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015 IL GRAN SOGNO DELLA VITA


di CUMCONTROL
06.08.2020    |    7.002    |    2 5.7
"Sbattuta di retto dolcemente naufragavo, si, mi abbandonavo nello snervato mio provar la cacarella, esperienza sublime che sovente prelude ai potenti..."
Mi piaceva starmene coi piedi nell’acqua a guardare il tramonto, mentre standomene in piedi quel ragazzo dietro di me mi alitava sul collo, mi mordeva le spalle, mi cingeva le braccia e mi teneva piantata la minchia nel culo per una ora intera, fino agli ultimi bagliori del sole.

Non mi era mai capitato di essere scopato da in piedi, e ammetto che vibravo come una corda di un'arpa antica al dolce vellicarmi di quelle dita sapienti.
Mi piaceva quel prolungato piacere di…..non saprei come spiegarmi.. che ti posso dire….di… di cacarella,ecco… e se mai ve ne fosse ragione di dubbio, quella minchia annidata nel retto, mi inoculava sentimentali getti di una calda e stimolante urina.
A sole calato, egli sfilava la minchia con molta considerazione, così che io potessi richiudermi senza spargere quel caldo liquore aureo, ed io sentivo un gorgogliar di viscera, si, che lo scarico dei secreti della sua vescica quasi mi pareva una profanazione.

Io rabbrividivo nel dolce rigurgito delle trippe. Egli mi teneva la mano e cosi, lentamente, si tornava a riva, ove su di un tronco sospinto in quel luogo dalle soventi piene del fiume, io mi ci abbracciavo, premevo di grembo, inarcavo la schiena e divaricavo le mie natiche a punta di piedi mostrandogli la struggente bellezza del mio buco del culo.
Era tarallino richiuso che tratteneva i secreti aurei di cui sopra, ed il buco diveniva nel buio oggetto di clamorosi sputi ad opera del mio ragazzo.
Al penetrarmi nuovamente io mi facevo liquido nel piacer di minchia, godevo di prostata e di una tormentata cacarella, ma egli... egli dolcemente soleva chiavarmi senza proferir parola, per quel suo essere straniero nella mia patria.
Lui, il mio ragazzo, era un giovane rom della mia età, che io già osavo chiamare “il mio uomo”.

Si. Da mesi ormai vivevo nella comunità dei rom, e se pur venivo fatto oggetto di irrisione e gabellato come una suina maldestra, io concedevo il piacere di un affondo a chiunque volesse levarsi via il prurito di una trasgressione. Ma era lui che amavo.
La verità è che mi stavo innamorando di questo ragazzo con cui da giorni avevo preso l’ abitudine di farmi ingroppare, di sera, lungo la riva del fiume, ai limiti del campo, tra zoccole grosse come pantegane e fra esalanti canali di scolo.
Io credo che lui mi amasse e mi trovasse un simpatico compagno di vita, poiché dopo la sborrata nel mio buco di culo, non si rivestiva e andava via come invece facevano gli altri. Se ne stava accucciato sul tronco insabbiato, e mi udiva tornar nelle acque lasciandomi andare in espiatorie liquefazioni.
Egli rideva, e anche io ridevo per le sonorità emesse. Poi mi prendeva a sassate nel buio, divertendosi un mondo e io nell’ acqua, forse un tantino checca, strillando giuliva "aiuto sono la Maddalena mi stanno lapidando".

E lui mi irrideva. Rideva forte e più rideva più mi tirava sassate.
Una volta ricordo che mi tirò una tavella, prelevata dalla discarica abusiva poco distante dal nostro tronco. La tavella - laterizio forato adibito a vari usi nelle costruzioni edilizie - mi fini in parte sulla faccia, e per quanto ridessi anche io, gli feci notare che stavo sanguinando dal naso.
Allora nel buio accese l’accendino per accertarsi sull’entità dell’ incidente, e quando la luce dipinse il suo volto con quei suoi occhioni gitani, io mi sentii morire per il tanto amore.
Egli per un attimo fu serio, mi parve di intendere una cupa preoccupazione, mi scrutò con perizia, e prese a sputarmi sulla faccia che io mi eccitai subito chiedendogli di sbattermi forte sul ghiaione.

