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Lui & Lei

Dalle otto alle otto per ventiquattr'ore - Capitolo 15 - dalle 22 alle 23


di Parrino
14.11.2022    |    758    |    1 9.0
"Porti le tue mani sulle mie e ti volti per accarezzare le mie labbra con le tue prima di rivolgerti ancora alla distesa nera davanti a noi, illuminata solo..."
«Tanto per essere chiari, quella smorfiosa non rientra tra le papabili», mi dici con voce pacata.
«Papabili di cosa?», replico confuso.
«Tra quelle che potrai scoparti quando sarò andata via. Che continui a sognarselo il tuo cazzo», sentenzi includendo nel tuo sguardo una città ormai immersa nel buio.
Rido di gusto alle tue parole, e riesco a ribattere solo dopo qualche secondo. «Non c'è pericolo».
«Bene», concludi assertiva.
«Peccato però...», ti stuzzico.
Senza proferire verbo, mi guardi con un'aria incuriosita e irosa al tempo stesso. Fingendo indifferenza e continuando a camminare, ti lascio macinare pensieri su pensieri per qualche istante. «Peccato per te, voglio dire», aggiungo poi per distoglierti da essi.
«Che intendi?».
Mi fermo e ti attiro a me senza lasciarti la mano. Sfioro le tue labbra prima di rispondere. «Mi piace quando sei così... gelosa... possessiva... passionale... ma, per prestare attenzione a Floriana, ti sei persa delle scene davvero esilaranti».
«Cioè?».
Faccio un passo indietro, squadrandoti da capo a piedi per permetterti di capire da sola dove voglio andare a parare. Inizialmente resti interdetta, ma, quando anche tu lasci scorrere lo sguardo sul tuo corpo, il lampo della consapevolezza squarcia i tuoi pensieri.
«Vuoi dire che lì dentro...».
«Già».
«Tutto tutto?».
«Gran parte».
«E... chi se n'è accorto?».
«Credo tutti tranne te - replico ridendo - magari anche Floriana, il che spiegherebbe perché guardava solo me».
«Certo... prima fa la troia, poi s'imbarazza. Povera stella».
Ti cingo nuovamente, costringendoti, col peso del mio corpo, ad adagiare la schiena al tronco di un grosso albero. Avvicino le mie labbra alle tue, tanto da far danzare avviluppati i nostri respiri. «C'era una sola donna lì dentro degna di essere definita troia, per come lo intendo io», sussurro.
«E come lo intendi?», chiedi nel medesimo tono di voce.
«Qualcuna che non ha disdegnato di ostentare la sua bellezza e la sua sensualità. Di ammaliare con lo sguardo. Di mostrare il suo corpo praticamente nudo facendo rizzare il cazzo a ciascuno dei presenti. Qualcuna che si è fatta divorare in piedi davanti a tutti. Che ha riempito l'intero locale di una carica erotica tanto densa da risultare quasi percepibile al tatto. Che è stata per un'ora fulcro dei desideri di ogni uomo presente, e che continuerà ad esserlo a lungo nella solitudine delle loro case e sotto le coperte con le loro mogli. Qualcuna talmente disinibita, porca, oscena da aver catalizzato l'attenzione su di sé, e da averlo fatto con la massima naturalezza, senza neppure rendersene conto. Qualcuna come te».
«Una troia», aggiungi cercando di trarmi in inganno.
«La mia troia», ti correggo prima di nutrirmi ancora del sapore della tua pelle e di sentire il tuo fiato caldo invadermi la bocca nel corso dell'ennesimo, vorace bacio di questa giornata. Una giornata che speravo non finisse mai, ma che continua a scivolarmi via dalle mani come sabbia finissima.
«Mi son persa delle scene divertenti, quindi?», chiedi dopo aver ripreso fiato e camminato per qualche minuto in silenzio mano nella mano.
«Già. Non hai visto un ragazzo al tavolo accanto al nostro: ha usato il menu come una sorta di paravento per non far notare alla compagna la sua incapacità di smettere di fissarti. Pensavo che gli occhi gli sarebbero rotolati fuori dalle orbite prima o poi!».
«Un cartone animato», dici ridendo.
«Più o meno. E quel gruppo di sfigati al tavolo vicino alle cucine?».
«Quale, quello talmente coperto di birre che non si vedeva neppure il legno?».
«Si si, esattamente. Ti avranno detto di tutto, parlottando tra loro».
«Ma se ne ho incrociato uno uscendo dal bagno. E' arrossito, ha abbassato lo sguardo, a momenti rischiava di avere un infarto!».
«Per questo li ho definiti sfigati. Classico branco di apparenti lupi che, presi singolarmente, non sanno neanche allacciarsi le scarpe».
Ti fermi di colpo, inconsapevolmente, in uno dei punti più belli del lungomare cittadino, una sorta di ampia terrazza panoramica a strapiombo sul mare. Da dietro, lascio aderire il mio corpo al tuo facendo scivolare le mie braccia attorno alla tua vita. Porti le tue mani sulle mie e ti volti per accarezzare le mie labbra con le tue prima di rivolgerti ancora alla distesa nera davanti a noi, illuminata solo dalla luna che, vanitosa, continua a specchiarvisi.
«Questo è l'est, giusto?».
«Si, il tuo amato Oriente è da quella parte».
«Comincerò da lì».
«Ci avrei scommesso», dico in un misto di rassegnazione e amarezza.
«Devo», asserisci fissando per l'ennesima volta i tuoi occhi nei miei.
Vorrei negare la tua affermazione, elencarti ogni dannato motivo per il quale no, non dovresti. Ogni motivo per il quale rompere questo stupido patto e far si che alle prime ventiquattr'ore ne seguano altre, e poi altre ancora, finché non saranno le circostanze e il destino a strapparti via da me. Ma ormai so che nulla potrà convincerti, e che le mie parole potrebbero solo incrinare questa magia, quest'aura di eternità che ci avvolge e ci culla sin dalle luci del mattino. Contro ogni fibra del mio corpo e del mio essere, scelgo di tacere. Di riprendere in silenzio a passeggiare, facendo in modo che siano i miei occhi e le mie mani a rendere palese lo strazio che mi coglie al solo pensiero di doverti lasciar andare al termine di questa notte.
Ci lasciamo alle spalle alberi, panchine, chioschi e una grande fontana zampillante che cattura la tua attenzione e che anch'io mi fermo a guardare, ammirato come ogni volta che ci passo davanti.
«D'estate è l'unico posto appena fresco in tutto il centro. C'è da fare la fila anche solo per avvicinarsi».
«Ci credo! Che bella...».
«Già».
Arriviamo fino al portone di casa mia in quella che sembra una città fantasma, con solo il rombo del motore di qualche auto in lontananza a ricordarci che al mondo non ci siamo solo noi. Una volta nell'androne, muoviamo verso l'ascensore per tornare al mio appartamento. Per qualche ora, quello che sarà il nostro mondo, un luogo e un tempo nei quali esistiamo soltanto io e te.
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