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Gay & Bisex

024 CAGNA DI FOGNA


di CUMCONTROL
24.08.2022    |    9.391    |    10 9.2
"Con la coda dell’occhio, dalle frasche secche, vidi scendere altri due gentili operatori dell’autotrasporto ungherese..."
Non lessi la lettera che mi fu consegnata dall’autista…

Preferii non farlo.
Tutte le lettere di mia madre mi suscitavano afflizione.
Sapevo che quel mio trasferimento, in un luogo non ancora precisato, fosse dovuta alla sua decisione.
Si ma perché così lontano da casa?
Preferii stare rannicchiato dentro quel furgone diretto chi sa dove.
L’unica cosa certa, era che ero entrato in Ungheria.

Ma ricordo che piansi però, a dirotto.
A nessuno dev’essere data in sorte la decisione di essere allontanati dalla propria casa.
Ero giovane, inesperto della vita, e forse non amato dai miei stessi genitori.

Tuttavia ero un maiale.
Mia madre non aveva tutti i torti a darmi della “suina”.
Psicologicamente, valeva la pena assecondare quell’insulto.
In fondo, sin da bambino io mi sentivo attratto dagli uomini certamente.
Mia madre mi trovava repellente.
“Ogni essere umano che presta il proprio tubo digerente ai piaceri altrui, merita d’essere abbattuto”.
Così diceva. E pure mi prestava ai pruriti di mio padre.
Persino mio padre rideva di me, quando in un pomeriggio d’estate mi colse a leccare le sue mutande pisciate dopo il tennis.
A sedici anni già vestivo impropriamente l’intimo di mamma. Non per sentirmi donna. No.
Amavo i trasformismi, e così conciata, nella solitudine della mia stanza, giacevo sciancata con un cetriolo in culo, mentre con una zucchina mi stupravo la gola sognando d’essere presa dal branco di uomini sul mio sofà.

In quel furgone però, in quello strano viaggio, io piangevo il mio abbandono e nel contempo ridevo di me, della mia natura bizzarra e suina.
Piangevo e ridevo, e mi mancava casa.
Ma ogni suina sa come tirarsi su il morale.
Non è forse così?

In quell'abitacolo negletto di un cazzo di furgone diretto chi sa dove, io stavo rannicchiato a piangere e a ridere di me.
In quel cazzo di posto tutto traballante, dove gli autisti venivano a cambiarsi, vi era come dire...
Un olezzo...
Si. Un olezzo.
Un olezzo di piedi!
Quel puzzo però mi confortava molto, perché dal raffronto con quella puzza, io mi senti ...
….. come dire …
Una suina nel suo porcile.

Allora allungai il braccio, dopo essermi asciugato gli occhi, per raccogliere una scarpa che stava buttata in un angolo.
Era una scarpa da ginnastica, dalla manifattura slava, che in qualche modo imitava le forge selle calzature americane.
Da questa, sfilai una sorta di plantare, fetente, e semisciolto dal prolungato impiego, forse ad opera del camionista, o dei tanti camionisti che si davano il cambio.
Singhiozzavo ancora. Tuttavia un po’ meno. Ecco.
Mi stavo come dire… Mi stavo calmando, poiché mi misi ad analizzare il manufatto lordato e assai fetente.

Arrotolai il plantare e me lo passai sotto le narici, sniffando profondamente e andandomene in botta.
Sempre sdraiato, accucciato, abbassai di poco la mia tuta e le mutandine.
Quindi ficcai dritte due belle dita su per il culo, e leccai tra le lacrime la vecchia scarpa, senza toccarla però, sia chiaro, perché sinceramente era un po’troppo fetente
Mi limitai a brevi tocchi di lingua però. Tocchi gentili, sapienti, tanto che io ebbi come a gustare il ricordo di quando ero innocente, senza luce rossa dei coralli sia chiaro, ma leccavo di gran gusto le pantofole di papà.