Nessuno mi sputava cosi, certe racchie ragazzi, grosse come ranocchie.
Solo mio padre poteva dirsi all’altezza di una siffatta gravosità di sputo, e solo apparentemente poteva dirsi con disprezzo. Mio padre, non perché era mio padre, mi voleva un gran bene e ricorreva a questo espediente solo per perseguire finalità pedagogiche, quando ovverosia violavo i precetti della buona educazione.
Ci spiego. Egli, papà, mi sputava in due situazioni ben circostanziate. Uno, quando facevo arrabbiare il mio insegnante, don Eusebio Da Cefalea, un gesuita marchigiano pace all’anima sua, per le mie errate traduzioni di latino.
Due, quando mi opponevo alla lascivia di quest’ultimo, che pretendeva accurate ablazioni di formaggia con la lingua al termine della lezione di storia antica. Mio padre diceva che dovevo onorare con gratitudine gli sforzi del mio maestro, che all’epoca aveva 82 anni. No, dico, per dire.
Se posso ancora parlare un attimino di mio padre, occorre riferire al sapiente lettore che contrariamente a mia madre, mio padre non mi ha mai offeso in vita sua. Sputarmi, o scorreggiarmi in faccia, pisciarmi in culo o schizzarmi lo sborro sulla pizza farcita alla mozzarella di bufala, erano per lui sistemi educativi, tanto che io con papà non ce l’ho mai avuta.

Diverso è stato il rapporto con la genitrice madre. Essa soleva dirmi spesso di volermi bene, peccato che nelle occasioni mondane, solava spacciarmi tra gli invitati come una rotta in culo: mi appellava a Priscilla la cessa, fogna umana, La Messalina, La Sputacchiata del Deserto.
Io detestavo mia madre, poiché teneva a beffeggiarmi in pubblico dandomi del depravato con una fica tra le natiche. Fica Cacante, diceva. E gli invitati se la ridevano di pancia. E anche io ridevo. Cosa potevo fare?
Voi capite perché da anni sono in cura dalla psichiatra, ed ella sostiene che i miei problemi saranno risolti solo dopo una profonda assoluzione di mia madre. Mia madre però mi disprezzava, forse perché sapevo far scopare papà come lei non era capace. Mamma era frigida, mi dava in pasto a mio padre purché non cedesse a condotte fedifraghe fuori dalle mura domestiche.
Ora, sapere di essere oggetto di disprezzo della genitrice madre è un danno irreparabile sulla propria autostima. La psichiatra mi ha detto che al danno c'è la cura, ma non si guarisce mai salvo per “compimento del sé in una salvifica indulgenza”.
È stata lei, la psichiatra, a consigliarmi di trovare il modo per parlare della mia storia, poiché tenersi tutto dentro è sbagliato. Per questo permetto a voi di conoscere la mia storia trascorsa, perché tutto questo fa terapia.

Ma ora torniamo al ragazzotto rom perdutamente innamorato di me.
Lui era geloso di me. Per questo trascorrevo il giorno con una fune al collo, e nel campo rom ove ho vissuto per quasi un anno, fui elevato di rango e rispettato di più dalla comunità dopo la diffusione di voci e mormorii attorno alla nostra “storia”.
Gli effetti di questa scalata sociale furono sotto gli occhi di tutti. Non dormivo più dietro le turche comunali del campo su giacigli fatti di vecchi materassi pisciati.
Ora finalmente libero da esalazioni ammorbanti di primo mattino, restavo si alla corda, ma legato al suo camper. C’è del simbolismo in tutto questo.

Ogni mattina mi incaricavo di svuotarli i coglioni a botte di bocchini. Poi mi liberava in tenuta adamitica, libero di scorrazzare ma sempre con la corda al collo e si capisce...la corda era un segnale incontrovertibile rivolto a tutti i predatori del campo, che io, si finalmente io, ero "impegnata" e guai a chi mi avrebbe ritorto un capello.
Scorrazzavo per il campo di giorno mentre il mio lui, con altri uomini, andava in citta per "lavoro".
Non era facile però stare nel campo senza il mio amore. Certo, le donne mi rispettavano, ma per i mocciosi - ed erano tanti - io rappresentavo la forma primaria dei loro svaghi.
Ero bersaglio di gavettoni, sputi, secchiate di merda e calci in culo, e correvo come una ancella spaurita a nascondermi tra i camper.
Ma venivo stanato, e io correvo, correvo e correvo come una Dafne un attimino lordata, rincorsa da torme di piccoli diavoli. È li che ho imparato a correre reggendomi delle tette inesistenti, ma par che al mio ragazzo piacesse tantissimo questo mio modo forse un po’ ridicolo di correre. Rideva, mi chiamava Frocio e mi pigliava a sassate per il gran ridere prima di andare con gli altri al “lavoro”.
Anche i mocciosi ridevano nell’inseguimento, e se finivo in un imbuto tra i rovi o tra i camper, questi non si facevano riguardo a lanciarmi ogni sorta di oggetto. Dalle già citate tavelle - laterizio forato adibito a vari usi nelle costruzioni edilizie - a pezzi di asse da cantiere, fino a tubi catodici smontati all’uopo od ancora oblò di lavatrici pescati dalla discarica vicina, che sembrano di leggero alluminio ma vi assicuro che se presi in faccia fanno male.

