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Le vacanze di René - 11


di July64
10.05.2017    |    17.266    |    6 9.5
"La baciai sul collo, ancora sulle labbra, che lei dischiuse, lasciandomi toccare con la mia lingua la sua..."
Le vacanze di René - parte undicesima


Alla luce di un lampo apparve, come un fantasma cattivo, un’ondata altissima che si stava abbattendo sulla barca; mi avvicinai a mio padre e a zio Marcel e strinsi le loro braccia. Volevo evitare che uno di noi potesse essere trascinato in mare. Forse pensavo, ingenuamente, che la mia forza, peraltro notevole, fosse sufficiente a trattenerli. Riuscivo a vincere il freddo soltanto perché spinto della disperazione. Il tempo trascorreva inesorabile, ma la tempesta non accennava a diminuire. Le ondate si facevano sempre più alte e minacciose. Cominciai a provare paura di morire.

Per fortuna mio padre e zio Marcel riuscivano, con il loro comportamento freddo e quasi distaccato, a non farmi vincere dalla disperazione e dall'angoscia. Come si legge nei romanzi, vidi scorrere tutta la mia vita – breve – dinanzi ai miei occhi, comprese le sconvolgenti avventure con mia madre, con mia sorella, con Annette ed Edith. Pensai che era una tragedia immane non poter più averle con me: mi sentivo stringere lo stomaco in una morsa.

Con angoscia pensai a loro, sottocoperta: dovevano essere certamente impaurite, ma forse anche per noi che eravamo lì in coperta a combattere contro la tempesta.

Le onde continuavano ad abbattersi con forza sempre maggiore sulla barca, che emetteva strani scricchiolii, come se lo sforzo di resistere alle onde fosse eccessivo e lo scafo stesse quasi per cedere. Rimanevamo aggrappati a tutti sostegni della cabina di pilotaggio nonostante il mare facesse di tutto per farci perdere l’equilibrio. La faccenda stava divenendo davvero seria. Mi rendevo conto che la barca, pur progettata per affrontare qualsiasi mare, non avrebbe resistito ancora per molto ai colpi inferti allo scafo da quelle ondate mastodontiche.

Osservando l’altezza delle onde mi ritrovai a pensare che una di esse, abbattendosi sulla barca, avrebbe potuto affondarla. Per fortuna i motori resistevano ancora: se avessero ceduto saremmo rimasti completamente in preda alla forza della tempesta, anche se non sapevo quale funzione potessero ancora avere e, soprattutto, dove ci stavano conducendo.

L’urlo del vento e lo scroscio dei marosi, uniti insieme, producevano un rumore assordante, che impediva qualsiasi conversazione. Ma nessuno di noi tre, in cabina di comando, aveva voglia di parlare; riuscivamo soltanto a tenerci per le braccia, cercando di non essere catapultati fuori e risucchiati dalle onde. Per questo motivo avevamo perso ogni contatto con il resto dei familiari al sicuro (per modo di dire!) sottocoperta: era divenuto impossibile attraversare quel tratto di ponte che ci separava dall’accesso al sotto ponte.

La tempesta ci martellò ancora per tanto tempo, ma noi resistevamo. Pensavo alla mamma, non potevo accettare di averla appena scoperta in tutta la sua dolcezza e poi di perderla in quel modo drammatico. E poi le mie sorelle, le zie, i nonni, Edith, Annette, la mia maestra di sesso. Non potevo credere che quella stupenda vacanza, appena iniziata, potesse finire così tragicamente.

Era scesa la notte, ma lo avevamo rilevato solo guardando gli orologi, perché il colore del cielo non era mutato: nero assoluto da ore. Improvvisamente la forza del mare sembrò scatenarsi ancora di più: montagne di schiuma bianca spazzavano il ponte, portando via tutto quello che vi si trovava. Mi chiesi il perché di questo cambiamento e la spiegazione la trovai scritta sul viso terrorizzato di mio padre:

“René, gli scogli! Ci stiamo dirigendo verso una scogliera!” mi gridò.
”Il mare fa tanta schiuma perché si infrange contro gli scogli, dobbiamo virare, presto!”.