Fu cosi che mi ravanai la trippa con le mie dita, a imbuto, a cessa, spampanandomi con foga inaudita la mia povera fregna dentro a quel cazzo di furgone.
Spampanandomi con le dita, io cacciavo via i pensieri.
Via, via, mi sturavo, via…per cacciar via i pensieri.
Alla mia psicologa che oggi mi tiene in cura, questo aneddoto della mia vita le fa tanto sorridere.
Via, via, proprio mi stappavo con le dita ogni brutto pensiero.
Scorreggiai a bombetta e ne ebbi quasi sollievo, che tanto, voglio dire a chi cazz poteva importare di me?

Dovetti però sturarmi di tutta fretta, perché il roborare della portiera mi fece sobbalzare.
Non feci in tempo a capire che cazzo stesse succedendo, che una mano grossa, unta, con le dita a salsicciotto - secondo me con le unghie che non erano mai state dalla manicure prima - mi afferrò rapace.
La mano agganciò la mia povera rechia, e fui defenestrata a cazzo via dal mezzo come una cessa schiodata dal suo gabinetto.

Afferrai il polso dell'autista con ambo le mani e quel bruto mi fece attraversare un piazzale di sosta così.
Passammo in mezzo a dei tavolini dove sedevano dei signori nei pressi di una baracca e dove si serviva il tè.
Erano camionisti? Erano fattori? Erano operai ungheresi?
Bo!
Frattanto io, strattonata da una recchia, anche se curvo e assai scomoda, mi prodigai prontamente a fare ciao ciao a tutti, ma quelli risero.

Poi, sempre seguendo quell’incivile conducente di furgone, precipitai a strattoni in una scarpata tra i rovi.
Fui rilasciato di recchia solo quando giungemmo ai piedi di questa scarpata, caratterizzata da arbusti spogliati dall’autunno.
Osservai subito il luogo. Pareva silenzioso e isolato dal resto del mondo.
Pareva uno di quei giardini dove nel mondo pagano si aggiravano fauni e vestali di qualche tempio, magari nei pressi di acqua sorgiva.
A notare bene, più in basso, proprio a pelo d’acqua, sotto cumuli di pietra e foglie secche, fuoriusciva dell’acqua di fogna di qualche struttura a monte. L’acqua era abbondante e di tenace odore di cesso.
Non vidi altro, poiché dovevo “lavorare”.
La patta di quel porco dell’autista si abbassò. Poi io fui posto dinanzi alla minchia semimoscia, e fui inondato da una disonesta zaffa di cazzo sudicio.

Non potrei riferire molto sulle fattezze di quella minchia, in quanto non mi fu dato tempo per effettuare una accurata indagine oculare dell’arnese.
Infatti quel glande prese subito a pisciarmi in faccia.
No vabbè.
Io fui cosi compiaciuta, che feci tutto un movimento con il collo, a serpentello diciamo, tipo ‘a cantante americana tutta sessuata, che strilla, che cammina come in passerella, amatissima dai finocchi, tanto che mo’ non si capisce più chi cazz’ è maschio e chi cazz’ è femmina, no? Così, ecco.

Insomma. Nel pieno della pisciata, feci cenno con la manina di andare adagio, poiché la piscia mi tracimava dalla bocca.
Feci osservare che mi si doveva dare il tempo di ingoiare, ma lui mi pisciava a strafottere.
Giacevo inginocchiata a far da urinale. Mi ricordo che bei tempi quando funzionavano i cessi all’autogrill.
Ero tutta pisciata fuori bordo dal tale, e mi chiedevo insomma, che cosa avessi fatto di bello per meritare tanta grazia.
Tuttavia quello scemo di un autista, mi pisciava a cazzo, senza aver la minima cura a centrare per bene il condotto.
Comunque è vero. I maschi se non fanno la pipi fuori dal vaso proprio non son maschi.
Ma voglio dire, ma vorremmo chiamare maschi quelli che si siedono?????
Ad ogni modo, ultimata la pisciata, io costernata mi sentii morire, ed implorai ai piedi dell’uomo ancora un po' della sua goccia.
Supplicai, leccando le tomaie delle sue scarpe e le foglie, si, le foglie, maceranti di urina fumante ai suoi piedi.