E io? Io strillavo, dicevo coccodè a tutt’andare, e per placarli un attimino recitavo la consueta scena della Maddalena lapidata. Loro ridevano, poi giungeva qualche donna del campo a liberarmi, che acciuffava i ragazzi pigliandoli a sberle e a sputi.
Poi correvo al fiume, mi lavavo il culo e mi facevo il morto sull’ acqua abbandonandomi alla plenitudine degli innamorati attendendo il ritorno del mio maschio dalle razzie beduine in città.
Di certo non mi figuravo di divenire lo sposo del ragazzo, poiché per quanto tollerata, l’omosessualità tra i rom era invisa se evoluta nella comunione “patrimoniale”. Anche se... Ma ve lo immaginate io come la sposa di un rom agghindata come Mata Hari tra i camper, tra tanti invitati e falò di pneumatici accesi?
Ma si.. Era meglio non sognare. Stavo bene fra di loro. Certo ero discriminato per la mia differente base etnica, tuttavia avevo conquistato la loro simpatia con la mia voluta aria da checca. Certo.

Ma io volevo di più. Io volevo assimilarmi meglio in quella società che in fondo mi aveva regalato una libertà animale, libera dalle costrizioni della società e della mia educazione. Ero ambiziosa come nessuna, mi specchiavo nella luna scrutandola tra le tante minchie erette che succhiavo nel campo, nonostante fossi fidanzato.. No, non volevo esaurirmi nel far da scrofa a giovani e vecchi vivaci del campo col capriccio di una trasgressione.
Dovevo farmi amare. La comunità avrebbe forse fatto una eccezione, celebrando le mie nozze anomale con lui. Chi sa.
Procedetti d’astuzia.

Forte della mia volontà di integrazione, feci capire alle donne del campo che mi sarebbe piaciuto non poco farmi partecipe delle loro attività.
Dapprima imparai a menare i mocciosi, e sgravai le povere donne del campo dall’incombenza di sputare sui figli per richiamarli all’ordine. Vi assicuro che erano delle pesti.
Poi la fiducia fu tale da guadagnarmi il privilegio di andar con loro in città a fare "acquisti" al supermercato e “verificare la tenuta di porte blindate” degli appartamenti.
Si che per raggiungere la città, si doveva sbarcare nella stazione Lambrate; si doveva dunque aspettare l’arrivo di un treno locale in una stazioncina vicino al campo prima di raggiungere Lambrate. Ora attendevo con loro sulla banchina. Siccome il mio fidanzato mi ingozzava di cazzo al mattino e la sera, pativo tuttavia l’assenza della minchia nelle ore centrali del giorno, e ricordo che sulla banchina già sentivo in me il vuoto rettale che chi come me sa cosa voglia dire, non ti lascia spazio mentale per pensare ad altro.
Ecco cosa capitava in quei momenti terribili della mia astinenza.
Durante l’attesa del treno, le donne rovesciavano i rifiuti per cercare qualcosa di utile per la vita del campo, e mi lasciavano passeggiare in solitario. Io mi dirigevo puntualmente fino ai cessi, nella speranza di trovare una minchia possibilmente dura, che potesse lenire le mie crisi di astinenza dal cazzo.
Non era il mio propriamente un proposito di tradimento, poiché qualunque cazzo avrei trovato, sarebbe stato un semplice cazzo, senza partecipazione alcuna nella mia sfera sentimentalmente, essendomi io promessa al mio ragazzo. Ma una bella succhiata con una trionfale ficcata di culo avrebbe rinvigorito il pathos del nostro amore.
Dunque, varcavo la soglia di questi umidi gabinetti, e a quei tempi, chi non è più giovanissimo lo sa, le latrine ferroviarie erano dense di puzzo di urina combinato ad odor di detersivo, mestati in una tipica miscellanea di afror di cesso, tipicamente ferroviario. In questa densa atmosfera dunque, una senile umanità licenziosa - e tanto mai arrapata - si appostava agli orinali, in attesa di carne fresca da sbranare.
Predatori immobili diciamo. Coccodrilli, li chiamavo io.

