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Gay & Bisex

003 PAUSA CON PIEDI - [ HUNGARIAN RHAPSODY ]


di CUMCONTROL
20.08.2019    |    4.681    |    4 6.5
"Era magra come una zanzara e col culettino inutile ben in vista, jeans elasticizzato a peperino, e una camicia trash spaventosamente aperta sul petto di una..."
Avevo ultimato il secondo capitolo del mio Hungarian Rhapsody ed era l’estate del 2014, quando avevo deciso di affittare una casa a Tarquinia, tra necropoli etrusche, e concentrarmi così nella mia opera d’arte.
Ma la scrittura mi stava devastando. Scrivere devasta, specie quando si tratta di scrivere le proprie memorie. Siccome che la marina di Tarquinia mi ritornava un tantino proletaria con tutta quella umanità obesa e incivile, decisi che per me il mare di Orbetello fosse più consono alla mia condizione socio culturale. E fu lì o quasi che conobbi il Carlo.
Un lunedì mattina ero stato ad Orbetello e camminavo lungo la spiaggia col mio bikini bianco latte e lo zainetto distintissimo con appeso un panda, un micio e una carota rosa di peluche che camminando mi batteva sulla chiappa.
Camminai sul litorale per chilometri e chilometri, e nonostante avessi incrociato molti maschioni della zona ero però un tantino deluso. Certo, mi scrutavano ma mai nessuno che mi caricasse in spalla tenuto per le gambe e mi svestisse del bikini da sditalinarmi a trapano.
Lo desideravo. Cercavo un gigante del mare che in siffatta posa portasse il suo trofeo nella macchia selvatica del litorale, da bombardargli il culo a suon di cazzo, tanta era in me la desiderata di sconquasso. Ma niente di niente.

Ero stanco, assolato e depresso. Ma quel giorno questa mia depressione da carenza di minchia, era più forte del solito. Perché?
Forse perché pensavo e ripensavo a come imbastire il terzo capitolo. Stavo componendo il mio Hungarian Rhapsody e la scrittura delle mie memorie stava implicando l’affascinante affondo negli anni della mia prima giovinezza, ma anche molti dolori inaspettati che mi affioravano torbidi dalla polla sorgiva dei ricordi di una prima giovinezza.
Tante illusioni e delusioni venivano in superficie.

Passeggiando solitario sulla spiaggia non facevo che struggermi per un amore mai corrisposto che io provavo per mio padre. Fu con papà che mi iniziai ai piaceri del bocchino e alle sodomie più complesse, e il solo ricordo beato di quegli anni mi lasciava fluttuare solitario su quell’arenile semideserto. Con mio padre fu tutto molto idilliaco. Ma poi ci fu il suo abbandono, il mio conseguente allontanamento dalla casa natia che mai più rividi e che fu nel ricordo il teatro di grandi chiavate, di bocchini incestuosi, di sorsate di urina birichina, di lenzuola sudate, di alluci succhiati, di sputi in faccia schizzati con stile, di mutande leccate e come mai avrei potuto dimenticare i prodigiosi schizzi di sperma di origine paterna infondo al mio pancino.
Ricordare tutto questo mio vissuto, e tracciarlo nelle memorie scritte del mio Hungarian Rhapsody, era una grande prova per il mio povero cuore.

Vidi passeggiando due ragazzi che correvano con due culi stupefacenti e mi passarono d’innanzi per poi tuffarsi nel turchino delle onde schiume, e per questo mi sovvenne un pensiero di culo. Si di culo.
Il culo di mio padre.
Papà aveva un bel culo, che se pur non prestando i favori dell’ano al proprio figliolo, a questo gli si offriva comunque sedendosi sul suo viso. Personalmente io svanivo tra la peluria bagnata della mia stessa saliva e guaivo affettuoso in succulenti leccate, almeno fino a quando il membro non gli valesse la dovuta erezione marmorea che fu da sempre la sua cifra.
Papà era di poche parole, ma prima di voltarsi e caricarmi la gola col suo svangapassere, mi rendeva da seduto un grazie gentile con leggendarie scorreggiate a trombone sulla faccina mia di allora.
Io lo supplicavo di seguitare a farmi sentire il Vento dell’Africa e lui? Lui rideva.
Come ripeto mio padre era di poche parole ma di culo fu un gran chiacchierone. Pensare che se papà se ne stava in veranda a leggersi il giornale dopo il tennis sulla sua poltroncina di midolinno, capitava che mi chiamasse giustappongo per accostarmi sotto le sue cosce e farmi lo scrub facciale da veri e propri venti di guerra.