Mi abbeverai miagolando come pazza in una pozza, ma la mia recchia fu inaspettatamente riagganciata, e fui sollevata all'altezza di quello stesso cazzo.
Con la coda dell’occhio, dalle frasche secche, vidi scendere altri due gentili operatori dell’autotrasporto ungherese.
Erano due soggetti assai carini, senza panza, pantaloni scuri, unti, che manco avevano ultimato il pendio e già avevano impugnato le loro carnose spade.
Cosa vuoi che si dica, io strillai pazza di gioia. Sincera proprio, stavo proprio allegra.
La vista di tutte quelle minchie cancellò quella mia disperazione di essere stato sbattuto fuori di casa, e ritrovarmi così, scaraventato alle esperienze del mondo.

Con la manina feci cenno ai due di affrettarsi, mentre già venivo stuprata in gola dal mio autista.
Si mise proprio a strafottermi la gola che dovetti ragliare come una somarella, e dovetti agganciarmi alle cosce del mio autista. A beduina proprio.
I due, guardavano e si menavano.

Siccome mi colava tutto dalla bocca, intendo dire che colavo di saliva, approfittai per dare ai nuovi venuti un saggio della mia suina indole.
Raccolsi la mia stessa biascia restando seduta sui miei talloni, mi calai un poco la mia bella tutina, e mi spampanai il buco del culo senza perdere ritmo nella mia frenetica attività orofaringea.
Io - sono - una - professionista!

I due tali però mi parvero un po' tonti.
Voglio dire, si erano messi impalati vicino a me e al mio autista, senza cogliere nel mio gesto l’auspicato invito a far del mio culo un mattatoio.
La cosa mi diede stizza tantissimo.

Mi staccai dalla minchia per pulirmi i lati della bocca con le dita.
Mi osservai i polpastrelli cosi unti di taleggio, e voltatami ai due cessi gesticolai.
Gesticolai come per far capire che si dovevano dar da fare con me.
Ma l'autista, quel bruto, non perse un attimo a far capire chi comandava.
Mi tirò infatti du pizze così, a cazzo, sulla faccia come a dire, “cazzo stai a fa’??”.
E’ giusto.
Ripresi la sbocchinata non senza un certo scazzo però, poiché temevo che i due fossero venturi solo a curiosare.
Ma ecco, che aiutatomi con la manina nell’arte antica della sbocchinata, cagionai inaspettatamente la subitanea schizzata in gola del mio vigoroso autista.
Tutta sta sbobba del mio autista, e chi se lo poteva immaginare tutta sta sborra nelle palle?
Curvo sulla mia testolina tenera lui vibrò. Poverino, schizzava nelle ultime scosse telluriche del ventre.
Io mi tenevo stretto ai suoi polpacci, vibrando con lui, immaginandomi che fico sarebbe mai stato vederlo seduto sul cesso.

Tenero, era elettrificato dalla mia arte.
Mi menò alla fine altre due sberle, così, con ambo le mani, senza un motivo ma forse per dirmi grazie. Bellissimo, mai schiacciò la faccia a cera pongo, e con ancora la sua bella minchia buttata nella mia gola.
Esibii i miei gargarismi cattivi agli altri due, prima della completa deglutizione di tutta quella sbobba biancastra.
Inghiottii, poi estrassi la lingua e la lasciai vibrare all’aria mostrando ai due come vibra una suina.
I due si menavano e deglutivano in silenzio.

Dopo, procedetti con lo spremere a dovere il glande del mio autista.
E’ una operazione delicata. Non bisogna dare fastidio al nostro uomo dopo lo sforzo.
Ogni porca lo sa, che del maschio nulla deve essere lasciato a sé.
Ogni sforzo della nostra bocca deve arrogarsi il diritto di far proprio l’ultimo rimasuglio del maschio spremuto.
Mollemente esercitai con le dita la pressione sul glande. Godetti dunque dell’ultima goccia che sgorgò dall’uretra, che luccicò, che lasciai cadere come una poetica lacrimuccia biancastra sul mio occhio tenerissimo di cagna.
Come fu bella quella materia urticante sul mio occhiettino arrossato, e pur così affascinante io mi sentivo.

