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017 KOBA. IL RUSSO


di CUMCONTROL
13.12.2020    |    8.858    |    5 6.3
"Allora Knifo mi portò fuori dal camper è radunò tre donne che mi portarono nel vespasiano municipale situato sul limitare settentrionale del campo..."
Albeggiava.

Quando aprii gli occhi, ricordo che stavo sdraiato sul ciglio del fiume, in posizione fetale.
Avevo i calzoni ripiegati a metà coscia, e ricordo che m’ero passato la mano tra le natiche per constatare poi che i polpastrelli s’erano intinti di una materia vischiosa.
Annusai, e mi risalì il tremendo afrore di biascia del nano.

Non ricordavo quasi nulla, eppure, alle orecchie, mi risuonava la verbosità scurrile del deforme, con cui evidentemente m’ero intrattenuto una intera notte.
Per Knifo, il mio buco del culo rappresentava una vera e propria passione.

Al nano disgustava sodomizzare gli esseri umani, poiché traeva più diletto nel praticar sodomia sulle bestie da stabbio del circondario. Tuttavia, e non parlo a caso, era un qualcosa per lui assai galvanizzante praticar nei maschietti l’innata arte di leccarne il buco del culo.
Ma solo questo faceva. Niente di più. Ma lo faceva per ore, instancabilmente, fino a trasfigurarsi nelle sue stesse bave da risultare irriconoscibile una volta allontanatosi dalle natiche.
Un vero maiale.
Eppure, assicuro, che nessun essere umano ha saputo suscitarmi un così squisito tormento come la lingua di quel deforme, malgrado, va detto, l’afrore ammorbante della sua biascia.

Lui, Knifo…. il nano insomma… era già nella sua roulotte che dormiva quando mi svegliai sul ciglio del fiume.
Io non avevo una roulotte tutta per me, e benché la stagione dell’autunno sopraggiungesse già nelle sue fredde folate dal fiume, io mi ostinavo a trascorrere le notti all’aperto, alla periferia del campo rom presso il quale ho vissuto per circa due anni.
L’alba ha in sé la promessa del giorno.
Mi alzai.
Feci qualche passo e posi i piedi nell’acqua, mi stiracchiai, poi, mi accovacciai, così da sciacquarmi il buco culo dalla biascia schifosa del nano.

Rinfrescato nelle regioni basse del mio corpo, risalii il ghiaione, e mi accomodai sulla roccia per assistere di là dal fiume il sorgere del sole. Era un sole pallido, che abbagliava la caligine sospesa, per trionfare stancamente sui tetti delle case di una mesta periferia qualunque.
Avevo fame.
Lentamente risalii l’argine, quando fece capolino tra le frasche il nano della notte prima.
"Hai visite" mi disse.
Il cuore mi prese a palpitare.
“Mia madre?”, non rispose.

Presi a seguire Knifo a passo svelto lungo il sentiero della discarica che lambiva un canale di scolo di liquami molesti dispersi dalla colaca un pochino più a monte.

Mia madre… Mia madre sapeva forse dove fossi finito?
La mia libertà non sarebbe stata mai completa fino a che mia madre avrebbe potuto trovarmi. Reclamavo tra me e me il sacrosanto diritto all'oblio.
Seguivo a passo svelto il nano sulle alture accidentate della discarica da cui si originavano rivoli d'acqua putrescente che ribolliva di pestilenza.
Dalla sommità del ciglio di quell’ immondezzaio si poteva aver ben chiara l'estensione smisurata del campo rom, col suo esalare di fumi, con l'abbaiare dei cani e col vociare dei bambini a giocare negli acquitrini.
Entrammo nel campo a passo svelto, e affondammo nella folla del primo mattino, ove lo sbuffo di sporche marmitte preannunciava un nuovo giorno di ispezioni fraudolente nella città.
Le donne salutavano in festa gli uomini e i mocciosi rincorrevano le auto perdendosi nel fumo delle loro marmitte.

Ci dirigemmo verso un camper, l'unico che in quella landa fosse ingentilito da mastelli di zinco e gerani che agonizzavano in giare disposte ai fianchi del predellino.
Entrammo.
L’aria era sorda, asfittica, densa di un esalare incessante di sudore, sporcizia, fumo e frittura.
Ero nella reggia. Ero nel camper del capo rom.
Fui sollevato nel non vedere mia madre.