Ero un ragazzo allora, e forse un po’ ritardato, ma a me piaceva molto.
Solo molti anni più tardi capii che quel suo comportamento fosse l’esternazione di una viscerale idiosincrasia per me. Papà rideva con gusto non per un gioco ma per questo suo sincero considerarmi una Cessa!
Ma cosa vuoi. Ciò che viviamo da ragazzi lo elaboriamo crescendo, e lo replichiamo anni dopo in forma nobilitata.
Ora mi spiego perché all'ultimo capodanno in casa mia a Torino, ho fatto a tutti gli onori di casa facendomi scorreggiare in massa con me tutta chiusa nel sottolavandino.
Ero così eccitata da quest’antina che si apriva e si chiudeva cui si affacciavano culi d’orchestra, a suonarmi con viole, violoncelli, oboe, trombette e tromboni che io, accovacciata come stavo, mi masturbavo felice la prostata con il manico dello spazzolone lavabottiglie acrobaticamente ficcato su per il culo. E allora?
Allora anche loro se la ridevano così tanto che mi hanno pure fatto delle fotine molto ben filtrate, e poi sono stata sbattuta sul social con tanto di buon anno a tutti. Ma non lo trovate di un simpatico?
All'alba care mie, all'alba la mia camera iperbarica era satura di metano. Sincera. Se mi fossi accesa una sigaretta di relax, beh allora sifone, lavandino e la sottoscritta saremmo deflagrati allegramente dando il botto finale a tutto.

Molti si disgustano per questa mia attitudine singolare. Come non capirli. Ed io che ho fatto? Per far loro un piacere sono andata dalla psicoterapeuta, si, che ormai dopo avermi ascoltata per otto mesi mi riceve vestita da Nikka Costa, seduta su di una improbabile altalena montata in studio, e mi prega disperata dei essere lanciata ad ogni pie sospinto fino sbattere di faccia contro il muro. Pare che non sopporti tutto questo mio vissuto.
Le psicoterapeute non servono a niente. Meglio pagarsi una gang bang e farsi chiudere in una vecchia cabina telefonica. Sincera.

Ora per cortesia non fatemi divagare che a me basta poco per prendere il largo. Veniamo al Carlo e delle ore precedenti alla sua magnifica conoscenza.

Stanca di fare il mare d’inverno ad agosto decisi di rientrare a Tarquinia e darmi da fare nella composizione del terzo capitolo della mia opera d’arte. Preso il treno mi accomodai di fianco al finestrino e vidi il mare sfrecciare nello sferragliante molesto del convoglio solitario. Mi guardai attorno nella speranza di svitare un pomello, un qualsivoglia pezzo di ferramenta che all'uopo potesse bastare per far cessare il mio prurito di culo. Ma niente. Tutto rigorosamente saldato all'abitacolo del treno. Stavo disperata stavo.
Si che venne giù una pioggerellina fitta fitta fitta nonostante l’afa e il cielo semiaperto, e mentre la littorina sferragliante rallentava tra bivi di binario di scambio per entrare nella stazione di Chiarone Scalo, vidi correre un ragazzone con zaino in spalla e infradito che affiancando il convoglio riuscì a raggiungere la banchina. Povero, era trafelato e zuppo.
Mi strizzai la tetta sognando che potesse essere il principe azzurro tanto agognato.
Dopo la fermata di una manciata di minuti, il treno riprese l’abbrivio indolente ed ecco, ecco che il ragazzone entrò in vagone guardandosi attorno con l’aria smarrita e soverchiato dall'affanno. Mentre mi veniva incontro vidi gambe da calciatore che mi fecero rabbrividire e vidi un pacco testicolare appena accennato sotto il costume semicoperto da una canotta grigia. Quella canotta, gli cingeva quell'area del corpo tra torso e gambe, che avrei letteralmente sbranato se solo fossi stata poco attenta a dar freno ai miei più bassi istinti di donna. Emmh, uomo, scusate.
Incedendo, quel bel ragazzone rilasciava stampe di bagnato sul pavimento. Aveste visto come aderivano quegli infradito zuppi al pavimento metallico del treno, mentre il dorso dei piedi tiravano in su i plantari di cuoio. Il ragazzone – gli uomini sono animali sociali – venne guarda caso a sedersi proprio difronte a me. Sedette e liberò nell'etere il profumo di un deodorante commisto a sudore. Poi dalla borsa cavò fuori l’asciugamani e si asciugò capelli braccia e gambe. Da seduto, il pacco testicolare mi si offriva tra cosce spalancate da gettarmi nel delirio oftalmico che io non seppi distogliere un attimo lo sguardo da quel ben di dio.
Bello. Bello come un gladiatore.

