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014 SANGUE E ARENA


di CUMCONTROL
22.02.2020    |    5.357    |    5 5.3
"Le acque basse e fresche conferirono al mio culetto un piacevolissimo refrigerio..."
Quando molti anni or sono feci rientro in Italia dopo la mia lunga esperienza in Ungheria decisi di mettere la testa a posto.
Intanto avevo trovato un fidanzato, una modesta dimora e avevo rinunciato alle ingenti somme ereditarie della mia famiglia poiché con essi – la mia famiglia – chiusi ogni tipo di rapporto.
Mio padre morì prima del mio rientro in Italia e fu scritto che a ordire la sua morte vi fosse lo zampino di mia madre.
Mia madre invece fu travolta da numerosi scandali finanziari legati alle forniture belliche di famiglia, e finì a San Vittore prima e a Castiglione delle Stiviere poi, dopo che le furono diagnosticati seri disturbi di grave natura psichiatrica.
E bene si, sono figlio e vittima della follia.

Vittima di una famiglia feroce misi da parte ogni rancore.
Non avrei potuto fare diversamente se volevo vivere una vita serena.
E così ripresi a studiare, a Siena.
Mi laureai cinque anni dopo il mio rientro dall'Ungheria, con una tesi sociologica sulle comunità rom. Il mio docente fu davvero molto esigente con me ma io fui all’altezza delle sue aspettative e mi guadagnai di seguito la sua stima col massimo dei voti.
Col mio docente nacquero in seguito diverse collaborazioni e tra noi nacque anche un rapporto di sincera amicizia, nonostante il mio professore fosse già un uomo in tarda età, ma molto intelligente.
Fu così che preso dal desiderio di raccontare la mia storia, gli porsi un giorno il mio manoscritto, Hungarian Rhapsody, il diario della mia post adolescenza e l’elegia della mia brutta vita passata in Ungheria dove finii per ragioni che pubblicherò in seguito.

Il mio professore ormai in pensione aveva peraltro perduto sua moglie, e impietosito dalla sua profonda costernazione di uomo solo lo invitai a trascorrere qualche giorno nel mio casolare di Vulci.
Fu in quel soggiorno estivo, tra il canto delle cicale e le solitudini arboree, che il vecchio decise di trascorrere i meriggi sull’amaca a leggere il mio manoscritto, mentre io approfittando dell’assenza del mio fidanzato sempre fuori per lavoro, me ne andavo a Grosseto a tirar bocche come una porca nei cessi della stazione.

Quand’ebbe ultimata la lettura del mio Hungarian Rhapsody, due settimane dopo, il mio ex professore me lo ritrovai con la faccia affondata nelle mie natiche a leccarmi stregato il buco del culo.
Io non potevo credere che il racconto della mia vita potesse stregare un povero vecchio, ma fatto sta che smisi di andarmene a Grosseto, preferii trascorrere i meriggi standomene disteso sull’ amaca gustandomi la brezza e la lingua del vecchio professore.
Naturalmente trascorrevamo ogni pomeriggio così.
Io supino, lui affondato nel mio buco del culo, a ripulirmi con dovizia di saliva l’ano slabbrato, ripulendolo dall’afa e dal sudore.
Era piacevole. Spesso le sue porche voglie risorte gli conferivano un’audacia quasi giovanile.
Mi voltava, mi sbocchinava a due mani con la bocca di culo, ed io lo accarezzavo pietosamente sul capo, quel capo quasi calvo, dai pochi capelli spettinati e dalla fronte corrugata.
Vederlo ansimante e smenarsi la mazza mi piaceva. Era come se il mio corpo, la mia tenuta adamitica, i miei umori e sapori fossero di sollievo alla sua vedovanza.
Era come se gli restituissero la vita, e lo riscattassero dalla penosa consapevolezza di una vita a termine.
E pure non era omosessuale, ma la scrittura sapiente converte.

Sodoma è la città celeste.
E CUMCONTROL è il suo Monarca.

Quando una sera gli chiesi quale passaggio del mio diario avesse suscitato in lui le irrequietudini della lingua egli mi rispose che il capitolo SANGUE E ARENA aveva restituito alle sue stanche membra le brame titaniche degli anni giovanili. Giochi gladiatori al campo rom.

Allora eccolo il capitolo che nel vecchio risuscitarono quelle antiche brame.

