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Gay & Bisex

005 LIQUAMI DALL'INFERNO - [ HUNGARIAN RHAPSODY ]


di CUMCONTROL
02.09.2019    |    5.381    |    4 6.9
"I gendarmi che ci avevano accompagnato fin lì aprirono il grande portone..."
Quando nell’inverno del 2007 ci ritornai l’atmosfera non era cambiata.
Fu molto difficile per me tornare nel luogo della mia memoria, teatro di inique afflizioni fisiche e psicologiche, e se non fosse stata per la rassicurante presenza di una materna ed erudita giornalista televisiva, forse non ci sarei mai più ritornato.

Giungemmo in un giorno di pioggia. Tutto era desolato. La giornalista sapeva di cosmetica, sapeva cioè di ciprie, di lacca, di rossetto e di creme per le mani. Lei era fresca nonostante l’età, era cotonata, camicia di seta, aria succinta e autorevole, dizione forbita nonostante un flebile accento partenopeo…eppure… eppure v’era qualcosa in lei di profondamente materno.
Lei mi pose la mano sulla mia ed io la guardai stando seduto nella macchina che nel frattempo aveva spento il motore.
Respirai profondamente, aprii la portiera ed affondai il primo passo sul verdissimo prato e di quel giorno, se posso solo rubare ancora qualche secondo al mio lettore paziente, ma di quel giorno ricordo forte l’odore dell’erba bagnata.
La troupe ci seguiva. Tutto scrosciava tra le foglie aulenti di alberi millenari. Quando giungemmo davanti al monastero, mi fermai un solo secondo, e alzai gli occhi ai pinnacoli della solida costruzione di pietra. Le grandi vetrate spiccavano così alte da gareggiare con le cime di olmi grandissimi, e competere persino contro la corsa delle gravide nuvole vorticose.
Le rive del lago erano a pochi passi, e in fondo, proprio dietro un piccolo promontorio dalle ripe verdissime, si incavava l’abitato di Ginevra, a nove chilometri più a sud.
I gendarmi che ci avevano accompagnato fin lì aprirono il grande portone. Fiutai l’aria di quegli spazi vuoti e smisurati, e già udivo l’eco di urla disperate dei tanti ragazzi come me la cui sorte aveva infierito con l’abominio di una società organizzata di falsi prelati, che si incensava di compiere ogni bene, ma che metteva a regime ogni empietà a danno di noi ragazzi.
Chi sa se qualcuno ricorda. Forse tutto sarà finito nel dimenticatoio. Il tritacarne mediatico obnubila la memoria degli italiani, ma ricordare è un dovere. La congrega fu smantellata dopo lunghe indagini della magistratura svizzera e di quella italiana. Il Vaticano aveva già disconosciuto quella setta molti anni prima. Non un dito però fu mosso dagli organi inquirenti se non quando vennero alla luce fatti sconcertanti. Qualcuno di noi aveva iniziato a parlare.

La giornalista mi invitò a passare davanti alla porta del direttore ed ebbi un forte tremore alle gambe, e poi svoltammo in un secondo corridoio, disadorno e secondario rispetto al primo, e che immetteva alle camerate d’allora. Oggi so che quel monastero appartiene ad una nota fondazione finanziaria.
Al fondo di quel corridoio si apriva un grande varco che immetteva in una ampia corte. Uscimmo. Ed ecco, alla vista dell’olmo millenario che guardavo tutte le notti nella mia camera livida, ecco che alla vista di quell’olmo immenso, le mie povere ginocchia cedettero.
Alcuni uomini della troupe e la giornalista stessa mi soccorsero. La donna mi chiese se andasse tutto bene. Le dissi di si. Era stato solo un leggero mancamento. Riguardai quell’immenso olmo paterno. Mi tremava la mano destra, che reggeva una misera busta di plastica bianca. Quella busta conteneva le cose del mio viaggio. Non avevo altro. In albergo le briglie del mio zaino avevano ceduto, così quella mattina mi arrangiai con una busta di plastica bianca.
Io restavo immobile a guardare l’albero. Percorsi lenti passi verso di lui, poi sempre più svelti, sempre più svelti, e reggevo la mia busta di plastica mentre la troupe alle mie spalle riprendeva già tutto. Udii la giornalista dire agli uomini di lasciarmi solo. La giornalista sapeva far bene il suo mestiere. Io allora corsi con la mia busta sotto le grandi acque e corsi, e come morto caddi ai piedi del grande albero abbandonandomi ad un pianto disperato. La busta riversò tra le anse delle radici le mie povere cose. Io non me ne curai. Badai al mio solo pianto e baciai quel muschio silvestre e spugnoso che intinsi con le mie lacrime.
In quegli attimi fui solo col mio olmo che abbracciai stretto stretto.
L’albero è il simbolo del padre, si dice.