Oh se le arene antiche fossero ancora oggi gremite nei giochi gladiatori avremmo visto un fiero combattente dall’aria sicura. Io dagli spalti avrei lanciato così, con gesti protesi e solenni, petali di rosa. E sarei scesa sulla testa del popolo esultante, avrei valicato il cordone di sicurezza dei centurioni e sarei corsa nell'arena gridando il suo nome. Lo avrei condotto al palazzo e ignuda, si, ignuda avrei lasciato che mi mordesse la mammella, io dapprima ritrosa come vestale del tempio di Vesta e poi compiacente mi sarei dischiusa a quelle dita bagnate tenacemente confitte nella mia fessura giuliva.
Oh se tra i veli mi sarei lasciata violar di retto, straziata nel vaticinio della notte, e degna, si degna, avrei accolto i fluenti secreti fecondi dalle sue possenti gonadi.

Gli osservai poi le dita dei piedi. Erano bagnati e agognai sniffare le esalazioni racchiuse tra i palmi ed il plantare di cuoio dell’infradito. I malleoli grondanti del ragazzone erano cinti da una fascia di cuoio intrecciato. Sarebbe stato doveroso per me ripulirli ma cosa altro avrei potuto fare se non guardare e sentirmi la vestale del tempio avida di lui?

Il treno si fermò nella campagna e smise di piovere. Nell'attesa e nel silenzio incominciammo a parlare. Lui si chiamava Carlo. Il Carlo.
Gli raccontai di essere gay e del mio estenuante impegno nella scrittura delle mie memorie. Gli raccontai dell’Ungheria ma osservai che al mio narrare gli si ingrossava il cazzo. Era gay anche lui. Dio esiste.
Mezz’ora dopo, quando il treno desolato sostava ancora nella campagna, stavo con la nuca contro lo schienale del mio sedile e afferravo la sua caviglia gladiatoria con entrambe le mani. Si, lo fissavo negli occhi con aria patetica e spalmavo di lingua le sue fette con quel sudaticcio che mi mandò in botta. Miagolavo inghiottendo tutto quel sapore aspro di maschio, che stava diciamo brrrrrr... tra il Taleggio della bassa bergamasca e il Puzzone di Moena a crosta lavata a pasta semidura.
Virile certo ma caseario.
Mezz’ora più tardi stavo prona come una musulmana, coi gomiti in terra, e farneticavo ora a leccare un sandalo, ora a leccare l’altro. Ero così infoiato nel lecchinaggio dei plantari che disposi all’insù con il mio sobrio culetto, fosse mai che mi praticasse una inusitata sditalinata’ beduina.
Ma non sortendo riscontro dal tale, non mi diedi per vinta, e seguitai dunque a ripulire con garbo tutto l’unto del maschio dai suoi calzari. E se proprio debbo dirla tutta, mi lasciai andare ad piccolo ruttino, che non è un dettaglio da poco, poiché dalla mia boccuccia fuoriuscirono le fragranze balsamiche di un intenso caseificio della piana lattifera tra Val Padana e Val di Fiemme.
E nel farlo? Sai che mi disse quel bel birichino? Mi disse un gentilissimo “che schifo che fai”.. così proprio, al brucio, non già per il ruttino suppongo, quanto direi per quell’erotismo straziante con cui amoreggiavo ai suoi piedi coi suoi sandali unti.

Poi cosa vuoi, cinque minuti dall’arrivo mi lasciai schiacciare la faccia sul sedile, limonando pesantemente con il suo culo assai caldo e sudaticcio. Ora, li per li, preso com’ero nei miei baci alla francese tra me e quel buco del culo, mi par che il culo stesso sapesse di un gusto pungente, molto simile ancora al Puzzone di Moena, ma con un lieve e molto particolareggiato retrogusto di cesso.

All’arrivo assaggiai il calippo ma ahimè eravamo già alla nostra stazione e dovettimo ricomporci in tutta fretta senza che il mio pancino avesse potuto far provvista di sperma.

Al Carlo non per dire gli scoppiava il cazzo. E si che gli scoppiava. Era chiaro ed evidente che il Carlo smaniava dalla voglia di ingozzarmi la gargana per scampanarmi la tonsilla. Spampanarmi il retto sarebbe stato per lui un’illusione perduta.
All’uscita dalla stazione mi lasciò il suo numero, e quando gli chiesi se avesse avuto qualche minutino per un caffè, egli mi rispose di no, che il suo fidanzato l’aspettava e non mi disse nient’altro. Mi consigliò di comperare del cewingum in quanto pare che avessi una fiatella che sapeva troppo di culo e si sarebbe dato il caso che aggirarsi in Tarquinia con una puzza di culo nella bocca potesse risultare quanto mai inappropriato per una personcina distintissima venuto dal nord.
Accettai l’invito. Poi mi sorrise.
Fu molto cordiale perché congedandomi ebbe a dirmi che non avrebbe mai immaginato di incontrare un porco così. Su quello niente da dire, fu prodigo di complimenti perché non fece che ripetermi “che schifo che fai” e “che cessa che sei”.
Avevo gli occhi a cuoricino e non seppi dire null’altro.
Ci salutammo, e fu in quel preciso istante che mi accorsi dei suoi denti bianchissimi brillare tra la barbetta incolta.