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Mi destai dal giaciglio di cartoni quand'erano passate le 11 del mattino.
Mi aveva destato dal sonno lo scroscio di piscio di qualcuno di "loro" presso la latrina comunale contro cui avevano approntato il mio ricovero notturno in quel campo.
Non fu un risveglio felice.
Cristonai alla lunga inveendo contro l'amministrazione del comune di Milano che non curava affatto la manutenzione degli scarichi dei suoi vespasiani presso i campi rom del suo circondario.
Il lembo del materasso su cui avevo dormito faceva davvero schifo perché zuppo di liquami.
Per mia fortuna era la parte ove avevo adagiato i piedi.
Mi alzai tutto rotto dopo la notte di baldoria e sputai biascia intrisa di vodka e di sborra.
Ero nudo, ma quando fuoriuscii dalle ombre di bagolari maestose attraversai le dune della discarica e sentii sulla mia pelle il dolce accarezzare del sole di maggio.
Mi avvicinai ai primi caravan del campo, e dei cani mi vennero vicino tutti festanti.
Mi riconobbero dall'odore dei loro padroni che la notte prima mi avevano sconquassato la bocca e la trippa fino allo sconcerto.
E dire che c'è gente che paga l'ingresso nelle saune per sottoporsi a ciò che io avevo vissuto nel campo rom.
Aggratis.

Ammetto che il buco del culo mi doleva abbastanza e quando vidi ai piedi di una baracca un mastello di rame arrugginito ma colmo d'acqua, ci accomodai il deretano in ammollo per dei buoni dieci minuti.
Dal baracca uscì una signora senza denti, piena zeppa di oro da parere una madonna beduina e con in dosso un sacco di stracci tutti colorati.
La donna cosa volete... portava fuori dal camper della biancheria unta da lavare.
Quando mi vide con il culo in ammollo mi strillò, agguantò da un tavolaccio una radiolina, che non per dire per me era pure rubata e me la scaraventò con una rabbia, ma con una rabbia che fece saltare in mille pezzettini l'ondulino di eternit su cui m'ero appoggiato durante l'ammollo del deretano.
Balzai come un gatto e mi scusai perdendomi in mille reverenze facendo vibrare le manine.

Dalle roulotte vicine fuoriuscirono altre donne che risero sguaiatamente. La donna prese da terra una mazza di ferro e mi rincorse tra le roulotte e finii con lo strillare anch'io finendo con lei di sembrare come due pazze.
Ma nella corsa la donna si piegò dal ridere e se mettiamo da parte la pioggia di bucce, datteri, torsoli e bottiglie di birra vuote tirate da ogni dove, ammetto che poi finii col ridere pure io.
Poi una moto mi sfrecciò d'innanzi da schiacciarmi il piede ed io strillai non poco. Emisi un innocente vaffanculo. La moto si fermò, ed un tale, un ceffo, uno scimmione con l'aria scurrile e anche un tantino volgere si voltò guardandomi con disprezzo mentre tra le labbra serrava un mozzicone.

Un mio precettore, prima che fossi buttato fuori dall'istituto, mi raccontò che nel mondo c'erano degli uomini poco eruditi, inclini alla violenza cui fregava un niente delle buone maniere, gente a cui non importava un fico secco della misericordia cristiana, del greco antico e della etichetta di classe.
Io non gli credetti, ma lui insistette per farmi capire che non tutti al mondo potevano essere dei rampolli di buon casato o essere figli di una famiglia potente. Io non gli credetti neppure quando mi raccontò delle case popolari e ricordo che scoppiai a piangere quando mi parlò delle scuole statali.
Ma in quel campo rom capii che aveva ragione.
Dopo il mio educato vaffanculo per essermi passato sui piedi Il ceffo mi prese per un orecchio, mi trascinò fino ai bordi del campo e con un calcio mi buttò giù per i canneti in mezzo ai quali capitombolai fino a finire nell'acqua del fiume.
Non è senza piacere finire nel fiume.
Le acque basse e fresche conferirono al mio culetto un piacevolissimo refrigerio.
Dopo il calcio tirato con modalità assai sgarbate per la verità, il ceffo voltò le spalle e scomparve dalla sommità dell'argine.
A parte il fondo melmoso e lo sgattaiolare di ratti grossi come cinghiali, mi adagiai a fare il morto, a nuotare a rana dolcemente, divertendomi con brio nell'emettere scorreggine d'aria nell'acqua, tanto ne avevo in corpo, perché è difficile non trattenerla nel viscere dopo uno stupro etnico della sera prima.
Si, stavo proprio un gran bene.
Va bene, ero stato ripudiato dalla famiglia e cacciato dall'istituto ma stavo scoprendo il mondo senza legacci affettivi o crucci di sorta.
Ero libero. Si, libero.
Nuotai fino al piccolo promontorio della discarica di residuati edili, carcasse d'auto incendiate ed elettrodomestici scassati, poi vi salii in punta e se solo avessi avuto un pacchetto di crackers integrali o di riso, li avrei mozzicati a piccoli tocchi e con l'indice all'insù.
La finezza insomma.

