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incesto

LA PREOCCUPAZIONE DI UNA MADRE, 2


di ElegantiInsieme
05.07.2025    |    487    |    6 9.7
"Ogni piccolo movimento di quel tessuto infido mi faceva accelerare il cuore come se fossi in fuga da qualcosa di primordiale..."
Il punto di svolta
Le parole di mia madre continuavano a rimbombarmi nella testa. Non ero sordo a quel che diceva, né del tutto indifferente.
Più tardi, nel silenzio teatrale della notte, la paranoia di diventare padre a diciott’anni mi aveva stretto lo stomaco come se volesse ricordarmi che i guai veri iniziano sempre di notte.
Dormire? Certo, tra un attacco d’ansia e l’altro.
Poi, come sempre, bastò il sole del giorno dopo a ridimensionare tutto. La luce fa miracoli: trasforma in piccole cose enormi paure, come l’idea di cambiare pannolini mentre ancora ti correggono i compiti a scuola.
Quando rividi Alessia quel pomeriggio, con la sua bocca tentatrice e l’aria da “non mi fregare, so già cosa stai pensando”, mi sentii di nuovo un uomo. O almeno qualcosa che ci somigliava.
Ma nonostante tutto, mi sforzai di fare il serio, e le chiesi di sedersi. Dovevo vuotare il sacco, raccontarle il dramma epico: la predica della mamma, l’assalto emotivo, le paranoie da vichinga che vedeva il mio futuro come una saga di pannolini e disastri.
“Ok Simone, andremo piano,” ha detto Alessia, stampandomi un bacio sulle labbra ogni tre parole. Poi, con quella calma da serial killer romantica, ha aggiunto: “Ma io e te faremo l’amore, e presto la mia figa verrà scopata da te e riempita dal tuo grosso cazzo.”
Ero lì, a un passo dal paradiso, con il cazzo duro come marmo e il cervello in tilt. Bastava un altro sussurro, un altro bacio… ma ovviamente, chi se non mia madre poteva rovinare tutto? È piombata in soggiorno come una punizione divina, gelando l’aria e quel momento perfetto.
Non so nemmeno che film fosse, qualcosa con spade laser e tette aliene in primo piano. L’importante era avere una scusa per stare vicini sul divano. Quando lei si è presentata con la scusa della “visione condivisa”, abbiamo finto di accordarci sul titolo, ma tanto lo sapevamo entrambi: l’unica cosa che volevamo davvero era che mia madre si levasse di torno il prima possibile.
Non l’ha fatto.
Il soggiorno di casa mia era il perfetto esempio di minimalismo funzionale, o come si dice per non ammettere che mancava personalità.
C’erano due tende alla finestra: una bianca e trasparente, giusto per far filtrare un po’ di luce e per non farci sentire troppo spiati dai vicini; e un’altra, oscurante, perché papà si credeva il sovrano assoluto del telecomando. In casa aveva più schermi piatti di quanti ne servano davvero, tutto per poter commentare ogni episodio come se fosse un esperto.
Di fronte alla TV, tre divani bianchi stavano lì, organizzati a ferro di cavallo, come a dire “venite, accomodatevi, e non toccate niente”.
Gli altri mobili? Classici, anonimi, da “salotto di serie”.
Alessia e io ci eravamo infilate su uno dei divani laterali, mentre mia madre si era piazzata dritta come un soldato sul divano lungo davanti alla TV.
Tradotto: non la vedevamo, a meno che non facessimo ginnastica facciale girando la testa all’indietro e di lato.
Non la guardammo.
Ecco, mi venne in mente una suora italiana, perché, ovviamente, tutti i porno di suore sexy che ho visto erano italiane, che piegava Alessia su un tavolo e le sculacciava il sedere fino a farlo diventare diventare rosse le chiappe. Pensiero erotico? Decisamente sì. Così bello che il mio cazzo ha deciso di fare capolino sotto i jeans, premendo forte contro il culo di Alessia. E lei? Non si è fatta problemi a spingere il culo contro il mio cazzo, con mamma proprio lì a fare da spettatrice.