Insomma.
Finita la fase estatica per me, mi sopraggiunse ancora una irresistibile voglia di cazzo.
Inzaccherata di sbobba, dopo quel momento di calma, satanassa mi voltai ai due tipi con gli occhi a svastica.
Ero na bestia. Ne volevo ancora.
Ecco che uno si fece avanti, meno male perché avrei ucciso qualcuno.

Prima però, l’aitante signore, diede dimostrazione di essere un gentiluomo.
Estrasse dalla tasca uno straccetto da marmitta, che porse nelle mani del mio autista svuotato, il quale provvide a ripulirsi il cazzo significando un grazie con la testa al suo collega.
Per ricambiare la gentilezza, l’autista mi cavò la lingua. Me la tenne ben stretta con le dita e mi ripulì la bocca con lo straccetto prestatogli, perché il compare avesse l’agio di entrarmi in bocca senza rimasuglio alcuno della sua materia testicolare.
Si chiama civiltà.

L’amor proprio che taluni dimostrano li rendono degni di tutta la mia stima.
Voglio dire che per ripristinare la praticabilità vischiosa della mia bocca, il secondo individuo volle rendere pervia la mia cavità orale e favorire così i sollazzi della sua bella minchia.
Mi praticò in bocca una abbondante lubrificata a mezzo di cariche sputate, che devo dire sempre molto ben centrate.
Io rimasi immobile seduta sui miei talloni e in attesa che il secondo individuo ultimasse l’attento protocollo.
Il terzo individuo continuava invece a menarsi la verga, e dimostrava già una certa impazienza.
Ma era chiaro che fra loro s’era instaurata una ferrea gerarchia sociale, e l’individuo che chiameremo n. 3, dovette perseverare poverino in una smanettata in proprio, intervallata da brevi pause, per non perdere la priorità acquisita.

L’individuo n. 2 nel frattempo aveva terminato la sua serie di sputate ed ebbe cura di infilarmi due dita in gola per oleare il tubo a dovere.
Mi fu dato l’agio di annusare i due restanti cazzi prima dell’infornata.
Ora la minchia dell'individuo n. 2 era assai turgida, ed emanava un profumo di cazzo che sapeva di baccalà. Anche l’ individuo n. 3 mi fece annusare il suo cazzo, che trovai anch'esso molto delizioso, anche se a dirla tutta, mi parve che quest’ultimo avesse ficcato una fregna la notte stessa.

Uno dice si vabbè CUM, che ne sai tu di fregne.
Anche la mia psicologa dice che ne so io.
E invece no.
Talvolta, quando ero più giovane, accompagnavo mio padre sulla Salaria.
Lui mi diceva aspetta, usciva dall’auto per contrattare il prezzo con qualche mignotta, e spariva dietro le frasche.
E io lo aspettavo in macchina.
Bene. Quando rientrava, papà si sedeva sfatto.
Poi papà reclinava il sedile, si accendeva una sigaretta, e abbassava la patta. E poi mi diceva “pulisci”.
Come una cagnetta felice io lo ripulivo di tutto, e ricordo che quelle erano le poche occasioni in cui mi mostrava affetto dicendomi “brava la mia cagna, brava”.
Quindi.. Voglio dire.
So di che sa una fica.

Ma torniamo ai due individui e alla loro priorità acquisita. Fatto sta che mi misi a succhiare l’individuo n. 2 con la minchia che sapeva di baccalà.
Io nel silenzio udivo solo lo squirtare del mio buchetto, che sditalinavo sapientemente mentre restavo seduta sui miei stessi talloni, a cazzo in bocca e ben sfondata di gola.
Non si udiva altro suono che lo squirtare del mio buco del culo.
Certo si poteva udire me che tossivo o che starnazzavo affogata di cazzo, ma sempre molto sommessamente.
Si poteva udire ancora qualche furgonato passare in alto di là sulla strada, e lo sgorgare gentile dell’acqua di fogna nello stagno più in basso.
Insomma. Solo silenzio e leppo di fogna.
Null’altro.

Va detto che l’individuo n. 2 ci sapeva proprio fare.
Mi sbatteva la gola così bene esattamente come il mio autista aveva fatto prima, e mi tirava pure lui delle gran sberle che apprezzai tantissimo perché così mi scaldavo la faccia visto il freddo che faceva da quelle parti in autunno.
Stavo tutta rossa e gonfia, a pijà certe pizze in faccia. Ma stavo allegra.