Mi accovacciai sul promontorio di calcinacci. Guardai placida l'infinito dell’argine opposto fatto di cemento armato.
Guardavo tra le ciocche bagnate dei miei capelli, di tanto in tanto me ne portavo qualcuna dietro all’orecchio, come avevo visto fare anni a dietro da certe ciccione contemplatrici, sedute, solitarie in battigia al lido di Ostia.
Che poi le ciccione solitarie a cosa pensano guardando l’infinito. Me lo sono sempre chiesto.
In quale direzione vada la propria vita? Ai pentimenti di un amore irrealizzato? O forse ai kilogrammi di carboidrati tranguigiati per tutta una vita e la sindrome metabolica che uccide?
Eh?
Accheccosa penZano, eh?
Vorrei dir loro alzati, alzati e non rotolare nel mare prosaico dei rimpianti.
Ciò che è mangiato è mangiato, e la vita passa. Passa senza mai una dieta, senza mai una cyclette, senza mai una tisana, e vanno avanti tra l'abbacchio e l'amatriciana fino a morire sulla soglia del mare come orate spiaggiate.

Ma io non ero ne' una cicciona in due pezzi sul lido di Ostia, ne sognatrice di un uomo che l'avrebbe portata via.
Io ero già nel mio altrove, felice da giorni nel campo degli zingari e ogni altare di spazzatura sulle acque del fiume, era per me un posto in prima fila a contemplare vita serena senza tormenti d’amor.

Si che a un certo punto, il silenzio delle acque molli del fiume, fu interrotto dalla sinfonia di ragazzotti del campo che dall'altra parte del fiume si rincorrevano in mutande per poi fare dei gran tuffi.
Quando si accorsero di me che restavo seduto assorto nel contemplare i tetti di case oltre l’argine di cemento armato, presero a chiamarmi con versi gutturali.
Io li salutai sorridendo ed abbracciai le mie ginocchia dondolandomi ancora con sbuffetti d'aria compiaciuti e sfiatati un po' di qua un po' di là. Puzzette insomma.

Ammettiamo ora che i ragazzi si mettano tutti a nuotare fin verso l'altra sponda del fiume.
Ammettiamo che là, proprio dove la corrente dell'acqua è più forte, i ragazzi retrocedano cautamente e ammettiamo che solo uno di loro vi si avventuri a bracciate fino ai piedi del promontorio fatto di scorie urbane, e sulla cui sommità ci sto io, la Sirenetta di Copenaghen traslata in discarica come una santa.
E cosa ci viene da pensare? Se fossi femmina penserei che in natura è il maschio più forte ad inseminare la femmina a garanzia della specie. Quindi la femmina compiaciuta si mostrerà compiacente al maschio audace, no?
Ma femmina non ero.
Ma il più forte nella contesa sugli altri maschi, mi illudeva di esserlo, un’invertita seduttrice sulla cima della duna di una pubblica discarica.
E ditemi voi se costei, la femmina compiacente, non si sarebbe potuta godere ora delle belle schiaffeggiate di cazzo sulla faccia, no?

Mi preparai alle percosse a base di nerchia del più forte.
Il ragazzo si sollevò mostrandomi la magra e nervosa nudità del torso, col ventre piatto e la carne di un fallo ben fatto sotto mutande bianche, bagnate ed insolitamente pulite.
Si lasciò guardare quel ragazzo.
Certi ragazzi di vita sono così diversi dai bagarozzi di oggi che incarnano estetici cliché di tutto rispetto ma per quanto riguarda me, no grazie.
Intolleranza al ciccione. Li chiamano bears, no? Beh per me sono ciccioni e basta, magari c’avranno pure la barba ma strillano ai concerti di Lety Caca.
Bisogna però che qualcuno glie lo dica.
Questo – non – è etico.
Vedi come sono? Di classe.