Risparmio al sapiente lettore i dettagli raccapriccianti del mio primo giorno nel campo già novellati nei capitoli precedenti, in cui il capo fece uso e abuso del mio corpo.
Tuttavia, il capo rom, nei giorni a seguire del suo “ius primae noctis”, dimostrò nei miei riguardi una franca tolleranza, lasciandomi integrare sia pure in parte alla vita di quella megalopoli di roulotte nei due anni a seguire.
Il capo sedeva in silenzio al di là del tavolo, con i gomiti piantati a fumare sigarette ripugnanti.
Di fianco a lui, un uomo.
Quell'uomo era alto, era diverso dagli altri uomini del campo.
Diversamente dai maschi del campo, spesso dotati di una pancia deforme predittiva di disturbi epatici, l'uomo che mi stava di fronte aveva un ventre quasi piatto ed un petto salutare, prominente e braccia tornite.

L'uomo aveva un pacco piacevole a esaminare e che rigonfiava i jeans sotto la spessa cintura di cuoio.
Aveva una camicia di cotone, di buon filato bianco e di fine sartoria. Il colletto era aperto quel tanto da lasciar fiorire un collo deciso.
Le labbra erano sottili, il naso e gli zigomi, e ancora le mascelle, mi parvero come scolpiti nel marmo, ed il suo incarnato era roseo, di un roseo candido che mi parve di morire tanto quel candore primeggiava con prepotenza sulla ammorbante atmosfera del camper.
I capelli ed il mantello della sua barba, erano insieme velati di un rubino luminoso. I riflessi demarcavano le sue origini di un profondo nord.
Gli occhi poi… gli occhi suoi recavano il miele di una infanzia antica, sopravvissuta agli anni per una sospetta dolcezza che condivideva nello sguardo in un’ aura di crudeltà anch’essa antica.
Si presentò con un buon italiano ma dalla pronuncia russa.
Il suo nome era Koba.

Koba. Leggendario Robin Hood della Grande Russia di cui forse andava fiero, ma anche il soprannome di Stalin, l'uomo delle purghe e responsabile di ventuno milioni di morti.
Goffamente pronunciai il mio nome, non staccando per un solo attimo il mio sguardo dagli abissi cui mi affacciavo dai suoi stessi occhi.

Mi strinse la mano e mi fissò. Occhi vigili, fermi, mentre tutto di lui, del suo muoversi e della sua stessa corporeità si rendeva lieto di conoscermi.
Impartì a Knifo di farmi lavare bene dalla gente del campo.
“Puzza” gli disse.

Mi disse poi che mi avrebbe atteso alla porta nord del campo, un’ora più tardi. Puntuale.

Allora Knifo mi portò fuori dal camper è radunò tre donne che mi portarono nel vespasiano municipale situato sul limitare settentrionale del campo.
Fu aperta una lancia d'acqua e la pressione fu tale che fui travolto dal getto. Rotolavo tra le pareti mentre schizzavano ovunque gli avanzi di cesso di ogni genere. Mi versarono un flacone di detersivo per piatti e presero a strofinarmi la pelle con spazzole da scarpa, spazzole di saggina, spazzole mostruose fatte di dure setole di nylon.
Urlavo per il doloroso desquamarmi.
Le tre donne si cimentarono con zelante sadismo.
Indegnamente mi furono ben spalancati i glutei ed un getto d'acqua implacabile mi ripulì le viscere.

Poi la lancia passò a schiantarmi acqua sul tutto corpo e sulla faccia da sentirmi annegare.
Accorsero altre due donne. Parlavano tra loro ridendo e con idioma sconosciuto. Mi asciugarono sotto un salice con puliti asciugamani di spugna, e mi vergognai di fronte a loro per il ritrarsi oltre misura del mio genitale.
Una ragazza dall’aria selvatica e gentile, ci raggiunse poco dopo, e mi porse sulle ginocchia delle mutande pulite, calzini di cotone, un paio di scarpe nuove ed un abito nuovo marca OVS, “comperato” in qualche store del centro.
Mentre le donne mi pettinavano con cura, la ragazza mi aiutò ad indossare una camicia di lino bianco.
Mi sentii come posso dire. Forse per la prima volta mi sentii bello.