Forse mi turbava l’ estenuante attesa dell’individuo n. 3, quello dalla minchia che sapeva di fregna sbattuta.
Poverino, mi faceva una gran pena. Non ce la faceva più. Sbuffava e diceva qualcosa al tale perché si affrettasse a caricarmi di sbobba perché lui stava pieno.
Ma l’altro non se lo cacò di pezza, intento com’era a guardarmi dall’alto, petto in fuori, cazzo avanti e mani dritte sulla mia testa a sfasciarmi la gargana.

Miseramente, l’individuo n. 3 cedette come cede una grande diga.
E mi dispiacque tantissimo.
Proprio lo vidi tendersi sulle punte, e protendersi su di me, tutto tremante.
Mi afferrò per la mandibola, mi voltò a sé, si menava veloce, e io estrassi la lingua ma fui selvaggiamente presa a schiaffi dal tale che stavo sbocchinando.
Schiaffi su schiaffi, senza che intervenisse il mio autista che stava a guardare anzi, che già gli stava di nuovo a venir duro.
A schiaffoni dunque fui subito richiamata all’ordine, rimettendo in bocca la priorità acquisita, e dovetti lasciare che il poveretto sborrasse a cazzo il proprio seme.
Mi sborrò nella recchia, poverino.
Io sussultai guardandolo di lato nonostante il cazzo in bocca, e fui comunque talmente commossa dall’esperienza che mi feci il culo a trombetta ficcandomi il quarto dito.

Poi, sempre l’individuo n. 3, spasimò, scrollò gli ultimi rimasugli di sperma sulla mia testolina, inzaccherandomi peraltro alla meglio le mie belle ciocche corvine, e guardò l’autista soffiano l’aria tutto spossato.
Poi sorrise all’autista che gli lanciò sempre lo straccetto da marmitta con cui si ripulì la minchia.

Il tale che intanto mi stuprava in bocca, devo dire che ci sapeva davvero fare.
Non solo mi imprigionava la gola a soffoco, ma per non farsi mancare niente, tenne ben strette le mie narici, perché potessi sbroccare e farmi gli occhiettini come un pesce palla.
La fragranza di baccalà profusa dal cazzo era eccellente, e siccome prese a maneggiare freneticamente la mia testa esattamente come un culo, intesi che questo fantastico chiavatore di gole fosse ormai prossimo alla sborrata.
Infatti, non per dire, ma io, a bella proprio, fui annegata di gola dal nutrito sborro.
Per la gioia stappai le dita dal mio buco del culo, sollevando le natiche dai talloni e restando in ginocchio, tutta bella piena e scoppiettando scorreggette di felicità.

Ma che ti posso dire, cinguettai con un bel rutto tutti miei sentiti complimenti a tutti e tre.
Pensa che quando levò l'arnese ancora duro, io sbroccai felice di sborra e di schiuma anche se non ci sentivo da una recchia.

Ruttai allegra, e mi schiarivo la gola perché stavo sinceramente tutta graffiata ma sempre allegra stavo.

Poi l'autista mi ripose seduta sui talloni.
Estrasse di nuovo la mia lingua, e con lo straccetto strofinò nuovamente la bocca e la lingua, anche se con un fare un po' sgraziato.
Non so perché ma sospettai che l'autista avesse una qualche tenerezza per me.
Anche perché voglio dire, non ci si sarebbe potuto spiegare come mai tenesse così tanto a riordinare la mia bocca dopo l’utilizzo forse un tantino smodato.
E quando i due vollero risputarmi in bocca, con un gesto l’autista significò il suo no.
Basta così.
Credo che lui avesse un certo rispetto per me.
Ci teneva affinché non tornassi al furgone con la fiatella, ma poi a dimostrazione della sua affezione, invitò i due ad andare via.

Quando fummo soli, lui si calò di nuovo le braghe.
Stai a vedere che….
Si voltò, e mi mostrò il buco del culo.
No vabbè, ma che è Natale?