Ergo entravo nei cessi, e mi poggiavo ai lavandini. Allo specchio vedevo degli anziani maschi e sbuffanti di una pregna libidine. Di tanto in tanto vi erano degli sparuti studenti che tremavano là dentro alle loro prime esperienze. Si che in quella densa atmosfera poteva bastare un timido avvio, un gesto, per sciogliere ogni esitazione di carattere civile.
Temendo la concorrenza di qualche frocetta di passaggio, e sperando in un ritardo del treno, io mi apprestavo a sciogliere la camicia. Poi calavo le brache sia pure di poco. Le calavo appena sotto il dolce rotear convesso dei miei glutei, si che gli astanti potessero ammirarne la bellezza e azzardare un qualche assalto..
Al timido avvicinarsi dei vecchi coccodrilli, io incoraggiavo i signori a favorire nella degustazione della pietanza, mostrandomi compiacente nel gioco selvaggio della preda viva. Ma i coccodrilli sfilavano gli uccelli dalle patte e si guardavano attorno in attesa di capire quale tra loro potesse dirsi maschio alpha da compiere il primo gesto innanzi all’attacco.

Io mi spazientivo. Io mi piegavo aprendomi le natiche e mostravo loro il buco del culo che massaggiavo ad anello col mio dito anulare.
Li allora i coccodrilli partivano nello schiumoso attacco dei vapori caldi del cesso, azzannandomi e respirandomi coi loro aliti immorali. Decine di mani su di me, a scandagliarmi le tette, il pisello ed il buco del culo dapprima leccato, poi trafitto a tradimento dalle unghie dei pensionati.
Allora io mugugnavo stizzoso con l’ansia della minchia, e cosi mi spogliavano svestendomi a strattoni, scuoiandomi dei miei abiti impuri, fino a esibire loro le mie carni ardenti offerte agli artigli di quei rettili bramosi. Mi mordevano capezzoli e fianchi, i glutei ed il ventre. Tra loro si azzannavano cattivi ed egoisti, ed io schivavo i loro tentativi di baciarmi. La predazione era la conquista di ogni centimetro umido di me. I vecchi maschi leccavano avidi i miei genitali tra lo stridere di mobili dentiere. E succhiavano i testicoli, e io roteavo sospinto tra i lavelli, strattonato ora nell’alveo richiuso del predatore più ingordo ora messo all’angolo come selvaggina immorale tra due orinali.
I giovani studenti coi loro zaini, stavano in disparte atterriti e ad un tempo eccitati dalla brama dei vecchi, e non credevano ai loro occhi, mentre nei loro occhi si accendeva la smania degli inesperti, menandosi ciascuno il cazzo con le dita tremanti fuori dalle loro brache.

Poi a strattoni il branco mi trascinava via. Uno strattone, e sfuggivo alla presa dei lavelli. Un altro strattone e vedevo quei ragazzi sempre più lontani. Mi aggrappavo alla porta, ma altro strattone energetico ed ero ingoiato nella tana semichiusa e buia di un vespasiano maleodorante.
Un dito non cessava di stantuffarmi il deretano e a ferirmi dentro a causa di lunghe unghie, tipiche di molti anziani in pensione. Poi finivo in terra, io miseranda giacevo sbranata sulla turca strisciata, e ricordo che alcuni mi sollevavano le caviglie per lasciare che a turno mi ficcassero. La vista mi si chiudeva tutta, l’ammasso dei corpi mi sovrastava, il buio si infittiva di sudori, e lingue, e aliti malsani. Un buio di affannosa letizia per me, lacerato solo dal biancheggiare dei loro capelli radi di capi piegati sulle mie tette.
Era magnifico lasciarsi inzaccherare dagli spermi e dalle lingue vischiose.
Di tanto in tanto, ritorto sulla mia turca, alzavo lo sguardo nel mio stare disteso di schiena sul sanitario così, a cosce alzate, e sospiravo ad occhi socchiusi con sguardo volitivo dapprima assente. Poi, sbattuto da quegli uomini già stanchi, sorridevo al mondo, a rimirar estasiato le indecenti scritte sui muri e degnavo del mio sguardo lirico l’ emiciclo geriatrico ancora in attesa del turno dietro la porta del mio fetido vespasiano.
E dietro l’ammasso dei vecchi intravvedevo poi i giovani, che facevano capolino curiosi com’erano in una fremente attesa. Ma il branco ha le sue leggi. Morde per primo il vertice esperto del gruppo e solo quando essi saranno sazi, gli avanzi della carcassa deprivata dal vello verranno succhiati e spartiti dai giovani esemplari.