Un ora dopo ero alla porta del campo.
Koba ed il nano mi stavano aspettando.

Il russo estrasse dal bagagliaio una grossa valigia nera che apri per rendere a Knifo una cospicua somma in banconote.
Io non avevo mai visto così tanti soldi.
Il nano non mi guardò. Mise il danaro in due grosse buste di plastica, e si instradò per il campo seguito dalle donne.

"Non stare impalato, monta in macchina", disse Koba.
Non esitai un attimo. Lasciavo per sempre il campo dove ero stato bene e mi accingevo ad una avventura che avrebbe spaventato in molti.
Da tempo ormai avevo smesso di aver paura.
Era l’età dell’incoscienza, dell’amore, e del coraggio.
Entrai in macchina. Mi disse di mettere la cintura. La sua macchina sapeva di pulito.
Partimmo.

Lasciammo Milano in direzione est.
L'estate volgeva al termine e tutto si copriva d'azzurro. La città tentacolare sfrecciava ai lati della strada con milioni di finestre ancora accese. La strada andava. Io andavo per la strada. Andavo nel mio futuro, senza paura, con un amore per l’avventura. La strada andava per la sua strada, mai turbata dall’intercalare delle sopraelevate vertiginose, mai offesa dallo scavallare delle ferrovie. Si andava dritti, indifferenti al dispiegarsi di radiali e la campagna aperta e pulita ci abbracciava timida fra le industrie.
Stetti in silenzio a lungo osservando Koba alla guida dell’auto.
Ma io non amo i silenzi.
Tra le mie qualità c'è quella di penetrare l'anima degli uomini con una innata curiosità.
Nel superare Bergamo e poi Brescia, Koba rispose ad ogni mia domanda, mentre quel pacco racchiuso tra le cosce, mi dava alla testa.

Koba era un caucasico puro. Era stato in Afganistan con l'esercito sovietico, ma dopo la guerra civile era diventato un collaboratore di stato. Non mi specificò altro.
Sfrecciammo fin oltre Verona, e poi Padova, fino a Venezia, dove ci fermammo all'autogrill ove mi commossi guardandolo dallo specchio mentre pisciava virile contro gli orinali.
Poi un panino. Lui guardava lontano.
Nei silenzi, io mi affacciavo nei suoi occhi a sbirciare il cupo profondo dei suoi abissi.

A Trieste aveva prenotato una camera per due e quando vi entrammo il mio cuore mi esplose nel petto quando constatai che contro la parete campeggiava un talamo nuziale.
No. Non sarebbe stato possibile. Non era vero. Quell'uomo non avrebbe potuto unirsi con un ragazzo. Non con me.

Mentr'egli se ne stava in doccia io accostai alla finestra, ed aprii i battenti. Vidi i tetti e le cupole di una città singolare. L'aria soffiava dolce, e udii la voce dei gabbiani nonostante fosse già sera.
Sentii una profonda pace nel cuore, e lacrimai di una malinconia dolcissima come il miele.
Ero leggero, vivevo il presente, e se anche quell'uomo non mi avesse toccato quella notte, io sarei stato felice lo stesso.
Forse al mondo c'erano davvero degli uomini buoni.

"Hey, ti prenderai un raffreddore" mi disse l'uomo, e io mi voltai vedendolo in accappatoio. Aveva levato via la barba e quel volto mostrava parimenti una forza virile cui la barba non era che un inutile orpello.
Era bello, pulito in volto, candido come i meli in fiore.
Abbassai lo sguardo, e chiesi il permesso di lavarmi anch'io.
Entrai in bagno, chiusi la porta e ansimai.
Cercai avidamente in ogni angolo un suo indumento per annusare la sua sostanza.
Ma Koba aveva una innata disciplina. Aveva riposto già via i suoi abiti ripulendo persino con cura il piatto doccia.
Poi, fu l'ora di andare.