Si aggrappò al timone e tentò di girarlo, ma in realtà non sapevamo in che direzione dirigere la barca, perché il mare ribolliva di schiuma tutto intorno. L’imbarcazione rispondeva appena ai comandi del timone, tanto era sballottata dalle onde. Il rumore era divenuto ancora più assordante. Ora si notavano chiaramente le creste di schiuma bianca e ribollente prodotte dall’infrangersi del mare su una sconosciuta barriera corallina polinesiana. Che posto strano per terminare l’esistenza, mi dissi mentalmente, mentre tremavo letteralmente di paura e di freddo.

“Tenetevi forte!” gridò ad un tratto mio padre. Mi accorsi che stavamo avvicinandoci ad una velocità fantastica alla scogliera, non più spinti dal motore, ma trascinati da una corrente impetuosa.

Un fragore assordante ci avvertì che la chiglia aveva urtato contro la barriera di scogli. La barca vibrò e iniziò ad inclinarsi: io realizzai che tutti i miei cari che avevano trovato rifugio sottocoperta rischiavano di morire prima di noi, annegati nell’acqua che presumevo stesse entrando a fiumi dalle falle che l’urto con la scogliera doveva aver prodotto. Stavamo facendo la fine del Titanic. Ma non potevo permetterlo, li amavo troppo.

Più per un moto di incoscienza pura che per eroismo, lasciai le braccia di mio padre e di mio zio e contemporaneamente mi divincolai dalla loro presa sulle mie braccia, catapultandomi verso la porta che separava la scala che scendeva in coperta dal ponte. Scivolai, un’onda mi travolse, mi aggrappai a qualcosa di freddo e duro che mi fece male ad un braccio, approfittai di un attimo di pausa tra un’ondata e la successiva e raggiunsi finalmente la porta. La aprii e gridai in direzione della scala: “Uscite tutti, salite, presto, presto!!”

Udii distintamente lo scalpiccio prodotto dai piedi delle numerose persone impaurite, che, al buio, salivano la scala. Riconobbi mamma, nonna, le accarezzai e dissi loro: “Restate qui, vi prego, non tornate giù, tra poco sarà pieno d’acqua, state aggrappati al corrimano, va tutto bene!”

Non so come mi venne di pronunciare quel “va tutto bene”, dato che io, per primo, stavo morendo di paura. Riaffrontai nuovamente la tempesta per tornare vicino a mio padre e in quell’istante, un urto ancora più forte fece sbandare la barca. Riuscii a stento ad aggrapparmi alla ringhiera di ottone che sovrastava la balaustra, mentre la barca si piegava su di un fianco.

Mio padre e mio zio furono sbalzati fuori dalla cabina di pilotaggio e solo per un dono della sorte non finirono in mare: nonostante una cascata di acqua avesse spazzato il ponte, trascinandoli verso l’oceano ribollente, la paratia li fermò all’ultimo momento. Scivolando sulle assi rese viscide dall’acqua, li raggiunsi affannosamente e li aiutai a risollevarsi. Sfruttammo un altro attimo di pausa della tempesta per riguadagnare il precario riparo costituito dalla cabina di pilotaggio semiaperta. Imprecavo contro le forze della natura che avevano deciso di scatenarsi tutte insieme in quel momento.

Ma quale risultato avrebbero potuto avere in quel momento le mie imprecazioni? La barca continuava la sua corsa spinta da quell’uragano spaventoso, verso gli scogli di un atollo sconosciuto. Infatti, nello sforzo di fronteggiare la tempesta e di evitare di essere spazzati via dalle onde, nessuno di noi aveva più seguito la rotta.
Il vento ed il mare avevo trascinato l’imbarcazione verso quegli scogli che certamente non erano previsti sulla rotta tracciata da mio padre prima della partenza.

La barca procedeva inclinata, con la chiglia evidentemente squarciata dagli scogli contro i quali il mare l’aveva scagliata. Un’ondata più alta delle altre sollevò lo scafo e lo trascinò ancora avanti, facendolo girare su se stesso. Un altro urto scosse lo scafo, altri scogli ne avevano rallentato la folle corsa impressa dalle onde. Le ultime luci ancora accese sul pannello di controllo si spensero ed il buio fu totale. Era la fine.

Mio padre mi strinse forse al petto. “Figliolo, ti voglio bene” furono le ultime parole che udii, perché un altro urto, il più forte, mi scagliò lontano. Scivolai per tutta la lunghezza del ponte, fino alla poppa, perché la barca, con i motori spenti e completamente priva di controllo, si era impennata per l’ultimo tremendo cozzo contro gli scogli. Mi ritrovai a pensare che la barriera corallina, quel meraviglioso fenomeno della natura che mi affascinava così tanto, sarebbe stata la causa della mia fine.