Per me fu troppo.

Dovetti correre al bar, ordinare un caffè e chiesi al garzone dove fosse il cesso.
Il garzone mi disse che il cesso si trovava infondo alla sala e corsi al cesso ignorando il suo quesito del tipo “cosa faccio aspetto a farle il caffè”?
Entrato nel cesso, il Carlo mi aveva sedotto, mi mancò l’aria e portai le mani alla gola, poi aprii la finestra ma la finestra era serrata, allora aprii l’armadietto di servizio con le mani tremanti, svuotai tutto e quando finalmente cavai fuori lo spray deodorant al muschio bianco, allora mi accomodai sulla tazza, sollevai le gambe, bagnai la passera e me lo infilai dentro sognando il Carlo.
Mi stappai la bomboletta dal culo più e più volte da scorreggiare per il piacere. Stavo col mento incassato nel petto a spremermi il capezzolo, e mi stappavo e mi stappavo e mi stappavo, fino a quando non mi sgorgarono le lacrime di passione. Poi mi esplose la prostata e mi tesi a corda strillando come una pazza cascando dal cesso.
Sciancata come nessuna tornai poi al banco. Sentii la titolare imprecare di là nel cesso contro i clienti maleducati, avendo accertato il cesso in subbuglio un attimino smerdato, e con la bomboletta spray buttata a cazzo nel lavandino.
Il Carlo mi aveva dato alla testa.

Mi chiamò il giorno dopo. Era al parco a fare jogging e allora lo invitai a casa per qualcosa di fresco. Quando giunse gli calai il lycra, le mutande e via i calzini. Fiutai a fondo il maschio da quegli abiti trasudati sognando peace and love e andandomene completamente in botta. Lui mi guardava stupito e tornata di testa dal mio viaggio afro cubano mi sbranai il Carlo spolpandone la minchia.
Al Carlo piaceva farsi fare questo.
Al Carlo mancava la passione che si era dissolta con il suo fidanzato, e in me capì che avrebbe potuto svuotarsi i coglioni in tutta libertà ogni qualvolta ne avesse sentito il bisogno. L’idea di essere così desiderato, l’idea che finalmente c’era uno stomaco disposto a digerirli litrate di sperma era per lui come vivere una seconda volta. Lo adoravo dalla testa ai piedi, e il mio culo fu presto per lui il suo scannatoio.

Va detto che il sesso con Carlo non fu solo passione ma anche una esperienza molto burlesca.

Ad esempio quando sedeva sul cesso a pisciare – si, pisciava da seduto - io accorrevo facendo l’ambulanza, poi mi inginocchiavo, mi imboccavo il pisellone gocciolante e non mi ci staccavo fino a quando il mio cavallo non mi andasse in totale erezione. Poi mi alzavo, mi passavo la lingua sul baffo, mi denudavo le parti basse, e mi impalavo strappandomi la canotta per offrirgli la mia mammella da lupa. Oh se mi succhiava, oh se accarezzando la nuca del mio guerriero lo tenevo a me, oh che bello il ribollire del mio colon con la mazza confitta nel retto per lunghe ore seduti sul cesso.

Amava le mie tette. Diceva che erano grosse e succulenti, anche se non mi baciava. No, non mi baciava, no, perché a suo dire gli facevo abbastanza schifo la mia boccuccia, ritenendola una fogna ripugnante. Io andavo di collutorio ma non c’era verso. Cosa vuoi, pregiudizio. Oppure.. oppure non poteva confessarmi che il bacio per lui era una cosa troppo importante da darlo a chiunque in quanto il fidanzato, amato e rispettato, era per l’appunto il destinatario ultimo ed esclusivo di certe effusioni.
Ma con me il Carlo osava l’inosabile. Mi caricava il colon di clistere americano del suo piscio. Poi come una madama del settececento mi teneva per la mano e mi conduceva in terrazzo. Li mi abbracciava, mi sollevava tenendomi per le chiappe, mi posava sul muretto tra i gerani e così scacazzavo ovunque sul vicolo di sotto ridendo come due bontemponi. Detesto la movida e anche il Carlo detesta la movida. Così nell'intimo del mio terzo piano ho spruzzato ogni fluente su dehor, musici, fidanzatini al tavolo e signore perbene del tipo radical chic. Statevene alle case vostre!