Invece, ci siamo sorbiti il film mentre mamma ci fissava come se fossimo due ladri sorpresi con le mani nella marmellata. Non so se Alessia ci faceva caso, ma io sentivo gli occhi verdi di mamma trafiggermi con una precisione chirurgica. Quegli occhi erano tipo una suora quarant’enne armata di metro da sarta e voglia di castigare il demonio a schiaffi.
La mamma pensava davvero che bastasse fissarci per congelare l’ormone? Che i suoi occhi verdognoli potessero funzionare come un freno a mano emotivo? A un certo punto, chi si sente osservato impazzisce. Ma chi sa di essere osservato, che fa? Boh. Io non lo sapevo, ma una cosa era certa: non le avrei permesso di umiliarmi o di costringermi a una vita da monaco tibetano sotto sorveglianza materna. Se voleva intromettersi nel mio mondo con Alessia, allora ok, che guardasse pure.
Lei premeva contro di me, e la mia mano destra finì sul suo fianco. Nessuna esitazione. Solo carne, calore e l’istinto di stringere più forte. E lì rimase, a stringerla forte. Una stretta decisa, come un avvertimento silenzioso: “Puoi anche guardare, mamma, ma questo spettacolo non lo interrompi nemmeno con un rosario in mano.’
Alessia si mosse, emettendo una risata che aveva cercato di trattenere, e il mio pene si gonfiò fino a raggiungere la sua massima erezione. Mentre pensavo " Lascia che mamma guardi", il mio cuore accelerò e un brivido mi percorse le spalle, scivolandomi lungo le braccia fino ai polsi e lasciandomi dentro un fremito di energia che voleva uscire dal mio corpo. Appoggiai la punta delle dita sul fianco di Alessia, accarezzandola, e senza pensarci, le spinsi il membro contro il suo sedere, sapendo che mamma ci stava guardando.
La mamma poteva vedere i miei minuscoli movimenti?
Spinsi più forte contro di lei, e lei rispose con lo stesso slancio, come se i nostri corpi parlassero una lingua segreta fatta di frizioni e respiri trattenuti. Alessia era rannicchiata tra le mie braccia, e dal profilo del suo viso colsi quel sorriso storto, carico di piacere trattenuto e complicità.
Quando premetti contro di lei, attraverso quei pantaloni di cotone morbido che sembravano cuciti apposta per accendere i miei sensi, vidi il rossore salire sulle sue guance. Lei non distolse il volto, anzi: spinse il bacino all’indietro e aumentò la pressione. Una scarica elettrica attraversò il mio pene dalla punta del cazzo fino ai testicoli, una scarica perfida, ma dolcissima.
Trattenni un gemito, con fatica, mentre le mie mani si aggrapparono al suo fianco come per radicarmi lì, in quel momento che sapeva di proibito e perfetto. Sentivo il cuore martellare e la pelle scaldarsi ovunque. Un’altra spinta, e il mondo, fuori, poteva pure esplodere.
E la mamma? Beh, quella stava ancora lì a fare la regina dell’Osservatorio, tipo giudice di un reality che però non ha il potere di mettere il veto
"Ho freddo", disse Alessia, girando la testa per guardarmi oltre la spalla. "Puoi prendere una coperta?"
"Ok," dissi.
Sui divani, ogni schienale aveva la sua coperta stesa con la precisione di un’opera d’arte moderna. Ne afferrai una e la lasciai cadere sui nostri corpi, tipo scudo anti-mamma in modalità “coprire i danni”.
Credei di sentire un ringhio provenire da lei, ma la risatina di Alessia, intenta a manovrare il sedere per alleviare la situazione nei miei pantaloni, mi fece dubitare.
E adesso?
La mamma, con la sua grazia da falco in missione, disse:“Alessia, è ora che tu vada a casa.”
Come a dire: “Questo circo si è chiuso, signori.”
Santo cielo, avevo forse posto quella domanda ad alta voce?
Alessia incrociò lo sguardo con mia madre, senza battere ciglio.
Con un gesto deciso, sollevò il braccio sinistro e spostò la coperta da sopra di me, svelando quella che poteva tranquillamente passare per una scultura moderna: la mia piramide di imbarazzo ben evidente nei pantaloni.
Mi coprii in fretta, mentre lei si alzava, si voltava e, chinandosi, mi lanciava un bacio veloce, più un avvertimento che un addio.