Un urto fortissimo della mia spalla contro la paratia mi lasciò stordito, mentre venivo trascinato in mare dalle onde. “Papàaaaa, aiuto!” furono le ultime parole che pronunciai.

L’impatto con l’acqua fredda nella quale ero stato trascinato riuscì a liberarmi dallo stordimento, mentre un dolore sordo mi attraversava la spalla destra, completamente intorpidita dall’urto contro la paratia. Iniziai a dimenarmi per cercare di nuotare e soprattutto di non bere: mi rendevo conto che sarei immediatamente annegato. Ringraziai mentalmente il giubbetto di salvataggio e la mamma che mi aveva sollecitato tanto a seguire le lezioni di nuoto. Ero riuscito a conseguire il brevetto di 6° grado, quello che mi abilitava al salvataggio ed ora dovevo mettere in pratica tutte le cognizioni acquisite per tentare di salvare me stesso. Nonostante i miei sforzi, il mare continuava a trascinarmi via, sempre più lontano dalla barca. In pochi attimi non riuscii più a distinguerne nemmeno la sagoma.

Cominciai a rigirarmi sul dorso e mi accorsi che, come per incanto, che il mare era improvvisamente divenuto più calmo. Cosa era accaduto? E la barca? E i miei cari? Nel buio non ne distinguevo nemmeno la sagoma. Mille domande si affollavano nella mente, ma a nessuna di esse avevo una risposta.

Stavo nuotando in uno specchio di mare quasi tranquillo, se paragonato all’uragano che poche centinaia di metri oltre si stava scatenando. Finalmente, dopo tante congetture, avevo capito!
La barca aveva urtato la barriera corallina, quella che, come in quasi tutti gli atolli, protegge l’isola dal mare aperto e forma una laguna separata dall’oceano. La barriera costituisce quindi una specie di frangiflutti, che impedisce al mare in tempesta di distruggere l’isola.

Il buio era assoluto, ma l’unica cosa che compresi era che avrei dovuto nuotare verso la direzione nella quale il mare si mostrava più calmo. Vedevo, ormai in lontananza, stagliarsi contro il buio del cielo la schiuma bianca delle onde che si frangevano sulla barriera contro la quale aveva cozzato la nostra barca. Ma i miei cari, dove erano finiti? Erano salvi, o tutti morti? L’angoscia mi attanagliava lo stomaco, quasi impedendomi di nuotare.

Non so per quanto tempo ancora rimasi in mare, nuotando faticosamente e scompostamente verso le acque più calme. Dopo tanto tempo, penso ore, cominciai a tremare per il freddo, sia per la permanenza in mare, che per lo shock e per la paura di aver perso i miei cari. Quando pensavo di non farcela proprio più e mi stavo facendo vincere dallo scoraggiamento, iniziai a sentire sotto i piedi qualcosa di solido, che assomigliava ad un fondo sabbioso.

Mi rincuorai: avevo ragione. Nuotando verso la parte più calma dovevo aver raggiunto la riva dell’isola. Il fondo si avvicinava sempre più ai miei piedi. Non riuscivo più a contenere il tremito convulso che ormai sconvolgeva tutto il mio corpo. Lo stomaco mi bruciava da morire, anche per tutta l’acqua salata che avevo ingurgitato. Ma il mare ormai era quasi completamente calmo e riuscivo a stare in piedi perché la superficie arrivava fino al mio petto, poi allo stomaco, poi alle ginocchia: ero arrivato sulla riva!

Mi buttai sulla sabbia, sfinito, cercai di scavarmi una specie di buca per cercare di vincere il freddo che mi attanagliava e scoppiai a piangere disperatamente. Tremavo come una foglia scossa dal vento e il tremito durò a lungo. Per fortuna la sabbia aveva conservato un po’ del calore del giorno e mi stava pian piano riscaldando. Ero sfinito e caddi in una sorta di torpore tragico.

Mi riebbi non so dopo quanto tempo. La tempesta aveva abbandonato l’isola nella quale avevo trovato rifugio. Rombi di tuono si udivano ancora in lontananza, simili a borbottii rabbiosi di un gigante, ed il buio della notte (e dell’uragano) aveva lasciato il posto ad un’alba grigia e livida. Ero ancora tutto coperto di sabbia. Mi risollevai piano, un dolore sordo si irradiava in tutto il braccio, conseguenza dell’urto contro la paratia della barca, ma il dolore fisico, ormai, era l’ultimo dei miei pensieri.