A cena mi portò in un ristorante sulle alture da cui si poteva osservare con nitidezza un paesaggio da mozzare il fiato. Sotto di noi Trieste, col suo lungo e luminoso abbraccio al mare, e lo sguardo poteva posarsi fino a Grado.
A cena, succhiando ostriche e aragoste, mi feci coraggio.

- Quale la tua missione a mio riguardo?
- …..
- Ok, ok, non vuoi rispondermi.
- …….
- Allora dimmi che ci fai qui, in Italia. Voglio sapere tutto di te, cosa fai qui in Italia?
- Defloro. Si dice così?
- Deflori?
- Defloro vergini donnine, e giovinetti.
- Cosa? Daiii. Che scemo.
- Lo faccio perché me lo chiedono.
- Ch’… Chi scusa, chi te lo chiede?
- Mezzane.
- Mezzane?
- Rompo i giocattoli e poi li porto da loro, nei bordelli.
- Nei bordelli? Oddio che storia assurda, ma dove?
- Dipende. Nei Carpazi, in Anatolia, in Bielorussia, in Russia.
- Quindi è li che mi devi portare?
- No.

Mi disse quel no sorseggiando il suo Chaateau Seerilhan ed io bevvi nel mio calice ansimando di curosità.
Forse…Forse lui aveva per me ben altri progetti. Forse, l’intenzione era quella di portarmi dalle mezzane, forse in viaggio aveva scorto qualcosa in me e forse…. Forse si stava innamorando di me.
D’altronde,anche lui come me necessitava finalmente di una svolta nella propria vita.
No, dai, non poteva essere, proprio me… era così bello, ed io così fuori luogo con lui..

Ripresi a fare domande con la voce che mi tremava.
- Ehm, e dimmi Koba, dimmi, tu li fai male a questi….
- Non lo so.
- Come non lo sai. Ma lo sai che sei un malandrino? Voglio dire, tu non provi compassione nel far loro cosi male. O meglio, non “provavi” visto che, oggi, tu…

- Sono corpi
- Corpi??
- Carne, e non più esseri umani
- Si ma loro urlano
- Si, urlano

Mi bagnai di culo.
Ero atterrito e pure così affascinato da lui.
Mangiava con molta igiene avendo cura di raccogliere il cibo tanto che il piatto era lustro e ordinato negli avanzi.
Dopo cena mi portò al castello di Miramare, e per la brezza fresca o per l'emozione di camminargli di fianco, presi a tremare.

- Cos'hai, hai freddo?
- Si
- Aspetta

Ci fermammo un istante, prese a sfregarmi le braccia, e poi levò via la giacca che mi fece indossare.
Quel calore, quel profumo, lo guardai, rividi quell’abisso lucente dei suoi occhi. Lo abbracciai forte ed egli mi abbracciò tenendomi stretto stretto.
Ci sono uomini che tengono ancora ad essere gentiluomini.

Quando entrammo in albergo corsi subito a scaldarmi sotto le coperte mentre lui, Koba, preferì fare ancora una doccia calda.
Nel letto udivo lo scroscio dell'acqua e me lo immaginavo nella sua nudità caucasica.
Ricordo che stavo sdraiato di fianco a guardare la notte di stelle fuori dalle finestre. Notte pulita, solenne, luminosa, e approfittando della sua assenza, mi infilai due dita nel buco del culo.
Le agitai ferocemente preparandomi ad una notte di sicura passione.
E correvo veloce con la mia fantasia. Forse Koba aveva scelto per me questa città romantica per vivere una vita più serena, innamorandosi di me giorno dopo giorno, ed io, con la mia fantasia, già mi immaginavo in una vita domestica in due.
Lui aveva scelto me, solo me, aveva detto basta ad una vita violenta e avventurosa.
Era di me che si era innamorato, l’avevo capito quando alla reception dell’albergo aveva ordinato una camera matrimoniale. Lo avevo capito dalla gentilezza dimostratami sin da subito nel camper del gran capo.
Mi addormentai prima che Koba venisse a dormire. Ero stremato dalle emozioni e dal freddo.