Il Carlo non era uno che ti faceva il culo e basta, del tipo devo andare. No. Dopo le travolgenti cavalcate in terrazzo il mio Carlo dedicava parte del suo tempo standosene sdraiato e svaccato sul sofà a chiacchierare di un po’ di tutto con me. Era molto curioso della mia vita e se puta caso gli raccontavo che ne so …brrrrr.. delle gangbang ungheresi in caserma nelle cui circostanze correvo a carponi in corridoio con uno scopino da cesso su per il culo, inseguita dai commilitoni che se le davano di santa ragione a chi per primo dovesse montarmi, al Carlo gli si gonfiava la verga nonostante mezzora prima avesse già ultimato l’ultima sborrata infondo al mio culo.
Per non apparire troppo protagonista di me e delle mie vicende, chiesi al Carlo informazioni sul merito del suo fidanzato e delle ragioni per le quali nonostante i diversi anni di fidanzamento sentisse la necessità di spiccati tradimenti con delle scrofe invereconde come la sottoscritta. Mi parve strano, perché se è vero che l’amore scema con l’andar del tempo, nel sesso le ritrosie cadono, e dunque si ha modo di sondare i limiti più estremi del sesso col proprio compagno di vita, magari che so, aprendo la coppia o dandosi ad esperienze particolareggiate come il bondage o il fetish.
Apparve subito chiaro che la situazione del mio povero Carlo fosse davvero critica. Cresciuto a Candy Candy e a Lady Oscar, il fidanzato aveva sviluppato una concezione troppo romantica dell’amore di coppia e se per Carlo fosse importante avere un elevato grado di disinibizione nelle cose del sesso, per il suo fidanzato erano la concordia, la complicità, le effusioni incessanti ad avere importanza, e per questo motivo non si curava affatto di tirare dolorosi bocchini a rigatone o che fosse così stretto di culo da concedersi molto raramente alla minchia del Carlo.

Sentii come una innata necessità di conoscere questo suo fidanzato. Magari se la fortuna fosse stata dalla mia parte avrei reciso quel legame inutile e avrei finalmente liberato il Carlo gettandomelo fra le mie braccia finalmente felice. Fui però molto cauto, spiegai al Carlo che sarei diventato amico del suo Peppe, si chiamava così, e lo avrei istruito personalmente sulle cose del sesso.
Carlo fu entusiasta. Bene, da vera Pitonessa mi preparai all'attacco.

Carlo ci presentò proprio davanti al suo negozio. Uscì tutto preso, abbraccio’ il Carlo e mi strinse una mano molle che mi parve di stringere una platessa in umido.
Giuseppe, detto anche il Peppe, era un siciliano di Gela dall'accento assai sgraziato.
Oh, che azzeccasse mai una sola consonante. La T era la D, la C era la G, mi pareva di parlare col Malgioglio.
Era magra come una zanzara e col culettino inutile ben in vista, jeans elasticizzato a peperino, e una camicia trash spaventosamente aperta sul petto di una anoressica piena di catene, catenine, catenone, da parere una santa alla processione del paese. Brutta. Brutta come il debito, barbuta ovvio, e con gli occhialini eccentrici. La Peppa, presentì qualcosa di minaccioso in me, specie quando gli dissi “piacere sono CUM e sono un vecchio amico di scuola di Carlo. Ci siamo rincontrati grazie al social”. Mi buttò un’occhiataccia che dovetti far molta violenza sui miei istinti da trattenere la voglia di ucciderla a colpi di pizzichi.
Mentre la Peppina mi snobbava altamente chiedendo al suo Carlo se avesse mai comperato il pane al sesamo, io mi mantenni fredda a studiare quella cosa alta un cazzo e due barattoli ma per non dare troppo nell'occhio osservai indolente il portale del suo negozietto.
Vuoi che ti dica che lavoro mai potesse farmi la Peppina?

Che domande. Ma la parrucchiera!!!



Si che il giorno seguente mi presentai da solo al salone della Peppa e all'assistente che mi venne in contro espressi chiaramente l’intenzione di farmi rifinire la barba dalla titolare in persona. Nel suo salone per sole signore risuonava in filodiffusione tutta l’antologia indovinate di chi?
Ma della Straambelli!!! Che domande.
Il Peppe dal culetto un po’ così, tutta stizzosa mi fece accomodare. Mi strinse con violenza l’elastico attorno al collo e cosi mi prese a sforbiciate tutt'attorno con un fare nevrotico ma io mi mantenni calma e cordiale. Mi prese a sforbiciate cattive e finse una cordialità impropria.

