Gay & Bisex
Il cinema Marion

10.06.2025 |
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"Senza che mi rendessi conto di quello che stava accadendo Giovanni accompagnò le mie mani contro la porta, mi calò i calzoni senza chiedere il permesso e..."
La prima volta che incontrai Emre fu al cinema Marion del quartiere San Paolo in una calda serata d’estate.Ero sudato, avevo passato tutto il giorno a scrivere la tesi sulle psicosi oniriche dei pazienti che avevo assistito durante la specializzazione in psichiatria e non m’andava di tornare a casa, così imboccai l’ingresso del locale e acquistai un biglietto per la replica di “L’inquilino del terzo piano”.
Il Marion era un multisala fatiscente che avrebbe chiuso da lì a pochi anni ma nel quartiere era abbastanza noto e s’era sparsa la voce che nelle ultime poltrone, durante le proiezioni notturne, si fosse autonomamente organizzato un giro d’incontri omosessuale.
Il capolavoro del regista polacco era proiettato nella sala più piccola e quando scostai il drappeggio rosso della porta d’ingresso il film era già incominciato.
Emre era seduto sull’ultima poltrona della fila più distante dallo schermo.
Non avevo una idea precisa di come avvicinarmi così mi limitai a prendere posto sullo stesso livello ma all’estremità opposta.
Iniziammo a studiare le rispettive sagome attraverso la luce soffusa del lungometraggio e, a poco a poco, dopo che lui ebbe preso l’iniziativa, scalammo le sedie per trovarci l’uno accanto all’altro.
Non so descrivere oggi come mi sentii in quel momento ma mentre il delirio del protagonista raggiungeva il suo apice il peso della mia giornata svaniva tra le braccia di quel ragazzone turco che mi prese direttamente sul pavimento della sala, aprendomi le gambe e scopandomi come un disperato.
“Ne avevo così tanto bisogno”. Mi sussurrò all’orecchio spingendomi la sua mole contro il bacino spalancato.
Se l’estasi esiste devo certamente averla provata durante quella proiezione perché non ho memoria di nulla, neppure di un pensiero, se non della sensazione tattile delle mie mani sulla sua schiena immensa, lungo il dorso e infine sui glutei duri come noci.
Il profumo dei capelli del ragazzo mi rimase addosso per giorni e quella notte, prima di prendere sonno, non mi lavai neppure i denti per conservare in bocca il sapore della sua bocca.
Il giorno dopo ero ovviamente uno straccio.
“Ma non hai dormito?” Mi chiese Giovanni, il coinquilino, vedendomi imbambolato dinanzi ai fornelli mentre il caffè tracimava dall’orlo della caffettiera.
“Cazzo … Non so dove ho la testa. È che questa tesi mi sta facendo impazzire … ”
“Si la tesi come no …”. Rispose lui allusivo.
Lo guardai interrogativo.
“Sei pieno di segni troia”. Disse indicando i graffi sulle braccia e i morsi sul collo.
“Oh …” Mi limitai ad esclamare accarezzandomi i marchi impressi dal turco.
“Ne deduco che non è vero che hai la testa altrove …” Proseguì lui piccato. “È solo con me che non vuoi più”.
I suoi occhi erano quelli di un animale ferito.
Si avvicinò e mi cinse la vita accarezzandomi il ventre.
“Dai Giò lo sai che non ha più senso …”
Ma lui insisteva.
“Non ha più senso stare insieme” Sussurrò mentre mi picchiettava il collo con le labbra. “Ma questo ha sempre senso …”.
E sovrastandomi con la sua stazza imponente mi tirò verso di sé e mi fece percepire la sua rigidità.
Aveva sempre fatto così.
M’aveva preso e lasciato come aveva voluto e anche l’ultima volta, dopo che aveva giurato di amarmi e mi aveva convinto a perdonarlo, il giorno del suo compleanno ero rientrato a casa in anticipo per fargli una sorpresa e l’avevo trovato che ansimava per i colpi di lingua d’un compagno di università.
“Non ci casco più” M’ero detto. “Mai più. E appena finisco questa maledetta tesi mi trovo un appartamento per conto mio”.
E invece ancora una volta lo stavo assecondando.
Giovanni mi infilò le dita sotto al lino delle mutande, le abbassò e con tenerezza mi fece chinare sul tavolo della cucina.
Fu dolce e protettivo fino a che non appoggiò la grossa cappella sullo sfintere e a quel punto non si trattenne.
“Te lo sei fatto proprio sfondare cagna”. Disse. “Te l’ha slabbrato. Entra a secco!”.
E cominciò a scoparmi con violenza insultandomi come piaceva a lui.
“Sono proprio un coglione pensai”.
