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Il Riscatto 3 - Il Ritorno di Ettore

30.03.2025 |
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"Ero una troia, la troia che tutti volevano e potevano avere, ma che adesso non era gratis..."
La scopata col nonno mi aveva riportato coi piedi per terra.Quando avevo sentito il suo cazzo riempirmi e il suo odore di maschio vecchio e potente addosso, avevo capito di nuovo chi ero, cosa ero.
Non c’era scampo da quella verità: ero una puttana.
E non una puttana qualunque.
Ero la puttana di mio nonno.
E ne godevo.
Godevo a sapere che mi vendevo per lui, e che se non pagavo, mi portava via come un cane da esposizione per far divertire altri uomini.
Da allora avevo cominciato a lavorare ancora di più.
Mi fermavo per strada, a ogni angolo, a ogni marciapiede, con il culo sempre pronto e il cazzo duro per chiunque volesse comprarlo.
Non c’era giorno che non mi facessi almeno cinque uomini.
Ero arrivato a guadagnare più di quello che serviva per pagare il nonno, e quello che restava, pian piano, avevo iniziato a investirlo su di me.
Un taglio di capelli decente, che finalmente mi faceva sembrare meno uno sbandato.
Una t-shirt nuova, magari semplice, ma pulita, stretta sul petto magro.
E, certo, qualche jockstrap in più, perché ormai vivevo nudo sotto i jeans, sempre pronto a spogliarmi.
Avevo imparato a usare anche le piattaforme online, le app per trovare clienti.
Così, da venti euro a botta, ero passato a cinquanta.
Eppure, più guadagnavo, meno godevo.
Era come se, a essere pagato bene, perdesse sapore.
Io sapevo cosa ero.
Non un escort elegante.
Una troia da marciapiede, da prendere dietro un bidone della spazzatura.
E quando qualcuno mi caricava in macchina, sporco, sudato, per venti euro, quello mi faceva godere davvero.
Ma anche con tutti quei soldi, restavo sottomesso.
Perché il pensiero di mio nonno non mi lasciava mai libero.
E io, in fondo, lo desideravo.
Lo sognavo la notte, il suo cazzo enorme che mi strappava il culo, la sua voce che mi umiliava.
E sapevo che quella voce era l’unica che sapeva rimettermi al mio posto.
Fu proprio mentre ero in questo stato confuso, diviso tra la voglia di essere più di una puttana da strada e il bisogno di restare schiavo, che arrivò quella richiesta.
Mi scrissero in privato, su una delle piattaforme che usavo.
Tre uomini anziani, tutti sopra i settantacinque, che volevano “qualcuno come me” per un weekend intero.
Duecentocinquanta euro per due giorni, tutto incluso.
Quando lessi il messaggio, mi si seccò la bocca e il cazzo cominciò a indurirsi da solo.
La cifra era ridicola, per quello che chiedevano, ma il modo in cui descrivevano ciò che volevano da me mi aveva già acceso dentro.
Scrivevano frasi come: “Niente limiti, niente domande. Sei nostro finché decidiamo noi. Non importa cosa vogliamo farti fare, tu obbedisci.”
E subito, un brivido mi aveva attraversato la schiena.
Accettai.
Forse perché una parte di me voleva punirsi, forse perché volevo sentirmi di nuovo quella cosa che non conta nulla, usata e poi buttata.
Arrivai nel loro appartamento, anonimo con le tapparelle abbassate, la luce fioca e l’aria stantia.
Appena entrai, i tre vecchi mi squadrarono senza parlare.
Avevano occhi avidi, bavosi, ma anche pieni di dominio, come se sapessero già tutto di me.
“Spogliati”, disse uno, con voce roca.
Obbedii, abbassando lentamente i jeans, poi il jockstrap nuovo che avevo comprato con i miei primi guadagni da “escort di lusso”.
Restai nudo, con il cazzo già mezzo duro, tremante.
“Brava cagna… mettiti a quattro zampe.”
La voce di uno era roca, spezzata dall’età.
E io, senza dire nulla, scivolai giù, appoggiando le mani sul pavimento freddo, il culo in aria, il viso verso il basso.
Sentivo i loro sguardi addosso, pesanti, viscidi, come mani che mi toccavano senza bisogno di sfiorarmi.
“Ecco come deve stare un cane”, disse uno, ridendo piano.
“E guarda come gocciola già…”
Mi fecero girare, in ginocchio, con le gambe larghe, e mi porsero una ciotola da cane piena di liquido.
“Bevi.”
Annusai e capii subito cos’era.
Piscio.
Caldo, salato.
Esitai un secondo, ma sentii il cazzo indurirsi ancora di più.
E bevvi. Come un cane. Con la lingua. Facendo rumore aspirando con la bocca.
Loro ridevano piano, soddisfatti, come se avessero visto la conferma di quello che sapevano: che ero esattamente quello che cercavano.
