso, non per la fragilità, ma per il valore. Non le serviva sentirsi bella. Voleva sentirsi posseduta. E io ero lì per quello.
Quando rimase nuda, mi mossi attorno a lei senza toccarla. La studiavo come si studia una creatura che si è scelta con attenzione: un corpo vero, adulto, con la storia scritta sulla pelle e la fame negli occhi.
Le indicai il tappeto. "In ginocchio."
Lo fece senza fiatare, le ginocchia affondate nella lana grezza. Quel contrasto, tra la sua pelle e la rudezza del tessuto, era già di per sé un atto di sottomissione. Ma era ancora poco.
Mi chinai accanto a lei, affondando le dita tra i suoi capelli. Le tirai indietro la testa, piano. Non con brutalità, ma con la precisione di chi conosce esattamente il punto in cui una donna smette di ragionare e inizia a sentire.
"Stai ferma."
Le sue pupille tremarono. Non per paura. Per desiderio. Quello vero, profondo, non negoziabile. Il tipo di desiderio che brucia solo quando smetti di pretendere il controllo.
Iniziai a toccarla con lentezza chirurgica. Nessuna fretta. Ogni gesto era un messaggio, ogni pausa un castigo.
Le parlavo a voce bassa, come si parla a chi è già oltre il confine del pudore.
'Tu non sei qui per piacere. Sei qui per offrirmi il tuo corpo. Il tuo piacere è un premio, non un diritto."
Le sue cosce tremavano. La sua bocca era semiaperta, ma muta.
Le stavo insegnando a stare in silenzio. Un silenzio che grida più di mille parole.
Non aveva bisogno di gentilezze. Aveva bisogno di dire sì senza mai pronunciarlo. E io le stavo dando esattamente quello: un luogo dove non essere più padrona, ma proprietà.
Quella notte non fu tenera. Fu vera.
La usai con la calma di chi non ha bisogno di dimostrare nulla. Le ordinai, la corressi, la guidai. A volte con una carezza, più spesso con una presa decisa. Le negai l’orgasmo, poi glielo concessi solo quando tremava troppo per restare in ginocchio. E lo fece piangendo. Non di dolore, ma di liberazione.
Quando finimmo, lei restò lì, stesa sul tappeto, il viso girato verso il fuoco. Io la guardavo, seduto, con una sigaretta accesa e la pace dentro.
Aveva dato tutto. Io avevo preso tutto. Ed entrambi sapevamo che non sarebbe stata l’ultima volta.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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