- E di cosa ti occupi CUM?
- Guarda è semplice, io mi occupo di scrittura, diciamo.
- Gossip?
- GoooIssipp???
- E di cosa allora
- Io scrivo su A69, sono l’autore di LA BORIA E LA SBORRA, 17000 visualizzazioni
- Non conosco
- Echi avrebbe mai dubitato. Sui tavolini abbiamo tanta Vanity Fair vedo, e un niente Dostoevskij che ci può pure stare. Ma oggi come oggi, se non hai un rilegato delle opere di CUMCONTROL sei una patacca. Un frocio e basta.
- Beh io non leggo Vanity. E’ per le clienti. Sto leggendo una biografia di Maria Stuarda, ma poi mi addormento. La sera preferisco ascoltare musica. A me mi piace Mina, la Oxa..
- Ah beh certo, la Patty, la Berte’, la Rettore e la Ciccone. Siete tutti maschi qua dentro ???? Occhio che a sentire sta gente se va in bianco coi maschi. Si capisce perché poi non vi si incula nessuno.
- Beh io c’ho chi mi incula
- Ma davvero? E sentiamo?
- Carlo
- Hahahahahahaha Carlo???? Ah non ci credo
- Cosa vuoi dire? Io sono sposato con Carlo
- A beh si certo. Al massimo con te vedrà XFaxtor amica mia. A pensargli al cazzo c’è dell’altro.
- Cosa vuoi dire…
- Be che ne so, uno che non la meni col culo stretto, ad esempio. Uno che sappia tirare pompini e non bocchini a torciglione, per esempio.
- Vuoi dire… Con te?
- Guarda, da quando conosco il Carlo ho il buco del culo che è un cloacone cara mia. Un cloacone.
- Vattene subito dal mio negozio
- A beh certo, levami i peli dal naso serva!
- Dovresti chiedermi scusa
- Ahia mi hai fatto male
- Fuori dal mio negozio
- Brutta cretina
Beh, non ci vidi più. Ci prendemmo per capelli dandoci della brutta cretina a tutt’andare. Io la sbatacchiavo come quando sbatti la tovaglia in balcone. Lui passò dallo strillo al pianto, piagnucolando sotto le mie grinfie e quando ecco la ebbi vinta, allora la uccisi con una raffica di pizzichi tremendi sul braccio.
Giunsero le colleghe una più cula dell’altra. Fecero di tutto per separarci ed io, felice di aver dato a quella svoltafiletti ciò che si meritava, fui accompagnata all’uscita ma per vendicarmi scorreggiai a sfregio con aria malvagia che le clienti a turno uscirono indignate.

Sulla strada raccontai tutto al Carlo circa l’accaduto. Dovevo portarmi in vantaggio. Spiegai piangendo che ero stata minacciata con le forbici e che m’ero difesa perché aggredita selvaggiamente dalla Peppa senza un perchè. Singhiozzavo. Mi chiese se per caso avessi raccontato della nostra tresca ed io negai come nega una soubrette qualunque a Domenica Live.
Poi non lo sentii per qualche giorno. Aveva forse creduto a Peppe?
Mi arrovellai le cervella sola in casa e solo un cetriolo belga piantato nel culo seppe distogliermi per un po’ da tanto tormentoso assillo.
Si che poi mi chiamò ancora qualche giorno più tardi, ed io tremante al telefono avrei voluto dirgli tante cose ma avevo la voce rotta dalla tempesta emotiva.
Lui mi disse freddo, ci vediamo alle 18.
Gli dissi va bene. Allora corsi in corridoio, estrassi i miei dildo, i miei clisteri, mi infilai in doccia e mi sciacquai fino al duodeno perché’ fossi pulito per bene. Lo sapevo che aveva bisogno del mio culo, ed io ero pronto ad immolarmi per lui.

Uscito dalla doccia distesi del latte detergente profumato su tutto il corpo, e la mia nudità’ di seta maschia si ammantava in un kimono dorato che indossai per l’occasione. I maschi sono creature elementari. Presto il Carlo avrebbe giaciuto di fianco alla sua bella Pitonessa.
Ultimate le manovre della mia vestizione, accesi la TV nell'attesa che il Carlo venisse a saziare la sua maschitudine. Mi distesi riversa sul sofà, allungandomi come una miciona e modellai per bene i panneggi sulla mia coscia, così che al suo arrivo risultassi irresistibile ai i suoi occhi.
Avendo lasciato la porta socchiusa, il Carlo entrò in casa, percorse il corridoio buio e quando la visuale gli si aprì nella luce rossa del soggiorno, vide la sua Maya Desnuda, discinta, prona e pronta allo stupefacente flambé di culo che mi aspettava.

Egli però rimase di stucco sotto la trave della porta.
Egli si grattò le mani ed io emisi una puzzetta a bisbiglio, scoprendomi di poco il kimono, poiché come è noto per stimolare il maschio alla riproduzione sia pur fallace, occorre sempre che la femmina preposta infonda nell’etere il ferormone fatale.
Egli però mi guardò con svilimento. Fu allora che gli supplicai di conficcarmi un piede in gola ma egli disse no. Mi disse un freddo no. Allora lo implorai perché mi sculacciasse ma egli imperterrito mi disse ancora no. Allora gli proposi di ingozzarmi di cazzo con previa sputazzata sulla faccia come quando in terrazza mi stupiva dandomi della Cessa prima di farmi il suo grandioso soffocone.
La risposta fu univoca. No.
Sbuffai nervoso.