Mi alzai di scatto, dovevo cercare i miei: dov’erano finiti? Si erano salvati? Erano morti? L’angoscia mi lacerava nuovamente lo stomaco. Cercai di rendermi conto innanzitutto dove ero finito. Una spiaggia bianchissima era stata il mio rifugio e la mia salvezza. Un boschetto di palme da cocco si spingeva fin quasi sul mare, come nell’isola di Loanai, ma tutto era diverso, chissà dove mi trovavo.

Sulla sabbia non c’era alcuna impronta che facesse pensare ad altri abitanti dell’isola, ma visto il vento, la tempesta e le onde pensai che ogni traccia visibile era stata cancellata. La luce del giorno si faceva sempre più nitida anche se il sole non era ancora sorto. Mi dissi che era il momento di darmi da fare. La Polinesia era costituita tutta da isole, ero finito evidentemente su di una di esse e dovevo girarci intorno, dovevo cercare i miei, sperando che fossero approdati proprio lì e non scaraventati da qualche altra parte dall’uragano.

Mi incamminai sulla spiaggia, completamente deserta. Nuvole minacciose solcavano ancora il cielo, spinte da un vento possente di alta quota, ma la giornata, tutto sommato, si presentava abbastanza tranquilla. Io, però, non sapevo cosa fosse la tranquillità, ero annientato dalla paura per la sorte dei miei. Il cuore mi pulsava nel petto come se volesse uscirne fuori. Mamma, papà, le sorelle, le zie, i nonni, tutti quanti. I loro volti mi comparivano davanti come ologrammi. Pregavo in silenzio che non fosse loro accaduto nulla.

Il mio orologio subacqueo era ancora stranamente intatto e segnava le 5 e 13. Camminai per ore e ad ogni passo la mia inquietudine aumentava. Non c’era nulla in quell’isola. Non avevo né il coraggio, né la voglia di spingermi all’interno perché ritenevo che avrei potuto trovare qualche naufrago tra i miei cari solo sulla spiaggia, come del resto era accaduto a me.

Erano ormai passate le 10 e lo sconforto stava per sovrastarmi, quando, superato uno spuntone di roccia che si protendeva dal centro dell’isola verso la spiaggia, vidi un relitto adagiato su un fianco nella laguna: feci un salto di gioia: era una barca, la nostra barca!

Mi buttai in mare e, come un forsennato, attraversai lo specchio d’acqua che mi divideva dal relitto. La nostra barca era quasi completamente distrutta. Uno squarcio enorme nella fiancata, causato dagli urti ripetuti contro la scogliera corallina la faceva assomigliare ad una balena ferita a morte e spiaggiata. Era coricata su di un fianco perché il fondale era basso e soprattutto perché era piena di acqua.

La raggiunsi, mi arrampicai con una certa facilità sul ponte, ma non riuscivo a stare diritto, perché scivolavo via. Raggiunsi strisciando il boccaporto che conduceva sottoscoperta e cominciai a chiamare: “Papà, mamma, zio Marcel !”

Nessuno mi rispose. L’angoscia ricominciò a soverchiarmi. Dove erano finiti? Tutti morti? Tutti finiti in mare come me? Mi rifiutavo di crederci.

Ridiscesi dalla barca: la mia ricerca non era finita. Riattraversai lo specchio d’acqua calma della laguna e tornai sulla spiaggia. Una serie di orme sulla sabbia iniziò a rincuorarmi. Le orme si dirigevano verso il bosco di palme. Se una cosa non mancava in quell’isola erano le palme!

Il mio cuore cominciò ad aprirsi alla speranza: forse qualcuno dei miei cari si era salvato!

Cominciai a chiamare tutti “Mamma, Virginie, Jacqueline, zia July, zia Jen, Annette!”

Non mi rispondeva nessuno. Mi addentrai ancora di più nel bosco, lungo un sentiero non naturale, ma tracciato da mano umana: si vedevano le foglie delle piante più basse spezzate e l’erba calpestata.