Nel cuore della notte però mi svegliai.
Dormivamo schiena contro schiena e una profonda amarezza mi pervase il cuore. Tra noi non accadeva ancora nulla. Koba dormiva in silenzio, non russava. Non gli piacevo?
Perché aveva allora prenotato una camera nuziale se poi….
Ma si, un gentiluomo sa quando possedere il corpo dell’amato. La sua è matematica della seduzione.
Ma io ribollivo.
Nella penombra vidi il suo grosso borsone riposto sul trespolo. Pensai che avrei potuto silenziosamente alzarmi, rovistare nel borsone, cavare fuori un suo indumento intimo, che ne so una mutanda indossata nel viaggio, per poi chiudermi in bagno e …
Avrei teso la mutanda sulla mia faccia, e avrei provato a masturbarmi il pertugio stando discinto e sgraziato sulla tavola del cesso, inspirando profondamente, si, profondamente, tutta sua essenza commista di crudeltà e dolcezza.
Stavo per scendere dal letto.. Ma quel tepore che mi raggiungeva dalla schiena, mi dissuase dal proposito, e richiusi gli occhi, coccolato dal suo respiro.

Ma la mia mente non voleva sopirsi. Affiorarono dal buio della stanza ogni genere di quesiti.
Ma di cosa sa lo sperma di un maschio sovietico? Come si impostano i rapporti coniugali nella quotidianità da quelle parti? Mi avrebbe portato da lui a Mosca? Mi avrebbe presentato a sua madre?
Sua madre mi avrebbe insegnato la cucina russa? Saremmo andate d’accordo? Mi avrebbe consigliato su come prendere per il palato il figlio? Ci saremmo mai scambiate io e lei i gambaletti?
Magari avrei potuto conquistare il cuore della vecchia, essere una di loro, non so, spalando insieme la neve sull’uscio di casa, saremmo andati assieme al cimitero, ci saremmo recati per campi a raccogliere patate col fazzoletto sul capo, saremmo andati insieme a far la fila per la distribuzione del pane, ed io sarei ingrassato come lei, avrei assunto quell’aria tanto cara ai maschi sovietici della perfetta culona.

Mi immaginavo la casa della mia suocerina poi….piccola, in quartierino di due stanze in un condominio di cemento armato, con i fili elettrici scoperti, la stufa di ferro, il samovar sulla tavola, le foto del mio amore quando era un ragazzino, una casa insomma con tanti ricordi e tanto tepore, pervasa finalmente di casa, di odore di vodka, di fumo, di cavolo e di scureggia.
E infine, l’avrei col tempo chiamata mammà, già che così poteva dirsi una donna forse in sovrappeso ma dedita ad una vita carica di dignità, malgrado la miseria.

Una mamma vera sarebbe stata per me la suocerina, e non come la mia di mamma che usava darmi della “fica cacante”.
Non come mia madre…. Che alle cure del figlio, preferiva distrarsi perché l’unica cosa che sapeva dirme era "sono esaurita”, andandosene nei safari in Sud Africa, a sparare sui cuccioli di elefanti e strappar loro le tenere zanne.

E lui? No dico, il mio uomo? Lui magari sarebbe stato a lungo fuori dalla città per lunghe trasferte in qualche industria siberiana orgoglio dell’economia socialista.
Avrei atteso con impazienza i suo telegrammi, e mi sarei sciolta letteralmente il buco il buco del culo alla sola lettura di una sua breve missiva :“Ciao amore, presto sarò da te. Prepara la ciornia. Ti spiezzo in due”!
Adoro.

Così che sognai.. sognai il suo ritorno dalle lunghe trasferte e noi, io e mammà, alla finestra.
Lui nella neve, con la sua tuta blù e quel batticarne così visibile, ci salutava e faceva cenno di venire giù per aprirgli la porta. Da brava consorte, a mani giunte attesi nel sogno il mio turno, lasciando alla suocerina la priorità dell’abbraccio.
Poi lui, il mio Koba, mi abbracciava così forte da sollevarmi dal pavimento.
Entrati in casa, egli prendeva il suo tè, fumava la sua sigaretta e attendendo il pranzo mi lasciavo svestire dai suoi occhi.
Vederlo mangiare così mi procurava un dissesto nel cuore, già che cibandosi l’uomo irrobustiva le sue energie di cui io ne sarei stata vittima a breve nello schianto delle sue reni.