Ora, lui sotto e io in cima alla duna. Ma cosa non volete che mi facesse quello lì.
Il ragazzotto prese a scalar la duna ed io come dovevo stare, eh?
Ritrosa stavo, e timida stavo. Lo osservai salire come un ragno verso di me.
Quando la sua figura adombrò il mio volto nel sole raggiante contemplai le goccioline su pelle liscia, tesa, l’incipiente barbetta, gli occhi d'assassino con tutti i muscoli del corpo irrorati dal fremito dell’imminente amplesso.
Gli calai la mutanda e pigolai che mi pisciasse in gola.
I secreti del giovane maschio non faranno mai di noi delle cagne disgustose ma creature mitologiche assetate di vita.
Ma il ragazzo non mi comprese. Mi diede la mano e mi fece alzare. Riconobbi quel volto. La notte prima aveva arbitrato una modesta gang bang nel boschetto delle bagolari e con clemenza mi offrì il suo petto su cui aggrapparmi mentre me ne stavo a pecorona trapanato da tre o quattro zoticoni.
E se nel mentre tutti mi davano della "'a zozzona" egli fu l'unico a sfiorare le mie labbra mentre me ne stavo ad ansimare sognando di culo.

Quel ragazzo vigoroso mi scopò per ultimo.
Era nobile di spirito perché con senso fraterno ebbe la pazienza di lasciar sfogare prima i suoi compagni.
Quella notte prima attese infatti con molta pazienza, senza pretese da capo branco.
Poi prese il suo turno e affondò incurante negli spermi altrui.
Ero tutta impasta dal di dentro. Io credo che vi sia forse una ritualità fraterna nelle scopate da branco.
Miscelarsi la minchia tra gli spermi altrui nel buco di culo che sia di scrofa o pecorella smarrita o ragazzo dabbene finito al campo, a loro poco importa, purché il predetto buco di culo sia trombato per una notte intera ai confini del mondo con somma attenzione fra di loro, forse per gerarchia.
.
La notte prima quel ragazzo sublime dagli occhi assassini mi sbatacchiò l'anca, afferrandomi audacemente, buttandomi la nerchia nel mio budellino spaurito. Ricordo che mi baciava la nuca, mi mordeva la testa e sbatteva.. Sbatteva.. Sbatteva..
Era stato bellissimo.
Lui gemeva nelle brame del sesso, ed io gemevo, certo che gemevo, mentre gli altri si pulivano il cazzo o tiravan sù le loro misere brache. Qualcuno si voltava nel buio e pisciava, qualcuno pettava e qualcuno prendeva il sentiero per tronarsene al campo.
Quasi solo ero rimasto a notte fonda gemendo con lui. Gemevo di prostata, perduta nei dolori, negli spasimi, negli albori immorali di una ininterrotta diarrea.

Ora quel bellissimo zingaro dalla pelle di corallo mi fissava sulla duna. Mi fissava in volto ed io, io restavo impalato a sfuggire altrove lo sguardo perché sommerso apparentemente dall’imbarazzo.
Apparentemente. Perché vedete c’è sempre qualcosa di misterioso negli incontri con uomini e ragazzi che ci piacciono in particolare. All’audacia del sesso abbiamo l’ardire di strappare una promessa d’amore.
Infatti che sa, forse la mia aria da timida cerbiattona avrebbe suscitato in lui una qualche affezione particolare dopo la sborrata, no? Magari mi avrebbe abbracciato, mi avrebbe protetto dagli altri e dal mondo, mi avrebbe salvato dalle paure di essere umano e trombata a vita. A puttanona inZomma.
No?

Va be andiamo avanti.