Uno scricchiolio non ben definito mi fece sobbalzare. D’istinto mi ritrassi e cominciai ad indietreggiare verso la spiaggia. Giunto quasi al limitare del bosco mi fermai per verificare chi o cosa aveva prodotto quel rumore. Dovevo rendermi conto che non fosse qualche animale aggressivo. Mi accoccolai dietro ad un cespuglio, il cuore mi batteva tanto forse che immaginai che chiunque o qualunque cosa ci fosse dall’altra parte avrebbe avvertito distintamente il battito.

Era uno scalpiccio di piedi. Mi feci ancora più piccolo sotto il cespuglio e… riconobbi quei piedi: erano della mamma, del mio amore, della mia Mireille.

“Mamma!” dissi quasi singhiozzando.

Mamma sobbalzò, come se non credesse alle proprie orecchie e mi si fece incontro: “René, bambino mio!” quasi gridò mia madre. “Credevo di averti perso per sempre”. Mamma si avvicinò e mi abbracciò forte, mentre il suo petto veniva scosso dai singhiozzi: “Amore mio, Julien e Marcel mi hanno detto di averti visto scomparire in mare, trascinato via da un’onda. Non volevo vivere più, che vita sarebbe stata senza di te, amore mio, bambino mio.” Mamma si inginocchiò e cominciò a piangere a dirotto.

“Non temere,mamma, ho la pelle dura, io”. Le biascicai questa risposta cretina, ma in realtà il cuore mi era balzato in gola non appena l’avevo vista comparire tra gli alberi ed ero scoppiato a piangere. Mi inginocchiai anch’io insieme a lei, ci riempimmo di baci, sulle guance, sulla fronte, poi sulle labbra, il peso che avevo nel cuore si era finalmente alleggerito. Eravamo così felici di esserci ritrovati che ci guardavamo, poi ci accarezzavamo, come se fossimo talmente increduli di esserci rivisti che volevamo confermare la visione toccandoci, come per verificare che fossimo veri. Poi riprendemmo a baciarci. Ero al settimo cielo: mi resi conto proprio in quel momento che nemmeno io avrei potuto vivere senza di lei.

Riavutasi dalla sorpresa di avermi rivisto vivo, mamma cercava ora di sottrarsi ai miei assalti, ma senza molta convinzione, sia perché era felice, sia perché penso volesse lasciarmi fare, comprendendo anche la mia gioia.

“Dove sono gli altri?” le chiesi, senza allentare l’abbraccio.

“Ci siamo salvati tutti. Siamo un po’ malconci, specialmente i nonni, ma siamo tutti salvi. Siamo riusciti a scendere dalla barca che si è arenata qui davanti e ci siamo rifugiati in una radura interna non molto lontana, ma io non riuscivo a stare ferma, ero troppo preoccupata, ecco perché sono venuta verso la spiaggia, lo sentivo che stava accadendo qualcosa di meraviglioso! Tesoro mio, bambino mio, sei salvo, è il più bel regalo della mia vita!”

Io non smettevo di baciarla. “Mamma, non sarei vissuto senza di te, avrei preferito morire se tu non fossi sopravvissuta. Ti amo e non posso pensare ad una vita nella quale tu non ci sei!”

“Ti prego, René, smettila” cercava di dire mia madre.

Ma io non avevo alcuna intenzione di smetterla: ero troppo felice di essere ancora con lei. La baciai dolcemente, ma con insistenza sulle labbra, morbide e profumate di mare.

“Ma come fai a pensare a queste cose in questi momenti.” reagì mia madre. “Siamo stati per morire, ci siamo salvati per miracolo e tu pensi a queste cose!”

“Appunto perché è stato un miracolo io sono così felice e ti desidero come prima, anzi di più, perché per tante ore tragiche ho temuto di perderti” replicai.

“Renè, sei incorreggibile!” mi sgridò affettuosamente, passandomi una mano tra i capelli tutti incrostati di salsedine e di sabbia.

“Mamma, sei bellissima” le dissi accarezzandola dolcemente.

Indossava una pareo colorato, ma tutto sbrindellato, che, legato sotto le ascelle, le copriva a malapena le forme generose, racchiuse nel solito costume da bagno.

Le toccai dolcemente il seno grandissimo, appena contenuto nelle coppe del costume intero.

Mamma mi fece fare. La baciai sul collo, ancora sulle labbra, che lei dischiuse, lasciandomi toccare con la mia lingua la sua.

“René…” riuscì solo a dire mia madre.