Poi, ultimato il pranzo, si alzava, andava a pisciare e prendendomi per mano mi conduceva in stanza.
Nel buio della stanza mi lasciavo svestire e lasciavo che le sue mani mi afferrassero le natiche fino a stirarmele soffocandomi nel bacio. Poi i morsi al collo, la vertigine e giù sul letto, con me a cosce divaricate a sentire lo struscio del suo batticarne.
Di un bocchino non ne voleva sapere. Voleva che mi lasciassi baciare con voracità e spogliandosi nel mentre egli era così smanioso di deflorarmi che nel sogno già sentivo nel buco del culo della sua spinta impaziente.

- CUM, quanto ti ho desiderato mi sono ammazzato di seghe pensando a te
- Non ci credo, tesorino, chi sa quante te ne sarai fatte ahia!
- Non dirlo neppure per scherzo, tu sei mia. Sei mia?
- Solo tua, meravigliOOsamente tua
- Topa
- Come hai detto?
- Topa! Alza sta cazzo di gamba.

E così, nel sogno egli mi penetrava con il suo batticarne. Lui mi abbracciava e baciandomi mi sfondava il colon. Sentivo sopraggiungere l’orgasmo tipico del maschio passivo, quel senso lontano di dolore e vescica piena, tra orgasmo e cacarella.

- Amore aspetta, aspetta, ahia, aspetta
- Zitta troia zitta
- Amore aspetta mi scappa l’aria, staccati un attimo, fammi correre al cesso
- No cessa, qui devi stare
- Solo un pochino
- Mettiti di pancia dai
- Ops, scusa
- Che schifo, hai fatto la scorreggia
- E’ che lo hai sfilato troppo in fretta
- Scrofa mettiti così, si da brava, brava
- Amore scusami, ahia amore mi stai spaccando, ahiaaaaa
- Quanti cazzi hai preso nella tua vita, eh? Ti piace la minchia? Buttana!
- Tanti amori, tanti, troppi, ma ora ho te
- Domani ti porto al canile
- Amore baciami
- Hai sentito?
- Si domani mi porti al canile
- Brava la cagna
- Amore ma che ci faccio al canile? Ahiaaa!!
- Ti fai scopare dai cani, cagna

Bè, là proprio nel sogno non ci vidi più, mi sentivo completamente liberata dai miei trascorsi, dai miei incubi, e la prospettiva di far da cagna mi esaltava.
Un connubio perfetto c’era in noi, ero consorte e cagna, che racchiuso in una sola parole si potrebbe pronunciare la parola: Amore
Poi – sempre nel sogno – Koba sfilò con violenza la mazza dal mio buco del culo tanto che io menai di nuovo aria, e la violenza fu così tale da sfoderarmi il buco del culo in un ciambellone di un affascinante rosso fuoco.

Nel sogno egli mi raggiungeva la bocca, e divaricate le fauci con le dita, l’amato mi sversava litri e litri di latte sovietico. Poi, quasi a volermi dire grazie, dall’uretra sgorgava come del piscio ma non copioso, no, ma piccoli fiotti così che non disperso il seme, io non potessi disperderne parimenti il dorato secreto della sua vescica.
E io giù, ubriaca di lui e del suo sesso.
Sfinito, l’uomo si stendeva poi sulle lenzuola per riprendersi dall’affanno e tirandomi per i capelli mi portava a sé. Così io ponevo il capo sul suo petto e come femmina sborrata io mi accoccolavo al battito del suo cuore.
Poi un toc toc, è permesso?
Chi è!

La suocerina faceva capolino col samovar e due tazze di tè caldo. Io, pudico, portavo le lenzuola al seno ringraziandola tutta quanta ma un filino imbarazzata.
La donna guardava il figlio dormire e volgendosi a me diceva: “Lo vedi quanto è bello?”
Io annuivo.
“Sei fortunato. Tienilo stretto a te, perché lui, il mio Koba, tra tanti ha scelto te”.

Si, me.

Che sogno meraviglioso.
Ma ciò che fu per me ancor più meraviglioso, fu la prospettiva che quel sogno, quel sogno sublime…
Quel sogno sublime si stava avverando.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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