Poi fui raggiunto ed esamine fui dolcemente accompagnato dentro lo spazio chiuso del monastero dagli uomini della troupe. Mi fu dato un bicchiere d’acqua. La giornalista disposte a che un cameramen mi cedesse il suo golfino e ci portammo in refettorio, il teatro degli inferi, luogo eletto della corruzione delle carni a cui io ed altri sventurati fummo sottoposti negli anni del nostro castigo.

Sedemmo ai bordi di un tavolo di legno, la troupe accese i fari e l’intervista ebbe inizio anche se gli aneddoti osceni della mia narrazione furono chiaramente tagliati, per ovvie esigenze documentaristiche mi fu riferito, nonostante la messa in onda ebbe luogo un anno dopo e alle 3.15 del mattino.

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Questo il mio ricordo…
Giunsi in istituto dunque all'indomani del mio mal riuscito tentativo di concupire mio padre. Fui convocato dal direttore. E con la falsa promessa di un ritorno a casa, mi strappò un bocchino, che praticai con zelo nella speranza di tornare al più presto dalla mia famiglia. Con il cuore gonfio di speranza odorai e succhiai i bassi istinti di quel vecchio.
Ma fu solo un bocchino, e gli uomini sono lupi. Fu bocchino comprato con la falsa moneta di scambio della menzogna. Fu il mio benvenuto all'istituto.
Con la bocca ancora madida di sperma protestai quando compresi d’essere finito nella trappola, e supplicai il direttore affinché prestasse fede alla parola data. Ma per tutta risposta il togato chiamò due dei suoi sottoposti e fui trascinato via dal suo studio. Mi ribellai lungo il corridoio, le mie urla strazianti riecheggiarono tra le volte a crociera del monastero. I due mi percorsero con grosse corde intrecciate battendomi gli stinchi e i polpacci. Persi entrambe le scarpe e i due mi reggevano sotto le ascelle trascinandomi fino al corridoio delle camerate. L’eco delle mie urla salirono nel cielo nervato del grande corridoio senza vita.
Mi chiusero in cella con loro, la mia cella, e in quel luogo angusto ultimarono il mio pestaggio per poi immobilizzarmi del tutto.
Urlai ma non fui udito, se non dalle effigi scolpite del lungo corridoio fuori dalla porta.
Dovetti calmarmi. Strinsi forte il mio cuscino e mi abbandonai al pianto.
Quando aprii gli occhi i due uomini stavano ancora là, nella stanza, immobili. Mi scrutavano con curiosità e gli occhi sottili brillavano di luce sinistra, euforica, dionisiaca.
Uno di loro allungò il braccio e mi accarezzò lascivamente la gamba mordendosi un labbro. Io balzai ma l’altro con mano ferma mi rimise giù.
Lo udii mormorare all’altro di lasciarmi stare e che in fondo, in fondo il loro lavoro era ultimato.
Si girarono, uscirono via dalla porta che udii richiudersi con gesto sicuro. Sentii serrarsi il battente con doppio giro di mandata.
Dormii tutto il giorno e tutta una notte.
Non mi spogliai.