Ero al settimo cielo, avevo ritrovato il mio amore, la persona che amavo di più al mondo.
Le feci scivolare in basso le spalline del costume da bagno, scoprendole il seno meraviglioso le presi un seno in ciascuna mano e mi accorsi che la mia mano era troppo piccola per racchiuderlo tutto.

“René, ti prego, possono vederci” ebbe appena la forza di dire mamma.

“Non ci posso fare nulla, mamma, possono anche vederci, ma ti desidero, ti amo e questo è il mio modo di rifugiarmi in te. Abbiamo temuto entrambi di aver perduto ciò che abbiamo di più caro, ora dobbiamo stare insieme. E’ una follia, lo so, ma io sono pazzo di te.”

Le baciavo le tette grandissime e morbide e lei mugolava dolcemente. Ripensandoci era folle quello che stavamo facendo, ma le emozioni avevano talmente sconvolto le nostre menti che quel gesto di improvvisa sconsideratezza era la cosa più lucida che ci si potesse aspettare da due pazzi come noi.

Le succhiai i capezzoli che erano diventati durissimi e mia madre fece un balzo, come per sottrarsi a quel tormento. Poi si riavvicinò, prese nelle mani il seno e me lo avvicinò perché lo baciassi ancora.

“Dai René, fallo ancora, fallo come quando eri piccolo. Ti porgevo il seno e tu me lo succhiavi, mi succhiavi via tanto latte ed era un godimento intenso lasciarmelo succhiare. Ora non c’è più latte, ma fallo ancora, ti prego.”

Mamma si era finalmente lasciata andare. Come se fossi stato digiuno da mesi mi tuffai su quelle tette enormi e le succhiai come se volessi trarne fuori tutto il latte che da anni non succhiavo più. Tenevo i capezzoli stretti fra lingua e palato e li succhiavo sentendoli indurire fra le mie labbra, prima uno, poi l’altro.

Mentre le succhiavo le tette le feci scivolare giù il pareo ed il costume da bagno insieme. Mamma profumava di mare. Si risollevò, fece scivolare via dalle gambe il costume da bagno, raccolse il pareo, fece qualche passo, lo stese sulla sabbia in un piccolo anfratto al riparo dei cespugli e vi si distese sopra, completamente nuda. Era stupenda.

“Tuo padre, le tue sorelle e zio Marcel stanno facendo il giro dell’isola, non torneranno, per ora.”

Queste parole di disponibilità ebbero l’effetto di accrescere la mia erezione già notevole e ben visibile. Mi accorsi di avere ancora indosso il giubbetto di salvataggio e me lo strappai di dosso, insieme al costume da bagno.

“Bambino mio” esordì mia madre alla vista della mia erezione e delle gocce di lubrificante che creavano un filo pendente dalla punta del mio pisello, “ma tu sei un fenomeno, mi chiedo come fai ad essere sempre pronto anche in una situazione come questa!”

“Questa è proprio la situazione che preferisco: stare con te, sempre con te.” riuscii a malapena a rispondere. Non riuscivo a staccare gli occhi dal corpo nudo di mia madre che si stava offrendo a me.

Mi distesi su di lei. Avvertii con il mio corpo il calore del suo. Il mio pisello ebbe un sussulto e trovò da solo la strada della sua fica.

“Ahhhhh” gemette mia madre quando la penetrai. “René, siamo due pazzi, ma anch’io ti amo e ti desidero tanto. Ho avuto momenti di terrore nero temendo di non vederti mai più.”

Cominciai lentamente a muovermi dentro di lei. Il mio lubrificante si spandeva dentro di lei facilitando i movimenti, ma ben presto il suo liquido si unì al mio, e rese ancora più piacevoli i nostri movimenti.
Mi rendevo conto che non era un desiderio sessuale, ma amore puro, la follia di due innamorati nella gioia di essersi ritrovate.

Il respiro della mamma cominciava a divenire sempre più affannoso.

“Dai René, spingi, forte, più forte, ahhhh, come è bello! Sì, così, ancora!”

In effetti non avevo alcuna intenzione di smettere, almeno fino a quando mia mamma non avesse raggiunto il suo orgasmo.

Mamma alzava le ginocchia per facilitare la penetrazione. Io mi sollevavo sulle mani per godere della vista del suo corpo meraviglioso. E davo spinte incredibili che la facevano sobbalzare tutta. Mi faceva impazzire vedere il suo seno che ondeggiava a causa delle mie spinte, con movimenti morbidi, in alto e in basso, spostandosi dal suo ventre al suo collo proprio come un mare in tempesta.