Loro erano grassi, pelati, con le palle penzolanti e grosse, i cazzi gonfi di vene blu, carichi di Viagra.
Le tende tirate, le luci soffuse, e loro tre seduti a guardarmi, con i cazzi duri nelle mani rugose.
“Ti piace, vero?” disse il più grosso, con la pancia che gli cadeva sulle gambe, mentre mi mostrava il cazzo.
E io annuii, mentre sentivo il mio cazzo che pulsava, duro, gocciolante davanti a loro.
Li presi in bocca uno dopo l’altro, succhiando, leccando, umiliato e sempre più eccitato.
Mi mancava il respiro, ma godevo, anche se sentivo la vergogna bruciarmi dentro.
Poi mi presero a turno, uno in bocca, uno dietro, l’altro che mi pisciava addosso.
Quando finalmente, dopo il primo round, riuscirono a tornarono duri grazie al Viagra, iniziarono a scoparmi a turno.
Il mio corpo si piegava a loro, senza resistere.
Ogni spinta mi faceva gemere piano, mentre sentivo il mio cazzo duro battere contro le cosce.
La notte passò così, tra risate basse, gemiti, e il rumore dei loro corpi pesanti contro il mio.
Ogni tanto mi facevano bere altro piscio, o mi costringevano a leccare il pavimento dove uno di loro aveva pisciato.
E io restavo duro. Sempre.
Piangevo, ma il mio cazzo colava, sempre pronto, sempre teso.
Mi vennero addosso, dentro, sulla faccia, e io non dicevo nulla, solo gemiti sommessi.
Mi usavano come un oggetto, e più mi trattavano così, più dentro di me cresceva quella sensazione strana: piacere e odio, eccitazione e disgusto insieme.
Durante le due notti, dormivo a terra, con un plug dentro il culo, un collare da cane al collo e le mani legate dietro la schiena con una corda morbida.
Ogni tanto qualcuno si svegliava solo per mettersi sopra di me e scoparmi da dietro, lentamente, piano, come per durare di più.
Mi svegliavano tirandomi il collare, mi facevano di nuovo bere il loro piscio o mi scopavano.
Quando finalmente il weekend finì, ero a terra, tremante, coperto del loro sperma secco e del loro piscio.
Mi guardarono, ridendo, e uno disse: “Hai fatto il bravo, troietta. Ti meriti i tuoi duecentocinquanta euro.”
Duecentocinquanta euro.
Per due giorni a vivere peggio di un cane.
Mi diedero i soldi come si getta un osso a un cane fedele, e io li presi, senza fiatare, mentre il cazzo ancora mi pulsava duro.
Uscii senza parlare, ancora mezzo nudo, con un plug che mi avevano infilato dentro prima che uscissi, mentre il mio cazzo colava ancora senza che io lo toccassi, e il corpo mi bruciava di umiliazione e piacere insieme.
Avevo guadagnato duecentocinquanta euro.
Ma per cosa?
Per farmi ridurre a un cane da compagnia di tre vecchi schifosi.
Quando tornai a casa, mi sdraiai sul letto nudo, senza nemmeno la forza di lavarmi.
Il loro odore, il piscio, il seme ormai secco, mi coprivano la pelle come una seconda pelle, e per un attimo non mi diede fastidio.
Era quello che ero, no?
Una cosa.
Un oggetto da riempire e buttare.
Il cazzo era duro sotto i jeans.
Pensavo a mio nonno, a come mi avrebbe preso, se avesse saputo.
Avrei voluto che lo sapesse.
Che mi vedesse così.
Ma allo stesso tempo qualcosa dentro me si ribellava.
Non volevo più essere solo il suo schiavo.
Volevo essere una troia sì, ma scegliere io chi, come, quanto.
Eppure, mentre fissavo il soffitto, il cazzo duro tra le cosce doloranti, sentii che qualcosa dentro stava cambiando.
Non ero più sicuro di voler vivere così per gli altri.
Non volevo più essere schiavo del nonno, costretto a dargli tutto e restare a zero.
Volevo essere la puttana di chiunque, ma volevo farlo per me. Per il mio piacere, ma anche per i miei soldi.
Nei giorni successivi, continuai a pensare a tutto quello che avevo passato dal mio trasferimento a Milano. A Ettore che mi aveva iniziato alla schiavitù sessuale. A come avevo scoperto che mio nonno aveva orchestrato tutto. A come mi aveva reso la sua puttana personale.
Mi eccitava, certo.
Ma capivo anche che qualcosa doveva cambiare. E fu così che presi una decisione profonda: non avrei più lavorato solo per il nonno.
Mi serviva una strategia e fu così che iI processo di investimento su di me continuò con i soldi delle marchette in più.
Mi iscrissi in palestra. Mi allenai un po’, giusto per avere il petto e le spalle più dritte, il culo sodo, da fargli venir voglia di sfondarlo appena mi chinavo.
E, per la prima volta, iniziai a guardarmi allo specchio e vedere un ragazzo sexy, non solo una vittima.