Mi mostrò il buco affinché potessi limonarlo un po', da innamorati che finalmente trovano un po' di intimità da soli.
Le natiche dell'autista – va detto - erano assai simpatiche.
Infatti io mi prodigai subito ad allargarle per bene.
Forse un tantino flosce, ma cosa vuoi, tutte quelle ore seduto a guidar furgoni.
Stirate le chiappe, ecco che io vi scorsi il bel buco del culo.
Un buco del culo molto ben fatto, non come certi culi slabbrati da sforzo sui cessi a causa di una sbilanciata alimentazione, magari carica di carboidrati e altri zuccheri raffinati.
No.
Il buco del culo del mio autista era di tondità perfetta.
Direi di rotondità rinascimentale, tanto mi pareva perfetto.
Ed era tutto profumato. Che non è cosa da poco.
Profumava di sapone alle erbette alpine, credo, e sapeva pure di una stupefacente zuppa di polenta e taleggio.
Cosa vuoi, tutte quelle ore seduto a guidar furgoni.

Ingrifata al sentore del buco del culo, presi a baciarlo avidamente come un milite bacia la sua sposa sapendo di morire al fronte. Pensate.
In quel momento quel culo fu per me la mia fidanzata seria.
Le sussurrai parole dolci, promesse da marinaio, e quel culo mi faceva – pensate - la timidissima.
Tutta ritesa stava.
La mia psicologa lo sa già. Mi simulai nella mente che quel culo fosse la mia fidanzata.
Cedette pian pianino ai miei baci militareschi, ed era - il culo - tutta arresa al mio ardore che non puoi capire.
Chiesi al buco del culo se volesse sposarmi, ed ella mi disse si, pensate, a soffio.
Voi potete capire che tentai di infilare un ditino, ma l 'autista, quell' orco, si voltò di scatto, e mi tirò na pizza in faccia che io, a bella proprio, capitombolai giù per la scarpata, finendo la mia rovinosa caduta allo sbocco del tubo della fogna.
Cioè ma ti rendi conto???

Per fortuna la prontezza dell'autista fu superba.
Senz'altro da lì a breve mi sarei immierdata di brutto.
Infatti l’autista mi trascinò a sé, che carino, per la caviglia, e mi salvò da tutto quel cacaturo.
Poi mi prese per la recchia, sempre la stessa, e fui strattonata a cazzo fin sulla cima della scarpata, con garbo assai primitivo se posso permettermi.
Evidentemente si era rotto il cazzo di sta commedia con me che facevo il fidanzato del suo buco del culo.

Comunque ripassammo davanti a tavoli, sempre tirata di recchia, ed io, furba, mi misi a camminare a fenicottero, facendo finta di niente perché stavo assai imbarazzata.
Feci ciao ciao con la manina, e stornai l'attenzione dei camionisti. Intendo dire che dirottai l’attenzione dalla mia recchia allo stacco delle mie belle cosce, che voglio dire....
Che mia madre, le mie cosce, se le scorda.
Bene.
Io fui … come dire …. Fui bersagliata di cicche, da tazze da tè, da bicchieri, da bottiglie di vino, nonché da pezzi di bidet e pure da un tubo da ponteggio mi tirarono quelli là, tubi grossi così, tipo quelli impiegati oggi per i bonus facciate per intenderci.
Li l'autista si staccò dalla mia recchia.
Va detto.
Ho supposto che volesse tenermi al riparo da quei bruti facilitandomi nella fuga e invece si chinò, pensate, e raccolse un bel pezzo di bidet.
E me lo tirò a cazzo, capisci?????

Corsi.
Corsi come una cretinetta svestita e vestita di solo culotte color prugna, come quelle che indossa la mia psichiatra sotto la gonna bianca che si vede tutto.
Corsi a polsi ciondolanti, bersagliata da ogni cosa e strillando “ma che maniere sono queste”!
Fui raggiunta alla testa da un cazzo di marmitta da furgone.
Mi gettai a pesce nel mio furgone.
Salvai il mio corpicino, attesi che l'autista montasse su, e sgommammo da zero a 180 km orari in due soli secondi, che io, a cessa, strillai per tutto il tempo come una povera pazza!!!




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Questo racconto è tratto dalla saga
HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.

CUMCONTROL 2022
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