I ragazzi di là chiamavano, ma egli li ignorava.
Egli era me che voleva. Questa volta tutta per sé.
Mi voleva.
Io mi afferrai una mammella e mi morsi il labbro mentre egli mi teneva per mano.
Allora discese dal promontorio tenendomi la mano, e se lui scendeva sicuro come un capriolo, io lo seguivo e incespicavo spesso starnazzando sommessamente giusto per non sembrare proprio una checca.
Ci inoltrammo nel fitto dei canneti ove l'acqua del fiume raggiungeva le ginocchia.
Le canne ombreggiavano la nostra alcova di sabbia e ricordo che il soffio del vento quasi le faceva cantare.
Tirato dalla sua mano incedevo nell'intermittenza luminosa di un sole che ci spiava dalle canne.
Vi era dell'aria soffice e fresca che soffiava, e degli uccellini compivano brevi salti alati tra i fusti seguendoci quasi con curiosità.
Sentii nell'aria un profumo di grazia, di incanto. O forse era solo un afrore di fogna.
Ma tanto ero preso dal ragazzo di schiena che mi accompagnava chi sa dove, tanto mi sentii come rapito e prossimo a un qualcosa di nuovo, di divino.
Gli avrei dato il migliore dei miei pompini visto che il mio buco del culo era ridotto a panettone dalla sera prima.
Lui faceva strada.
Strillai quando vidi dei canneti che si aprirono tutt’intorno, come in un anfiteatro tutto nostro, tutto raccolto, dove piccole onde del fiume si gettavano sussurranti sulla riva di sabbia bianca.
Tutt'attorno era un fogliame di quinta di verde a formare un talamo naturale con decine e decine di farfalle dalle ali nere ma iridescenti.
Quando ci portammo fuori dalle acque lui mi afferrò entrambe le mani e si distese sulla sabbia ed io su di lui.
Volle baciarmi al riparo dagli occhi di una comunità errante, quella dei rom, che tollera, pratica, ma che bandisce la sodomia sentimentale.
Mi baciò tenendomi la testa, poi mi voltò di schiena sulla sabbia baciandomi il collo e mi strinse i seni mentre il mio corpo dischiudeva le cosce lasciando che le sue dita giocassero voluttuose sui dolci orli del buco del culo.
Egli non si curò di ravanare in un panettone sformato e spampanato.

Allora io lo voltai, come una valchiria lo placai sulla sabbia e gli montai sopra strofinando i glutei sulla sua bella minchia impaziente.
Mi agitai simulando l'estenuante cavalcata reggendomi viziosa delle tette inesistenti. Volevo sfiancarlo. Era il maschio, il più forte, il più degno fra i degni per la sua regina.
Era il natante tornato finalmente nella sua isola, ed io ero la sua Penelope, ingrifata e tragica, puttanona che mandava finalmente affanculo il telaio delle attese, e stanca, si stanca, stanca di succhiar cazzi ai Proci di casa sua, la BBella signOra, la Penelope promessa, si ricongiungeva finalmente al suo Ulisse ingozzandosi di cazzo nella sua bella fica cacante!

Io gli stavo spora. Ricordo che lo persi a schiaffi perché pervenisse al suo dovere. Il ragazzo volle afferrarsi la minchia, volle sollevarmi di poco il bacino e tentare l' affondo.
Quando affondò le pareti dei miei sfinteri furono arse vive dal palo di carne.
Mi inarcai gemendo senza riguardo, e lui guerriero attento al suo dovere, godeva sommesso dal basso lo spettacolare compiersi della mia lussuria.
Poi volle di nuovo rovesciarmi sulla sabbia. Mi pose di schiena, mi sollevò le gambe mentre io presa dalla foga presi a strizzarmi la tetta. Ecco. Mi stava sopra, con le braccia ben schiantate sulla sabbia mentre riprese la spinta dei reni.
Ricordo che urlavo come una babbuina. Vidi i miei piedi vibrar contro il cielo azzurro, vidi il suo torso e le spalle tesi, vidi il collo nervoso che gli afferrai.
Strinsi ma egli fotteva. Lo minacciai persino di morte se non mi avesse spaccata in due come fa il tronco sotto l’ascia del suo boscaiolo.
Poi sopraggiunse nuovamente quella sensazione di strazio alle viscere, gli spasmi brulicanti, quella stupenda sensazione di cacarella negata mio dio che meraviglia.
Sanguinavo. Ricordo che a singhiozzo urlavo malimortàaaaacci invece che un più elegante oh my god.

Poi d’un tratto, vidi muoversi dietro di lui le foglie del canneto.