E’ legge di natura. E io era una paperella stuprata in un cesso.
È inutile raccontate del mio delirio. Io è come se perdessi via via cognizione di esistere. Naufragavo nel fondo della mia turca strisciata e nei vapori aurei di cesso, e di fiato pesante, e di fognari aromi. Io mi sublimavo. Io uscivo dalla mia corporeità sbattuto di retto da turni sbrigativi, per poi avvilupparmi nei piaceri delle mie stesse trippe.
Persi contatto col mondo reale da dimenticarmi di tutto quel puzzo, del treno in arrivo, dal fremito dei ingordi, e vorticavo nell’ aria assurgendo al divino seguito dalle loro lingue, come madonna celeste ascendevo ai cieli dei piaceri come seguita dagli angeli.
Sbattuta di retto dolcemente naufragavo, si, mi abbandonavo nello snervato mio provar la cacarella, esperienza sublime che sovente prelude ai potenti orgasmi della prostata.
Sì che in quegli istanti mi balenò un pensiero sinistro. Mi soffermai a riflettere mentre negli sfinteri trattenevo la mazza semi molle di un obeso gentiluomo e assai ansimante a cui sudava la fronte.

Non ci feci molto caso al gentile signore che a fatica mi chiavava a femmina. E neppure feci troppo caso a quell’altro signore che trattenendomi in aria una caviglia per favorire il collega mi torceva di troppo il piede. Il pensiero adombrò il mio piacere fognario.
L’amore. Ero davvero alla fine delle mie pene? Perché allora giacevo nel puzzo balordo sotto un ammasso di vecchi bavosi? Non ero finalmente pago dell’amore del mio ragazzo?

Chi ha letto i primi capitoli della mia saga, conoscerà bene i patimenti d’amore che ho dovuto sopportare per aver tentato l’azzardo di innamorarmi di mio padre. Scoprire che papà mi sfondava senza ricambiare l’amore immenso che provavo per lui, mi aveva gettato in una profonda depressione.

Certo, cercai conforto nell’affetto del mio professore a Ginevra, luogo in cui fui spedito dopo essere stato ripudiato dal mio stesso padre perché mia madre, sempre lei, aveva avuto la brillante idea di vestirmi da donna. Ella mi persuase a presentarmi al cospetto di papà con rinnovata immagine e secondo lei avrei aizzato nuovamente il desiderio in lui poiché aveva smesso di cercarmi tutti i pomeriggi. Mia madre confezionò il suo prodotto a misura dei propri disegni con il risultato che papà, vedendomi così conciato, uscì dai gangheri e mi ripudiò del tutto dopo avermi chiavato per anni.
In un colpo solo mamma riuscì a sbarazzarsi di me e garantirsi il disprezzo paterno. Se prima il figlio era l’espediente umano per risolvere “in famiglia” la propria frigidità e le condotte fedifraghe del marito, ora se ne sbarazzava poiché ero ormai ritenuto troppo sentimentalmente compromesso, e pericoloso dunque da minare il regime coniugale di cui lei vantava per diritto il primato di consorte.

Ci vuole maligna scienza per far tutto questo.
Certo per carità. A Ginevra mi innamorai del mio professore, certo, lo amai profondamente eppure… eppure anche egli mi chiavava, e mi piaceva come mi fotteva, ma non mi amava, e contribuì a cacciarmi fuori da lì quando compromisi il suo ruolo in quel luogo.
E fu così che finii sconsolato in un campo rom alle porte di Milano. Fui venduto di nascosto, esautorato dalla civiltà. Ufficialmente fu data notizia della mia fuga e mia madre non si risparmiò il lacrimoso protagonismo di andare a Chi l’ha visto depistando le indagini in America Latina (i fatti risalgono al 1987).

Ma a me andava bene non essere cercato. Avevo sofferto, ma avevo realizzato la mia liberta di scegliere da me la mia vita, e di innamorarmi del mio ragazzo non già per occasioni corrotte, ma per esperienza genuina della conoscenza.
Ero nel cesso a farmi sbattere quasi a volermi punire per la mia ingenuità di allora?
A questo pensavo nel cesso della stazione, mentre l’obeso mi fotteva tenuto in posa a gambe elevate da altri signori. In quegli istanti vidi plasticamente rappresentata la triste condizione umana cui ero precipitato per il solo mio esistere e chiedere alla vita un po’ di amore. Intesi forse che quel mio giacere sul fondo di un cesso umido della periferia del mondo non fosse altro che la rappresentazione figurata della mia condizione umana, di ragazzo cioè, che ad ogni fallimento del cuore indietreggiava sempre di più nella cloaca massima degli uomini.