Un ragazzo di 21 anni che sapeva cosa voleva.
Che voleva essere una troia, sì, ma alle sue condizioni.
Quando mi guardavo nudo, con il collare di pelle che avevo deciso di comprarmi da solo, mi sentivo più forte, più bello, più pericoloso.
Ero una troia, la troia che tutti volevano e potevano avere, ma che adesso non era gratis.
E ogni volta che mi mettevo davanti allo specchio, tirando leggermente l’anello del collare, o facendomi scivolare dentro un plug nuovo, magari di vetro, bello e pesante, mi eccitavo da solo.
Il mio cazzo duro, pulsante, pronto per essere preso, ma stavolta al mio prezzo.
Certo, pensavo ancora al nonno.
Lo desideravo, spesso.
Mi segavo pensando a lui che mi prendeva davanti a tutti, che mi portava via a guinzaglio.
Ma sapevo che dovevo diventare qualcosa di più, anche per lui.
Era un pomeriggio di sole quando accadde.
Avevo appena finito una “marchetta buona” — un uomo d’affari sui 60 anni che mi aveva pagato bene, e con cui ero stato elegante, freddo, impeccabile.
Mentre tornavo verso casa, camminando con sicurezza, con i jeans stretti e la camicia bianca nuova addosso, il profumo ancora fresco sulla pelle, lo vidi.
Ettore.
Appoggiato elegante a un tavolino fuori dal bar, sigaretta tra le dita, un bicchiere di vino bianco accanto, e quel modo di stare che era solo suo: rilassato, ma potente, come se il mondo gli appartenesse.
Era bellissimo.
Anche più di quanto ricordassi.
Camicia bianca stirata alla perfezione, le maniche rimboccate che lasciavano vedere gli avambracci forti, il petto ampio sotto il tessuto tirato.
I capelli brizzolati, pettinati con cura, e quello sguardo, quello sguardo che sapeva leggerti dentro, sapeva tutto prima ancora che parlassi.
Quando i nostri occhi si incrociarono, mi bloccai, come se un cappio invisibile mi avesse stretto la gola.
Il mio cazzo si sollevò subito, bagnando le mutande, tradendomi senza pietà.
Ettore sorrise piano, senza stupore, come se sapesse che ci saremmo rivisti.
Si alzò lentamente, camminando verso di me, con passo sicuro, elegante.
Ogni suo passo era un colpo al petto.
“Paolino,” disse, con quel tono basso, caldo, che conoscevo fin troppo bene.
“Ma guarda cosa sei diventato…”
Il suo sguardo scivolava su di me, lento, esplorandomi come una volta faceva con le mani.
Si fermò sul mio pacco, gonfio e teso sotto i jeans.
Sorrise, soddisfatto.
“Pensavi che non ti avrei più trovato?”
Fece un passo ancora più vicino, tanto da sentire il suo odore, di colonia maschile e sigaretta appena spenta.
Mi si mozzò il respiro.
Sentii le gambe cedere, come sempre accadeva davanti a lui.
Provò ad allungare la mano, sfiorandomi il viso, le labbra, come faceva quando mi voleva ai suoi piedi.
Ma questa volta mi spostai.
Pochissimo. Un gesto che mi costò una fatica immensa.
Ma abbastanza da fermarlo.
“No, Ettore”, dissi piano, ma con voce ferma.
Lui aggrottò appena le sopracciglia, stupito.
“Non sono più tuo.”
Le mie mani tremavano. Il mio cazzo era così duro che mi faceva male.
Ma dovevo dirlo.
“Non sono più il tuo schiavo. Non più.”
Ettore rise piano, incredulo, divertito, come se fossi un bambino che fa capricci.
“Non dire cazzate, Paolino. Lo sai che mi appartieni.”
Chiusi gli occhi un secondo.
E tutto d’un fiato, lo dissi.
“Se mi vuoi, mi paghi. Come fanno tutti gli altri.”
Quando riaprii gli occhi, vidi lo stupore nei suoi. Presi coraggio.
“Se vuoi il mio corpo, se vuoi scoparmi, se vuoi farmi fare quello che ti pare… paghi. E bene.”
Silenzio.
Un silenzio che mi schiacciava il petto, ma che mi dava anche una forza nuova, una forza che non avevo mai avuto con lui.
Il mio cazzo pulsava così forte che pensavo avrebbe rotto i pantaloni.
Perché sì, lo desideravo.
Lo volevo come non mai.
Ma non sarei più stato il suo schiavo gratis.
Gli appoggiai la mano sulla patta dei pantaloni.
Sentii il suo uccello duro.
Lo strinsi con forza.
“Hai capito?” dissi.
Ettore rimase in silenzio per lunghi istanti.
Mi fissava.
Dentro, forse, stava decidendo cosa fare di me.
Poi, senza cambiare espressione, senza perdere quel sorriso sicuro, sussurrò:
“Quanto?”
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