Ma col culo ancora umido della sborra di Emre mi godetti quegli affondi potenti e l’ingombro dei coglioni del mio ex fidanzato che mi rimbalzavano sul perineo.
Chiusi gli occhi e attesi che la foga scomposta di Giovanni passasse fino a che, mentre le sue unghie bucavano la pelle delle natiche e le spinte facevano sbattere il tavolo contro la parete, lui non mi venne dentro urlando che sarei sempre rimasta la sua cagna preferita.
“È malato”. Avrebbe commentato Virginia quando, più tardi, a casa sua, le avrei raccontato l’episodio. “Una relazione tossica da manuale. Quando ti possiede non ti vuole. Ma se gli ricordi che puoi andartene torna a marchiare il territorio. Scappa!”.
Pensai che in fondo aveva ragione.
Mi ero trasferito in città cinque anni prima da un piccolo villaggio del meridione con la scusa di frequentare l’università.
Il primo semestre lo avevo trascorso a soddisfare la curiosità per il sesso che nelle campagne da cui provenivo non avevo mai conosciuto.
Avevo avuto uomini diversi ogni notte.
Li rimorchiavo nei bar vicino al centro storico, mi facevo pagare da bere e li portavo nella stanzetta al quinto piano di viale Manzoni per nutrirmi del loro desiderio.
Operai o medici, avvocati o imprenditori, insegnanti precari o giovani studenti, tra le mie gambe lisce quei tori erano tutti uguali. Si dimenavano come anime possedute, mi soffiavano dentro l’orecchio epiteti d’ogni sorta e m’infilavano la lingua in gola gonfiandola col loro respiro.
Poi, d’un tratto i colpi diventavano violenti e, sfibrati dalla monta, quegli uomini affannati godevano rumorosamente dentro di me e restavano immobili pesandomi addosso fintanto che il battito dei cuori non s’era regolarizzato.
Giovanni lo conobbi all’università.
Era un aspirante fisico nucleare, aveva origini algerine e la sua pelle emanava una luce polverosa che lo rendeva magnetico come solo il genio può esserlo.
Tutti ne ammiravano la bellezza irregolare, la figura slanciata, l’altezza fuori dal comune, la vita stretta e i tratti esotici del viso, con labbra gonfie e occhi enormi e neri come la pece.
La nostra relazione prese l’avvio durante la festa per i cento anni dalla fondazione dell’università.
Le facoltà erano aperte fino a notte fonda e noi studenti eravamo ubriachi di vino ed ebbri di libertà.
“Ho bevuto troppo”, mi disse lui mentre ballavamo felici sotto i filari delle luci annodate agli alberi del parco. “Accompagnami in bagno”.
E quando fummo lì iniziò a baciarmi, mi spinse all’interno del vano e cominciò a trafficare sotto i vestiti.
Le carni erano umide e spesse per la calura estiva e sulla pelle le mani scivolavano come sopra ad un manto d’acqua.
“Girati”, mi sussurrò all’orecchio biascicando per l’ebrezza.
Senza che mi rendessi conto di quello che stava accadendo Giovanni accompagnò le mie mani contro la porta, mi calò i calzoni senza chiedere il permesso e iniziò a spingere il suo grosso cazzo dentro di me.
Cominciai a mugolare per il piacere, implorandolo di scoparmi con forza. Inarcai le reni e lo lasciai sfogare fino a quando, spossato dalla monta, non sentii che quella figura allungata si ripiegava sulla mia schiena e, affondandovi i denti per soffocare i gemiti, mi riempiva le viscere del suo amore.
La passione esplose come il caldo estivo.
Non passava giorno che Giovanni non mi possedesse in ogni angolo riparato dell’università.
Il fuoco che s’era acceso la notte dell’anniversario divampò nei mesi successivi e non si spense per anni, rendendoci presenze stabili nelle rispettive vite, fino a che le fiamme non presero a scemare trasformandosi in braci appena riscaldate.
Quando mi resi conto dei numerosi tradimenti che stavo subendo era troppo tardi per allontanarmi dall’uomo che s’era preso gli anni più belli della mia giovinezza.
Io e Giovanni condividevamo un appartamento ormai da otto mesi e pensai che la cosa più intelligente fosse cercare di mantenere un rapporto civile, almeno fino alla fine degli studi.
Ma troppo spesso, la notte, il sonno era disturbato da quella figura indecisa che passava a sfogare i suoi bisogni tra le mie gambe per tornare estraneo al mattino.
Per questo, prima di rientrare a casa, iniziai a frequentare il cinema Marion.
Mi auguravo che lasciando in quel luogo il desiderio che mi consumava di giorno avrei trovato la forza di rifiutare gli assalti notturni di Giovanni.
Volevo affrancarmi da quel giogo di sottomissione che mi opprimeva e compiaceva allo stesso tempo.
E invece conobbi Emre.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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