- Carlo cosa ti prende, qualcosa fra noi non va?
- Che cosa hai detto e Peppe
- Oh senti, ci siamo picchiati perché ha insinuato che fossi innamorato di te
- Credo che questo sia vero, ma tu sai che io sto con Pepe
- Ohi quante manfrine. Sa’, va a prendermi dal cesso il clistere americano e pisciaci dentro. Stasera voglio spruzzare in strada perché detesto la movida che c’è di sotto. Ma lo senti il casinò che fanno?
- Peppe mi ha lasciato..
Felice come una pasquetta, dal sofà portai la gamba sull’altra, vi infilai la manina battente ed emisi ancora una lunga scia di ferormone silenzioso.
- Ohi Carlo, andiamo. Vuoi festeggiare con me? Guarda come mi allargo le gambe. Sto in sala parto, che ne dici amore, ti piace? Guarda il mio buco del culo. Ti bacia.
Scoppiò in lacrime.
Allora mi alzai. La seta pura del mio kimono gli passò davanti ed andai in cucina a prepararmi un tè. Avevo già capito che la serata sarebbe andata a buca. Verificai in frigo la presenza di cetrioli, e felice per mia fortuna di constatarne uno piuttosto promettente, mi assicurai del sollazzo anale quando quel piagnucolone di un Carlo se ne fosse andato.
Si che gli portai il tè e mi accomodai di fianco a lui. Gli misi una mano sulla spalla, ed egli con la testa fra le mani, si abbandonò al pianto posandola sulla mia spalla.

- Bevi un po’ di tè
- Non mi va
- Bevi, ti farà bene
- Mi manca il mio Peppe
- Lo so
E lo abbracciai teneramente
- Devi reagire
- Non so più come si fa. Per me lui è tutto.
- Ti capisco, bevi il tè
- Va bene
- Bravo, occhio che scotta
- Grazie.. è buono
- Ora va meglio?
- Un pochino
- Bravo. Ora Carlo io mi stendo sul sofà di fianco a te ok? Vedrai che hai solo bisogno di credere in te
- Si. Grazie CUM. Aspetta che mi sposto.
- Stai tranquillo. Mi aggiusto
- Ma sei stanco CUM?
- Un pochino ma vedrai che dopo una clamorosa scorreggiata in faccia mi sentirò meglio.
- Cosa?
- Beh certo, dopo la scorreggiata mi spacchi la gola come al tuo solito e mi farai sentire la tua paperella scema. Ti piace paperella?
- Cazzo dici CUM
Si alzò. Imprecò su me dandomi dell’insensibile.

- Ma come ho fatto io a fidarmi di te, bestia!
- Ma ti ho solo chiesto una scorreggiata in faccia, quante storie
- Ma ma…. ma ti pare possibile? io sto uno straccio e tu ..?
- Adesso basta Carlo. Fai l’uomo
- Io sono uomo
- Non lo so
- Perché dici questo
- Perché un uomo vero accorre dal suo amico quando c’è da sturare la vasca da bagno dopo essersi fatto un clistere! Ricordi? Mercoledì scorso!
- Te l’ho detto non potevo, dovevo portare Peppe al Circeo
- Sta nana di merda non ci sa andare da sola al Circeo??
- Non dire così di Peppe.
- Ma cos’ha sta Peppina che io non c’ho, eh?
- Che stai facendo!
- Ti faccio vedere questa statuetta di puro artigianato sardo come mi entra in culo.
- Ma CUM!
- Tu non sei un uomo. Mi è toccato chiamare un idraulico vero per le polpettine che hanno intasato la mia vasca. 150 bombe gli ho mollato senza che nemmeno si lasciasse tirare un bocchino. Sai che mi ha detto? Che era etero. Quelli sì, che sono maschi Carlo!
- Peppe diceva che sono maschio!
- Peppina ti diceva maschio? Peppina è una mongoloide e una mongoloide può dire tutto.
- Mongo che????
- Mongoloide Carlo. Mongoloide!
Beh, mi prese a pizze in faccia. Io? E io che potevo farci. Lo incitavo perché mi sputasse.. Lui mi picchiava e io gli urlavo di dimostrami che fosse un maschio vero perchè un maschio vero mette sempre sulla sedia a rotelle la sua donna prima di spaccarle il culo.
Mi strappò il Kimono e ammetto che fu molto audace da parte sua. Allora mi voltai verso il muro, discinta e strappata, attendendo la trapanata epica ma egli preferì voltarmi, mollarmi altre due pizze che il mio labbrone si gonfiò a gommone. Ammetto che mi sentii molto subrette in quella circostanza così malferma e con i miei labbroni nuovi di zecca gli sussurrai “Mongoloide”. Poi finalmente mi obbligò alla pecorina e mi ruppe il buco del culo dapprima con la statuetta sarda che faceva molto bunga bunga ma evidentemente la mia ficona mannara stava suscitando in lui una erezione imprevista e decise dunque di trapanarmi a tal punto da farmi sanguinare.