Mi svegliai nella mia cella sventurata nel cuore della notte. Avevo in gola ancora il salmastro seminale dell’uomo di chiesa, quando d'improvviso sentii urla spezzare un silenzio tombale della notte profonda.
Trattenni il fiato dalla paura. Fuori dalla finestra il fogliame del grande olmo balenava d’argento alla pioggia battente.
Udii urla strazianti, udii il sordo battere di corpi umani e l’ira di uomini tronfi di potenza.
Le urla si propagarono come un onda d’urto. Si rincorrevano nel moto aereo tra le nervate crociere delle grandi volte. Fu come se tutta la disperazione del mondo si sollevasse da un mare calmo in un’onda imponente. Quelle urla erano sempre più nitide. Giungevano come grande onda che montava la schiuma dello schianto imminente contro la porta della cella. Era un onda disperata di anime invisibili che correvano veloci contro di me quasi a chiedere asilo al mio povero cuore.
Il mio cuore batteva all’impazzata. Misi le mani davanti agli occhi. Non volevo vedere no, no.
Ma poi quelle urla deviarono improvvisamente per un altrove che non potevo ancora conoscere e la porta restò serrata.
Quelle voci si affievolirono poi, e al sordo silenzio che ne fece seguito si insinuarono i rintocchi di passi sicuri che incalzavano nell’eco sempre più vicino. I rintocchi divennero più chiari, nitidi, vicini. Clic clac, clic clac, clic clac. Ecco che la porta si aprì di scatto. Il mio cuore esplose nel mio petto in battiti fuori controllo. L’aria fu risucchiata ed io balzai dal letto andandomi a rannicchiarmi sotto lo scrittoio. Vidi tre nere figure di frati in abito lungo.
Avevano in mano grosse corde intrecciate del tipo in uso fra i portuali.
Il primo era alto, magro, senza capelli, testa grossa e mani enormi. Il secondo aveva l’aria di essere ancora più alto e recava sulla testa oblunga una fitta scapigliatura d’argento. Il terzo invece era basso, panciuto, grandi orecchie e bianco di capelli con grosse scarpe lucide ai piedi.
I primi due mi afferrano per le caviglie e mi trascinarono via dal mio rifugio. Io volevo urlare ma fui atterrito del tutto a tal punto da non avere voce. Erano urla silenziate le mie e la cosa mi gettò in una angoscia tachicardica. Andai come in iperventilazione polmonare. Ero terrificato e mi aggrappai alle gambe dello scrittoio ma il più basso dei tre schiacciò con forza i miei polsi con le sue grosse scarpe lucide che le mie mani cedettero. Io urlai, ma non udivo nulla, e il cuore batteva all’impazzata e mi mancava l’aria. Volevo aria. Aria. Io stavo morendo sul serio.
Fui preso a peso morto e riposto nel letto mentre io ero in preda ad iperventilazione ma volevo ancora aria. Due di loro tennero fermi i polsi e le caviglie. Il terzo allora sbottonò la mia camicia. Sentii il mio cuore cedere e l’affanno era tale che voltai gli occhi all’olmo di là dalla finestra nell’ultimo disperato tentativo di prendere aria. Aria. Volevo solo aria. E fu in quel preciso momento che la mia mente levò via ogni legame con il suo corpo.
La mente è prodigiosa quando avverte l’imminenza del pericolo che travaglierà il suo corpo. Con esso recide ogni legame. Mi concentrai dunque nell’iridescenza capovolta dalle sue argentee fronde secolari e se gli uomini maneggiarono sui miei abiti io mi sospinsi via nel fogliame di quella notte come quasi a cercarvi riparo e per incanto, a poco a poco, io ripresi il respiro regolare anche se ancora in preda all’affanno. Gemetti, il che diede ad intendermi che la voce m’era tornata. Finalmente sentivo di nuovo la mia flebilissima voce atterrita. Ma tacqui.
I tre mi levarono la camicia ed io pregai il buon dio. Poi mi fu liberata la cintola, fu allentata la zip e mi furono calate le brache e le mutande. I calzini furono gli ultimi indumenti della mia svestizione.
Ero in affanno ma respiravo. Guardavo a destra poi a sinistra, poi di nuovo a destra e poi ancora a sinistra, nella sequenza ritmica del folle messo a giacere sulla graticola che incendierà le sue carni. Voltai lo sguardo alla finestra e seguitai nelle mie preghiere cercando di acquietare il mio respiro o mi sarebbe spaccato il cuore.
Giacevo nudo e inerte con quei tre uomini chini sul proprio banchetto.
Le lingue si insinuarono tra le mie ascelle. La terza di queste scelse i miei piedi per dilettarsi un poco fra le dita. Poi le due lingue scelsero i capezzoli ed il terzo li raggiunse quasi mordendomi il ventre con sommo tatto.
Allora capii che costoro non erano venuti a farmi del male. Nuova carne fresca era giunta in convento e le voci di corridoio sussurravano scalpitanti ordendo banchetti segreti all’insaputa del direttore.
Ma il direttore aveva già consumato il suo “ius primae noctis”.
Mi accorsi che nonostante l’indifferenza ai miei moti d’animo, i tre signori banchettarono sul mio corpo con molto riguardo. Le loro lingue disinteressate al forte battito del mio cuore, erano comunque attente a percepire ogni centimetro della mia carne. Solevano annusarmi sovente prima di infierire sul mio petto con piccoli morsi e decisi risucchi, e nei pressi del pube c’era in quelle bocche fameliche qualcosa che fomentava oltremisura i loro sensi già elettrizzati. Vi fu una vibrante azione di lingua in assedio al mio membro fino a sentire il cado del loro muto fiatare, ma nessuno ebbe per le prime l’iniziativa di impadronirsene. Il loro modo di fare - lento e con l’occulta sapienza del rettile - inscriveva le regole invisibili di un bon ton davvero ragguardevole tra gentiluomini. Si perché ad esempio si scusavano se interferivano tutt’insieme nel leccare un’area specifica del mio corpo.
Quando mi voltarono per mordicchiarmi le polpe del collo, la schiena, i lombi e le natiche, i tre uomini dimostrarono una reciproca amabilità di stile. Quando uno dei tre, dopo avermi inumidito l’ano, ebbe a penetrarmi con destrezza con tre sole dita, queste le estrasse con molta sapienza avendo cura di non cagionarmi temporanei prolassi. Estratte le dita annusò profondamente la mia essenza, e si rivolse ai due con sonori borbotti di delizia mostrando di gradire le mie aulenze carnali.
La cordialità era tale che prima di assaporarsi le dita, il temerario favorisse i commensali rivolgendo loro i polpastrelli, che assaggiarono con gusto a giudicare dai reciproci mugugni. Notai la calma ed il rispetto nell’attendere il proprio turno. Le dita passarono di bocca in bocca dunque, e solo alla fine l’artefice del gesto poté gustarsi da solo le proprie dita ancora fragranti di me, manifestando ai due il pieno accordo circa la bontà della mia consistenza con prolungati gemiti di lascivia.