Il ragazzo era concentrato a fottermi da vero gladiatore, non per dire, ma notai che tra le canne erano apparsi gli altri tre ragazzi e quattamente, questi, si disposero ad osservarci per bene, col cazzo duro pure loro.
Il mio ragazzo si voltò, disse loro di andare via, ma loro niente. Allora stappò la minchia dal culo a tradimento e si alzò di scatto, eretto, maschio, con la sua bella colonna di vertebre orgogliose e spalle superbe, e si accinse nell’acqua avvicinandosi al nugolo degli infoiati.
Avviò senz’altro una discussione nel suo idioma che presto si fece concitata.
Io mi disposi meglio su quel sedime di sabbia strisciandomi verso un’altura di massi sulla sabbia, tutta accaldata e un po’ irrequieta, e allungai il braccio per trarre un cartone di lavatrice da sotto della melma secca, che strappai a ventaglio per farmi aria.

Nella lite uno di loro si discostò dal gruppo e mi si avvicinò.
Io lo guardai, egli allungo il braccio, io mi sventagliai un tantino atterrita.
Egli mi sfiorò un piede, allora io ritrassi una gamba sull’altra, così, di scatto, ma egli ebbe l’ardire di sfiorarmi il malleolo.
Standomene distesa sulle pietre e col ventaglio di cartone in mano, mi sentii francamente un pochino nervosa e presi a sventagliarmi più inquieta di prima, ma questo impertinente individuo si curvò su di me perché le dita toccassero la mia fessura.
Prima accarezzò tondeggiandomi sulla chiappa e poi l’anulare strofinò le mie grandi labbra, e fu lì che con lo sguardo chiesi aiuto.
Ma il mio giovanotto stava picchiando nell’acqua e di certo non poteva badare a me. Stava lottando con ogni sua forza per difendere me, capite, me che ero la sua donn.. ehm, il suo uomo.
Allora mi sventagliai come una pazza e per gestire l’intruso lo dissuasi da ogni intendimento menando una flebile puzzetta.

Questa si chiama strategia del polpo.

Il mio ragazzo le stava prendendo di santa ragione.
Ormai quegli orchi non avevano più pietà del loro compagno di scorribande. Davanti a una bella figheira salta ogni legame fraterno tra maschi. Questo comportamento è di facile intendimento poiché la competizione maschile è l’artificio con cui il più forte funzionario della specie assicura alla specie stessa la conservazione della buona riproduzione.
La specie è cieca ahimè, la specie negli istinti non sa che ad accogliere presto gli spermi del più forte ci sarà una fessura polposa deputata per lo più a sfornar schifezze che progenie.
Ma lui, il mio bel giovanotto, quando si avvide – vedi come parlo, si avvide - si voltò verso di me alle prese con quello lì che stava per abusarmi, e allora accorse sanguinante.
Io mi ritrassi ancora ed gli strinse il collo col gomito a quel bifolco e lo strappò via da me menandolo in acqua.
Io misi la mano al collo e restai stupefatto da tanta impetuosità.
Tra i ragazzi scoppiò una rissa furibonda.
Chiunque tentasse di avvicinarsi a me, veniva raggiunto dal mio ragazzo che gli sferrava pugni decisi proprio sulla faccia. Io recalcitrai sui massi e misi la mia coscia sull'altra.
Pugni, calci, schiaffi e cazzotti. Il mio ragazzo se le prendeva ma cazzo se le dava. Presto l'accogliente riparo del fiume tra le canne si tinse di rosso e nel guardare quei ragazzi nell'agone naturale delle acque intesi la lussuria di Commodo, Caligola e Nerone all’Anfiteatro Flavio.

Disteso sul fianco mi bagnai due dita e sollevai sull'altra la mia gamba e presi a vellicarmi la ciambella ragliando lussuriosa come Messalina. Mi sentii una patrizia pompeiana ai ludi circensi, la matrona eccitata dal sangue e desiderosa di sesso, di sangue e di morte.

Pugni, pugni e ancora pugni. Il mio ragazzo sanguinante in faccia era un vero pugile. Questi si che son maschi.
D'un tratto il mio ragazzo sferrò l'attacco finale mitragliando le facce dei balordi suoi amici che caddero in acqua mezzi morti.
Poi si ripresero e barcollando fuggirono via tra le canne.
Il vincitore si voltò, io emisi un ululato da lupa e sciancai le gambe all’aria.
Egli mi fissò statuario e grondava di sangue nella pozza scarlatta di stagno.
Si avvicinò poderoso, ansimante, ed io disteso lo accolsi tra le mie braccia. Agli si distese su me, ed io riparai il suo fianco con una gamba.
"Amore, sanguini. Lo hai fatto per me" gli dissi con aria pia, mentre la mia anima sanguinaria di Messalina ruggiva di passione nella sua gabbia di falsa tenerezza.