Io? Io nitrii a cavalla. Menavo tanti vaffanculo alla Peppina che egli mi tappò la bocca con un suo calzino.
Andai in botta. Avevo il culo a flipper che batteva i punti.
22 cm che per carità non sono tanti ma ragazzi che trapano il mio Carlo.
Si sfogò con rabbia ed io mi voltai all’armadio con gli specchi tutta sbatacchiata. Ammetto che trovai molto seducenti i miei nuovi labbroni tanto che allungai la mano, afferrai il mio telefonino, e mi sparai una raffica di selfie mentre dietro di me il maschio affondava la minchia nella trippa della sua subrette.

Dal mio pisello sgorgava un felice filamento di rugiada, assai lungo per la verità, su cui si facevano strada di tanto in tanto dense gocce di materia spermatica e la cosa mi lasciò in estasi come quando si va a diarrea.
Lui era furibondo con me. Povero, si faceva un culo a scoparmi che una certa rabbia poteva fargli solo bene.
Io continuavo a nitrire col calzino pendulo dal labbrone e lui certo dopo una buona mezz’ora cosa vuoi, pur non demordendo mai a trapanarmi, accuso una certa stanchezza, poiché la sua spinta taurina mi perdeva un tantino di ritmo, cosa che mi rende molto nervosa. Allora per rinvigorire la sua foga mi permisi di dirgli che mai la Peppina si sarebbe fatta chiavare cosi, e che infondo Peppina restava solo una mongoloide de merda, mentre io, sempre protagonista nel palcoscenico della mia vita, lo amavo e il mio culo non era un culo. Era una promessa di felicità.

Lui allora riprese con rabbia a fottermi dandomi della Stronza e pure della Cessa, appellativo quest’ultimo che trovo e assai seducente nel maschio vero che mi scopa in modalità Verbal.
Poi qualcosa andò storto. Sfilo di botto la minchia senza preavviso. Di scatto, così, a tradimento, che quando la cappellà uscì, mi stappò a scureggetta.

- Basta non è più il caso
- Cosa?
- Devo metter un po’ d’ordine nella mia vita. Voglio andare da Peppe, voglio parlargli.
Prese il corridoio ed uscì sulle scale.

Dopo qualche istante di esitazione, indossai ciò che rimase del mio kimono, uscii sul pianerottolo e urlai
- me ne frega assai di te, io ho una scuderia di uomini che mi fottono! E dille alla Peppa che se la vedo je ficco un dito in culo je faccio uscì l’emorroidi dar nasso brutta nana demmerda.
Lanciai nella tromba delle scale lo spazzolone del cesso ma egli ormai era uscito in strada.

Dopo lo sfogo ebbi una lunga fase depressiva. Mi aggiravo per Tarquinia, per le strade, tra la gente, e mi mancava il terreno, mi vestivo di ricordi per affrontare il presente, e mi sembrava di voltarmi, all’improvviso e mi sembrava di sentire ancora la sua voce a dirmi una sola parola. Cessa.

Tu ridi ma io non avevo più voglia di vivere. Avevo perso la mia battaglia.
Fu così che telefonai a Igor, il mio amico avvocato che però non fa l’avvocato, che tutto sa dell’amore pur non avendolo mai vissuto, che fa da psicologa a tutti però ma è abbonata al centro di salute mentale , e che soprattutto……abilissimo a dispensar consigli in fatto di sesso. Igor a riguardo è il Top. L’amico che tutti vorrebbero insomma. L’amico che ha a curriculum un solo bocchino nella sua storia, salvo poi finire in ospedale per trecentocinquanta milioni di accertamenti clinici casomai avesse preso qualche brutta malattia mortale..
Insomma, una teorica che vive a spese del contribuente. Una cui puzza vivere. Ma utile a modo suo.
Sentendomi frignare al telefono, Iogor fu lapidaria.

- Torna a Torino. Riprendi a scrivere la tua opera.
Poi doveva mettere giù perché doveva cucinarsi il miglio coi piselli sta morta di sonno.

Rientrai a Torino.
E che angoscia questa città dalle vestigia solenni e umiliata dalle sue stesse blatte.

Feci una lunga doccia calda, misi dell’acqua di colonia, indossai i miei calzoni di lino e vestii la mia camicia bianca. Sedetti, accesi il Pc, e dimenticai Carlo.

Hungarian Rhapsody, l’autobiografia di un libertino, doveva continuare.










HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.









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