Poi accadde qualcosa di nuovo per me..

Mi voltarono nuovamente e m’accorsi che il mio membro era spaventosamente turgido.
Fino ad allora i miei favori sessuali erano eminentemente di natura orale o rettale. Mai avrei potuto pensare che il mio fallo potesse adempiere a compiti similari al membro di mio padre, che potesse dunque prestarsi a bocche fameliche e palpeggiamenti licenziosi ad opera di terzi. Fino ad allora avevo provavo piaceri di prostata e fu impensabile per me che anch’io fossi dunque degno di piaceri liquidi.
I tre prelati concentrarono il loro convivio gozzovigliando sul mio fascio di carne. Due di loro assaporarono ciascuno i miei testicoli mentre il terzo affondò di gola fino a ribollire nei conati. Sfilava il membro dalla bocca facendo provvista di aria e filamenti di bava colavano ovunque tra la sua bocca delirante e la mia tumidissima cappella. L’intervallo di tempo brevissimo tra un tiro di bocca ed un altro era occasione di presa da parte dei due, si che io mi inarcai pronto per scoppiare poiché l’ingordigia dei tre prese virulentemente a manifestarsi. Loro si accorsero del mio imminente esplodere allora si affrettarono a calarsi le mutande lasciandosi in dosso il lungo abito talare. Il più alto di loro fu il primo. Si accomodò. Sentii le resistenze degli sfinteri nella polpa umida e unta del prelato ma le sue vesti, i panneggi che ricoprivano la sua figura, mi occultarono del tutto le sue forme, lasciando che mi abbandonassi al piacere cieco del solo sentire sensoriale. Cavalcò a lungo, incurante di me se non che il mio corpo non gli fungesse da supporto nell’incessante suo cavalcarmi. Mi teneva premuto sul petto, scaricando parte del peso del suo corpo, dando agio così al bacino di altalenare sulla mia minchia, così, e ad occhi chiusi e labbra spalancate egli gemeva geloso del suo nervo. Ma gli altri due, impazienti questa volta del loro turno per l’imminente albeggio, sollecitarono il vecchio perché fosse dato loro un piacere similare.
Ma il vecchio si dimostrò impietoso ed accelerò l’agilità della sua schiena reclutando il bacino in una danza funesta.
Premette sul mio sterno ed un lampo illuminò il suo viso sfigurato nel deliquio di un orgasmo della prostata, perché sentii il caldo scivolare del suo liquame sul mio ventre senza che forse il membro del tale fosse del tutto divenuto turgido. Urlò e strinse le natiche paralizzandosi tutto, stirando i nervi del collo e provando fino all’ultimo istante la grande ondata della propria delizia.
Poi il vecchio animale agile crollò su di me, e mi alitò all’orecchio qualcosa in francese che io non seppi decifrare. Poi prese a baciarmi delicatamente il lobo e poi collo fin sotto il pomo d’Adamo. Fu li che inoculai il mio seme nelle sue dense recondità pregne di un viscoso liquido rettale. Poi in quegli attimi di requie, dai bassifondi del mio ventre sentii affiorare per la prima volta le pulsioni di un orgasmo nuovo, elettrico, potente ma breve, troppo breve ma bellissimo lungo la via dell’uretra che saliva e saliva e… saliva.
Era un orgasmo così lontano da quelli fino ad allora conosciuti, e che credevo mi fossero dati per natura lungo la sola via del retto. Fui stupito, e non seppi muovermi dal mio stare supino e teso, a pugni chiusi a ventre contratto spremendomi nelle scariche elettriche del mio cervello e del nervo dentro corpo viziato di quel vecchio licenzioso.
Rimanemmo agganciati come cani. Osai posare le mie mani sulle sue natiche ed egli restava con il volto confitto tra il cuscino ed il mio collo.
Fuori la luce si stava affacciando e gli altri due prelati sollevarono le vesti del vecchio in preda alle voglie malsane. Risvoltarono i lembi dell’abito sui lombi dell’uomo, si apprestarono con le dita tremanti a sfilare la mia minchia dall’ano. E’ inutile dire quanto i due si accanissero sulla mia cappella oliata dalle mucose del tale e della mio stesso sperma.
Essi leccarono come in una disperata contesa per la loro stessa sopravvivenza. Il vecchio ansimava. Stava con le braccia ad avvolgermi la testa e mi baciava a piccoli gesti. Poi si contraeva a lungo ancora, e poi lo sentii gemere come in uno sforzo estremo, e udii l’ano crepitare di bollicine di sperma che veniva espulso nel tormento degli sfinteri.
I due maiali allora si incunearono tra la mia verga e le natiche dell’uomo risucchiando ogni possibile liquame.
Poi il vecchio lentamente scavallò, e pose entrambe le ginocchia ai bordi del letto da cui discese svenente in un equilibrio ancora instabile. I due annusarono il mio corpo liberato e solo quando furono certi di ogni assenza del mio sperma, si decisero a raccogliere ciascuno le proprie mutande e scomparvero insieme oltre la porta.
Ebbi un profondo brivido che dalla schiena scendeva ai lombi fino a disperdersi nel perineo.