Egli non capiva, ma mi sorrise, avvicinò il volto sanguinante al mio viso ebbro di lussuria, ed io bevvi la sua forza ubriacandomi di sangue e cercando in quell’atto il patto segreto di una eterna giovinezza.
Egli mi baciò e lo sentii tremare sorretto così sulle braccia tese su di me.
Allora intesi che in quel fremere v’era tutta l’ urgenza del mondo di eviscerarmi col suo maglio di carne.
Mi avvinghiai a lui, impiastricciandomi di rosso e baciandogli con ardore riaprii il mio portale di polpa viscerale.
Lasciai che la sua forza bruta mi lacerasse nel di dentro. Nel sangue di entrambi la comunione delle carni si sublimò in istanti d'amore.
Mi sbatteva, con rabbia mi sbatteva. Io mi reggevo al suo collo taurino, irrorato dal sangue della sua stessa vita. Oh io, sanguinaria consorte di Traiano, vaticinavo nelle mie viscere scosse, un futuro folgorante di un amore sovrumano.
Mi contrassi ed egli emise un urlo straziante tendendo tesi tutti i tendini del corpo.
Quella carne confitta nelle mie carni lacere soffocò l'incendio con schiumosi secreti di sperma, profusi a colpi di reni più volte ripetuti.
Poi crollò sul mio petto cosparso del suo stesso sangue e sentii il lento placare del respiro.
Accarezzai quel volto tumefatto e lacero del mio gladiatore e baciandogli il capo dissi "non temere amore mio, hai vinto sugli altri e a buon merito hai meritato me".
Non capì nulla.
La brezza soffiava inni di eternità fra le canne.
Sembrava che dormisse ore. Era dolce, forte, tenero ed io sentii lentamente uscire il suo genitale stanco dalle mie gambe.
Vaneggiai guardando le nuvole, ma non ebbi modo di meditar troppo, già che il mio gladiatore ora pareva aver recuperato tutte le sue forze. Mi riconfisse la minchia nel buio delle mio polpe e fu in quel momento che io intesi sbagliando di riprendere un’altra cavalcata.
Chiusi gli occhi ed attesi in quegli istanti che il maschio riprendesse il moto dei lombi, quando d’un tratto sentii nelle viscere covarmi dentro un caldo piacere diarroico.
Mi stava pisciando dentro.
La sua Messalina ora si faceva cesso per lui. Non è questo l’amore? Non è questo nostro darci in tutto per l’essere che decidiamo di amare?
Poi però noi conosciamo la era natura di queste meravigliose creature chiamate uomo. Loro non badano ai sentimentalismi. Loro sono e resteranno sempre i funzionari della specie.
Fecondata la femmina il maschio ha bisogno di riaversi a sé e al suo branco.
E così il ragazzo sfilò nuovamente la minchia, si rituffò nell’acqua e a grandi bracciate lo vidi uscire dalla darsena fluviale del nostro amore.
Io sorrisi mollemente. A fatica mi risollevai meravigliosamente rotta in culo, e non volevo restituire al mondo i secreti di quel giovane gladiatore iniettatimi nelle viscere, mi contorsi reggendomi il ventre.
Ma poi gli spasmi amorosi degli intestini furono insostenibili e così dovetti dispormi in un angolo di quel canneto cosparso di aulenti foglie di fresco e afrori di fogna, e piegandomi appena scaraventai in etere quei secreti salvifici spremendomi a spruzzo.
Vidi la mia uretra lacrimar di lacrima opalina, lucente e graziata.
Vidi quella lacrima venir giù sospesa a filamento e vidi il mio genitale ancora teso.
Poi mi voltai, commossa quasi a rimirar quel piscio grumoso di sperma sul fogliame aulente del nostro canneto.
Fu così che leccai quelle foglie, con dolcezza, a rimettere dentro di me i secreti testicolari e di vescica del mio giovane guerriero.

L’aratro fende le zolle, e natura fa miracolo.





HUNGARIAN RHAPSODY
Autobiografia di un libertino.
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