Mamma accettava i miei assalti con una espressione di grande godimento. ”Oh, René, mi fai godere, mi stai facendo impazzire, dai, continua, non fermarti!”

“Mamma, ti amo, voglio essere tuo!” riuscii a dire nell’affanno dei miei movimenti forsennati.

“Ma tu sei mio, tesoro, ed io sono tua, lo sono sempre stata e lo sarò per sempre” mi disse mamma abbracciandomi, mentre io mi fermavo sbalordito ad ascoltare le sue tenerissime parole d’amore.

“No, non fermarti, ti prego, continua, sto arrivando!” mi supplicò mamma, mentre muoveva il bacino per venire incontro ai miei movimenti e per facilitare la penetrazione.

Stavo dando colpi tremendi, ovviamente quelli che la stanchezza e le altre emozioni di quella giornata mi permettevano, ma nonostante ciò stavo raggiungendo un godimento assoluto. Ed anche mia madre, a sentire le sue parole:

“Ora, bambino mio, sto venendo, vieni insieme a me, ti prego, riempimi di te mentre sto venendo, dai, dai, spingi forte!”.

Il calore della sua fica mi avvolgeva completamente il pisello, ero allo stremo delle forze, me ne stavo rendendo conto, ma volevo comunque far bella figura con mia madre.

“Anch’io sono vicino, mamma, aspettami, veniamo insieme!” riuscii a biascicare, in mezzo agli ansiti, per lo sforzo che stavo affrontando. In effetti stavo resistendo, perché sarei venuto immediatamente appena dopo aver penetrato mia madre, tanta era l’eccitazione che mi pervadeva.

Sentii ad un tratto le unghie di mia madre che si conficcavano nella mia schiena, le sue gambe si irrigidirono ed un tremito la attraversò tutta. La sua fica cominciò a pulsare forte, stringendomi il pisello come in una morsa e poi rilasciandolo. “Vengo amore mio, vengo, ahhhhh, com’è bello, mi fai morireeeeee” esclamava mia madre in preda all’eccitazione più frenetica. I suoi movimenti convulsi divennero sussulti ritmici, mentre le ondate di orgasmo si spegnevano gradatamente dentro di lei. Non riuscii a resistere oltre, mi lasciai andare e scaricai un mare di sbora nella fica di mia madre, che rise: “Oh, bambino mio, sento tutti i tuoi schizzi dentro di me, com’è eccitante, e quanto ne avevi dentro, tutto per me!”

“Ti amo, mamma” riuscii a dire, dopo aver ripreso un attimo fiato.

“Anch’io ti amo, bambino mio, tanto!” mi rispose lei.

Poi mi baciò teneramente sulle labbra. Aprii la bocca e la sua lingua penetrò dentro di me proprio come avevo fatto io con lei. Mi esplorò tutto, si impadronì della mia lingua e la tenne stretta vicino alla sua, succhiandomela forte. La sua saliva era dolce come il miele.

Io mi ero abbandonato su di lei ed insieme aspettammo fino a quando il mio pisello non tornò a dimensioni normali. Mi sollevai e le baciai tutto il corpo. Quando arrivai vicino alla fica, provai a leccarle il clitoride, ma lei mi fermò: “Non ora, tesoro, ti prego, sono ancora troppo sensibile. Ma ci sarà tanto tempo per farlo. Dobbiamo riguadagnare tutto il tempo che abbiamo perduto a desiderarci.”

Le sue parole mi riempirono il cuore di gioia: avevamo finalmente spezzato quel muro di naturale ritrosia che ci impediva di esternare reciprocamente i nostri veri sentimenti.

“Mamma, ti prego di non dimenticare mai che ti amo tanto e ti amerò sempre” le dissi baciandola ancora una volta.

“Non lo scordare nemmeno tu”, mi rispose lei.

Poi, con i suoi consueti gesti eleganti si rivestì, indossò il pareo e prendendomi per mano, disse: “Ora andiamo a raggiungere gli altri.”

La guardai e le feci l’occhiolino. Lei ricambiò sorridendo ed insieme ci incamminammo nel bosco di palme per raggiungere i nostri parenti.


Fine Capitolo 11
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