Le tante illusioni, tanto slancio di spirito, un così fervido amore anelato e rincorso, mi stavano rendendo sempre più indegno. Avevo risposto alla disillusione con la mia degradazione. Mi gettavo come a punirmi forse dandomi in pasto alla mediocrità degli uomini, fino a finirne preda e cosa viva che autorizzava al suo saccheggio.
Era la cloaca il mio naturale ambiente, o era condanna per aver chiesto un po’ di amore alla vita? E’ così legittimo chiedere amore alla vita?
“Il grande sogno della vita è la volontà di vivere “, mi disse un giorno qualcuno.
E’ vivere lo scopo della vita, non è l’amore.
Mmmmh, no, non poteva risolversi in questo la vita. La vita si nutre di amore, molti lo trovano, ed io dovevo solo ancora impegnarmi un po’ per risalire la cloaca ed essere felice. D’altronde, non era forse vero che la stavo afferrando col mio nuovo fidanzato?

Ok, ok, è vero. Io non conoscevo ancora il suo nome. Ma quella è una cosa che si può sempre chiedere tra una sbocchinata e l’altra. Era lui il mio uomo, si vedeva da come mi guardava. Avremmo scritto la parola Amore nel firmamento. Di giorno sarei stato maschio con lui a svaligiare il mondo, di sera in camper lo avrei stupito, uscendo dal cesso con un vestito di velo color carne semitrasparente come Mata Hary. Mi sarei seduto sul suo cazzo e lo avrei cavalcato per ore, afferrata per le natiche sotto al velo dalle sue grosse mani unte, e all’unisono, noi due, avremmo ansimato insieme la parola amOre,
ammOre.
AmmmOre!!

Certo, tra me e lui ci sarebbe stato un piccolo ostacolo: la moglie.
Ma egli avrebbe scelto me, lo vedevo da come mi chiavava al fiume. Ma una volta per tutte non sarei stato io ad essere messo alla porta. Avrebbe ripudiato la moglie e se solo la moglie avesse tentato una qualche rimostranza o vendetta, lui le avrebbe fatto una faccia di schiaffi e la sua faccia ridotta a zampogna sarebbe stata la rappresentazione plastica del suo amore per me.
Ero vicino all’amore. Io lo sentivo con tutto me stesso. E lo meritavo, perché avevo sofferto molto.

Ma cosa farò agli uomini!!!

Allora il mio spirito si risollevava. Presi a tornare in me, e mi godetti giuliva quell’amabile sudiciume umano che in quel fetido cesso mi sovrastava.
Al che le donne del campo venivano ad avvisarmi del treno in arrivo, e scovandomi cosi trattata, seminuda e sversa sul pavimento sbranata dai predatori voraci, queste prendevano a mazzate chiunque, e chi tentava una qualsivoglia difesa veniva linciato a sputi.
Si che nel mentre io mi ricomponevo in tutta fretta, scorreggiando per altro lo sprema dal culo prima di tirar su le brache. Uscivamo veloci per balzare sul nostro convoglio e anche questa volta era fatta.
Seduto confusa e felice, le donne mi rimbrottavano a suon di sputi. I passeggeri si alzavano per cambiare vagone e finalmente poi si placavano per mettersi subito a lavorare.

Presto imparai i segreti più celati del mestiere. È un lavoro faticoso ma diciamo che nei venti minuti di tempo fino a Milano Lambrate riuscivo a guadagnarmi subito la mia pagnotta. Dai tre ai quattro borsellini cavati fuori dagli zaini.
Dopo la sbranata di cazzi di poco prima, potevo beneficiare di qualche ora di autonomia dalla dipendenza dalla minchia, almeno fino a mezzogiorno, e quindi salire per condomini con le signore, scardinare porte e svaligiare case in tutta serenità d’animo. Queste nuove attitudini erano per me magisteri poco gravosi che potevano compiersi con un certo agio senza una qual si voglia vago desiderio di cazzo.
Poi con le "ragazze" - cosi appellavo le mie colleghe - si andava a fare un po’ di "spesa" al minimarket, aprendo confezioni di patatine, di sneak, di arachidi e wurstel, correndo poi via da lì inseguiti puntualmente da uno zelante cassiere, da un attento direttore o da qualche sollecito addetto della sicurezza.

Al parco si gozzovigliava con agio, e a me piaceva molto stare seduto sul prato con le mie colleghe a riordinare la gioielleria trafugata e portafogli di sorta.
Si che dopo il pranzo, ecco che mi si ottundeva la cognizione, mi si obnubilava lo stato di coscienza e tornava prepotente la voglia di cazzo.
Chi come me soffre di una insana dipendenza e patisce dell’ astinenza dalla minchia, saprà benissimo quanto sia debilitante condurre una esistenza normale quando sopraggiunge la voglia i cazzo. Ti senti il buco del culo vuoto, ti sale l’acquolina, inizi a fissarti con qualunque cosa minimamente oblunga che vedi per strada. Può bastare un dito a lenire per un po’ la desiderata, ma il tuo corpo urla la carne.