Da quel momento le mie membra conobbero un piacere nuovo. Strano. Sentii come una strana euforia. Il sesso, questo dono meraviglioso datoci da un dio misterioso era certo funzionale alla specie, ma mi si dispiegava nelle mille forme in mille seduzioni di luce ardente nel buio della notte degli esseri umani. Era la vita, era scheggia di luce al termine della notte disse qualcuno. Era bello.
Mi toccai lievemente la pelle del petto, sfiorai il capezzolo eretto e mi pulsava ancora il nerbo quasi che io volessi riprendere ancora quel gioco fino alla fine del mondo. Era bello. Era rivelazione. Era apparizione di dio nelle gocce di luce che mi scorrevano nel basso ventre.
Poi toccai meglio il mio membro. Era di un umido vischioso. Portai le dita al naso e fiutai un terribile odore come di... di Cacca.
Ecco, odo di già il mormorio degli indignati.

Lo so, è un passaggio che avrei dovuto evitare no?
Ma non è alle masse che lo scrivente sussurra le sue riflessioni. Le masse sono cavie e CUM non parla ai roditori che riempiono gli stadi per ascoltare squinternate senz'arte ne parte.

In quell'odore vischioso di quella roba lì, vi è tutta la metafora in sole due dita.
Ma bisogna che si sappia che quell’odore molesto fagocitò le celestiali visioni degli attimi prima di quel contatto e si diffuse nell’aria quello che io definii gli odori dell’inferno. Bisognerebbe che alle esperienze degli inferi in terra descritti dagli scampati di carceri, lager o manicomi, vi fosse l’ausilio degli odori nefasti respirati a suo tempo nei meandri oscuri di quei serragli, perché l’uditore possa essere compartecipe di stomaco, prima che di cuore, alle vicende toccate in sorte allo sventurato. C’è qualcosa che non ci raggiunge nelle testimonianze di chi ha vissuto le esperienze dei lager, ad esempio. Sono i suoi miasmi. L’aria infetta. L’esalazione nociva. I fetori. I puzzi. I tanfi.
La mente ricorda gli odori molto più di ciò che osserva. Sono gli odori ad evocare le ataviche memorie dell’uomo.
Ed io presto con quegli odori, e molti altri ancora, avrei dovuto oliarmi, perché infondo ogni angolo di quel luogo ne era pervaso.
Gli odori ci tormentano, perché anche se si ha la fortuna di cavarsi fuori da quegli inferni, capiterà sempre nella vita da uomini liberi di imbattersi occasionalmente in questi miasmi, anche solo per pochi istanti. E ad ogni incursione in certi odori, la vita che si credeva estinta torna in vita.
Per tutta la vita.


Noi che certe cose le abbiamo vissute, sappiamo che non torneremo mai più liberi.




HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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