Per mia fortuna c’era Adelina, la maggiore delle donne che sapeva cosa fare.
Si accorgeva per tempo della crisi in arrivo, allora mi faceva posare tra le sue gambe, con il culo all’aria come pronto ad una sculacciata. Ma non mi sculacciava. Semplicemente mi svestiva dalle brache aiutata dalle altre donne, mi levava la mutandina, intingeva le dita nell’ olio di tonno in scatola “acquistata” al market, e mi massaggiava il deretano gonfiandomelo a tal punto da far del mio culo, il culo di babbuino. Ergo estraeva dalla borsa una carota o zucchino o cetriolo “comperato” al market, e mi pugnalava la trippa come una assassina tappandomi peraltro la bocca perché non strillassi assai.
Le altre colleghe mi irridevano coi loro denti dorati, ed io stretto alle vesti sudice di Adelina guadavo loro con le sopracciglia pateticamente all’ingiù, un sorriso ebete e con le lacrime agli occhi, come se cacassi in loro presenza.

Poi si buttava lo zucchino nella finestra aperta del piano terreno di qualche villetta li attorno, ed io correvo svitata per farmi una affascinante lavata di culo alla fontanella.
La liberta non ha prezzo.
Poi si rientrava al campo e puntualmente assistevo alla lite tra donne per la spartizione del bottino, poiché come è noto, nella società degli zingari la più laboriosa del campo ha una posizione più meritevole nella comunità e gode della stima del suo uomo.
Io invece mi denudavo - come da consuetudine - mi rimettevo il guinzaglio di corda, e attendevo il rientro del mio ragazzo non senza disagio poiché i mocciosi tornavano a schermirmi e dovevo difendermi a sputi.

Ero costantemente seguito da Ringo, un pastore tedesco "donato" da qualche proprietario di qualche cascina, che era un pochettino fastidioso poiché mi annusava sempre il culo e voleva ingropparmi. Anche i mocciosi volevano assistere all’ingroppamento ma io non potevo accontentarli perché attendevo il mio amato.
Poi al tramonto giungevano le Mercedes al campo a velocita spaventosa. Frenavano di botto in una nuvola di terra e scendevano i grandi lavoratori con i loro carichi di computer, stereo, televisori, valigette, preziosi ed ogni ben di dio.
Io accorrevo al mio uomo facendomi largo nella massa, ma egli non mi cacava granché, poiché c'aveva da aiutare gli altri a scaricare il bottino e poi si chiudeva nel camper con la sua morosa.
Odiavo la sua morosa ma rispettavo i doveri nuziali ai quali doveva pervenire. Cosi restavo impalato a guardare gli altri strillando di tanto in tanto per cacciare Ringo e il suo chiodo fisso.

Poi, come tutte le sere, c’era la baldoria nel campo coi falò accesi. Si ballava, si suonava, e si cantava. Gli uomini seduti sulle sdraio si mettevano a bere, a cantare e a fumare, con me che mi chiamavano un po’ di qua e un po’ di là, a stare a quattro zampe ubriaca pure io a passare di cazzo in cazzo chiunque avesse necessità di levarsi via un qualche prurito alla minchia.
Ovviamente molti di loro mi scacciavano via, perché per nulla interessati a farsi succhiare la minchia da un ricchione. Ma col tempo avevo imparato verso quale sedia a sdraio accostarmi e affondare la testa tra le loro minchie.
Giovani e vecchi per me non faceva alcuna differenza, parimenti (vedi come parlo) mi risultava del tutto irrilevante se i precetti dell’ igiene intima fossero osservati, poiché ubriaca come stavo, non distinguevo granché circa la differenza intercorrente tra un sapone di Marsiglia o un afrore qualunque di formaggia stagionata sotto le brache.
Loro se la ridevano molto nel vedermi a carponi con Ringo che mi importunava sovente a leccarmi il buco del culo.

Non ero vacca. Noo. Ero proprio una cessa, tuttavia servizievole e non mi facevo riguardo alcuno nell’osservare in buon ordine il mio magistero di bocchinara.
Ovviamente in quelle occasioni non venivo utilizzato solo per ingrossare cazzi, ma la mia adorazione per coloro che in fondo mi avevano accolto in quella comunità e senza i quali sarei forse finito male, era tale da accompagnare gli sbronzi a pisciare tra gli alberi poco lontano ove al frastuono lontano udivo il gracidar delle rane e il mormorio dei grilli.
Poveri, erano così ubriachi che dovevo liberarli dalle brache per una sana pisciata. Qualcuno gradiva una energica scrollata a fine minzione, qualcun altro apprezzava di buon grado che mi prestassi ad asciugare le fredde cappelle smunte con lingua e risucchio, sempre a fine minzione.

Uno direbbe, si perché lo facevi. Torno a ripetere che per conquistarmi i favori della comunità e del mio ragazzo, volevo che si parlasse un gran bene di me. Si chiama intelligence. Senza intelligence Mata Hary non avrebbe superato l’esame della storia.
Dovevo giocare d’astuzia.

E il mio fidanzato? Il mio fidanzato appariva a tarda serata. Io mio fidanzato mostrava solo apparentemente di non essere geloso di me e delle mie pratiche collettive, poiché quando sedeva in branco lui mi ignorava. Forse perché si sentiva un po’ in imbarazzo a mostrarsi sentimentale in quelle circostanze, al culmine delle quali mi ritrovavo una fiatella di vodka, di minchie e di sborri.

Poi però giungeva il nostro momento. Si alzava, buttava nel fuoco la cicca di sigaretta, afferrava la cima che mi cingeva il collo e mi portava via dalla baldoria, non senza me che mi girassi agli uomini già sbocchinati per fare un salutino gentile con la manina a mignolino.
Che fastidio questo Ringo che mi seguiva con il pallino di leccarmi il culo, ma per fortuna il mio fidanzato gli tirava due calci che la bestia capiva che doveva lasciarci soli. Avevamo bisogno della nostra intimità.

Si scendeva dunque l’argine del fiume e in quel luogo, pieno di zoccole grosse come pantegane, mi veniva sottoposto il suo menu del cazzo.
Come antipasto una bella pisciata in gola piena di schiuma che deglutivo di fretta perché la piscia era tanta. Ma la piscia aveva lo scopo di sciacquare il cesso e il sifone della mia bocca dai rimasugli di sperma versata da terzi.
Cosa vuoi, era un igienista.
Dopo l'antipasto, a seguire un trancio di minchia con vellutata di formaggio ed un rivolo di sputo alla vodka e tabacco. Ergo un soffocone tra le zoccole di cloaca e un dessert finale di sborro digestivo.

Dimostravo il mio gradimento con rutti feroci, che il mio fidanzato premiava con ineccepibile sorriso. L’apparente volgarità dei miei rutti era un invito a lasciarsi andare. Con me poteva essere lecito tutto visto che solo all’uomo amato io di me concedevo tutto, e glie lo facevo capire così, restando in ginocchio.
Lui intendeva perfettamente i miei propositi perché nessuno come gli amanti conosce a fondo il lessico dell’amore. In risposta al mio invito di lasciarsi andare, mi rallegrava dunque con scurrili scorreggioni sulla faccia. E guai a levar via la faccia.
Se poco poco facevo la disgustata, lui mi menava una bella sberla da finire per terra stecchita, poi si acquattava a squat e mi sterminava con spruzzi d’aria da incendiarmi tutta quanta.

Uomini cosi non ne trovi più.
Con un calcio affettuoso mi rovesciava infine nel fiume e tutte le zoccole che scappavano.
Per far capire che tra me e lui il futuro sarebbe stato sereno e divertente, io starnazzavo nel buio facendo "coccodè'" non sapendo esprimere con esattezza il verso della paperella.
Egli rideva. Poi tirava la cima e mi strattonava via con somma decisine.
Amo l’uomo deciso. Detesto quei finti decisi attivi che nella vita di coppia si ammosciano nel languore facendosi ficcare un dito nel culo per sborrare.
Lui no. Lui non me lo avrebbe mai chiesto.

Mi avrebbe rifornita di cazzo tutti i santi giorni e mi avrebbe utilizzato solo per il mio buco del culo, ignorando del tutto il mio pisello perché in una coppia deve esserci un solo cazzo e una sola fica, anche se questa è cacante, tanto per parafrasare mia madre.
Tenendomi per la cima al collo mi trascinava con molta decisione e moltissimo amore. Si passava nuovamente in mezzo alla baldoria e ai falò, e io, ignuda, salutavo tutti ma proprio tutti con la manina col mignolino.

Poi si raggiungeva il camper del mio ragazzo presso cui mi legava.
Poi entrava in camper, e lo udivo litigare con la sua moglie. Volavano schiaffi. Poi lei non strillava più.

Io accoccolavo in terra, e pregustavo la lite coniugale dal di fuori, sognavo tra le stelle il giorno in cui con un paio di schiaffi avrebbe ripudiato la moglie per me.
Io avrei presto preso il suo posto. Ci saremmo sposati con rito rom, gli uomini avrebbero acceso falò di pneumatici in ogni angolo del campo, e le donne del campo mi avrebbero agghindata con abito di seta celeste come Mata Hari, si, nel giorno della fucilazione.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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