“Ci vediamo più tardi.”
“Adesso,” tagliò corto la mamma, con la freddezza di un giudice che non ammette appelli.
Alessia spalancò gli occhi, raddrizzò la schiena e abbassò la testa mentre attraversava a passo svelto il soggiorno e usciva dalla casa di mia madre.
“Mamma!!” esclamai, alzandomi di scatto. “Ma che diavolo stai combinando?”
Avrei potuto scegliere parole più raffinate, ma alla fine è uscita questa: mamma, che diavolo?
Rimasi lì, incurante del fatto di avere ancora un'erezione, mentre la coperta mi cadeva addosso. Gli occhi della mamma si posarono sul mio cavallo, spalancandosi, poi mi guardò di nuovo con una strana aria di sfida.
“Presto farò l’amore con la mia ragazza.”
Lo dissi leccandomi le labbra, come se stessi lanciando una sfida e insieme liberando la frase più vera e definitiva che avessi mai pronunciato.
“E non c’è niente che tu, il signor Morelli o papà possiate fare per impedirlo. Davvero. Prima vi arrendete all’idea, meglio è.”
Poi mi voltai e me ne andai dal soggiorno, lasciandomi dietro le urla di mia madre:
“Simone! Simone, torna qui! Simone!”
Ma ormai era tardi. Non avevo più intenzione di ascoltarla.
La mia espressione passò da severa a incazzata nera mentre correvo su per le scale, cercando di seminare la voce di mamma come fosse la polizia. Sbattei la porta della mia camera con la grazia di un tornado.
Dopo un minuto, mi ritrovai a strofinarmi le mani sul viso, tra i capelli, a fissare la porta come se potesse darmi risposte.
Ci pensai, giuro. Tornare giù. Perché, alla fine, mamma non se lo meritava davvero. Faceva solo quello che fanno le madri: proteggerti anche quando non hai chiesto niente.
Ma no, non ci andai. Almeno fino a notte fonda, quando mio padre entrò in camera, buttandomi addosso la sua diplomazia da uomo stanco:
“Sii gentile con tua madre. Tanto lo sai da che parte sto.”
E prima di uscire, con la leggerezza di chi ha appena detto la cosa più ovvia del mondo:
“Ah, e comunque, nemmeno io rinuncerò al sesso per colpa tua.”
Scossi la testa, ridacchiando per quel suo modo disarmante di dire le cose. Presi un respiro, uno di quelli profondi tipo pubblicità del tè verde, mi rimisi in assetto e scesi al piano di sotto a farle i miei (meritati) complimenti.
Punto di svolta
Scesi in soggiorno e trovai papà stravaccato sul divano destro del ferro di cavallo, copertina sulle gambe, testa su un cuscino e telecomando in mano: il ritratto dell’uomo moderno in modalità “vegetale consenziente”. Mamma, invece, stava sul lato opposto, seduta composta, lo sguardo fisso alla TV dove scorrevano i sottotitoli di una serie straniera, non doppiata, quindi automaticamente “culturale”.
Feci il giro lungo, mi infilai dietro il divano e andai a sedermi accanto a lei, sul lato sinistro. Mi guardò. Sorrise. Ricambiai. Pace fatta, o tregua armata, difficile dirlo.
La mamma si era messa il pigiama: una maglia oversize che diceva “non ho bisogno di sembrare sexy, tanto controllo la tua vita a prescindere”. Sedeva appoggiata al bracciolo, con le gambe distese e lo sguardo incollato alla TV, come se nulla fosse successo. Ma io sapevo bene che, dietro quell’aria tranquilla, stava ancora monitorando ogni mio respiro. Altro che Netflix: il vero reality era casa nostra.
Le gambe distese, erano illuminate appena dalla luce azzurra della TV. Da metà coscia in giù, erano lì. Evidenti. E no, non le stavo guardando. Non veramente.
Le stavo guardando solo quel tanto che basta a ricordarti che certe gambe non le trovi nemmeno nei sogni umidi dei pubblicitari di creme di bellezza. Assurde. Offensive.
Ma era mia madre, la vichinga purosangue.
Per darvi un’idea di com’è mia madre, una vichinga in tutta la sua fierezza, pensate a Connie Nielsen. Sì, proprio lei: lo stesso portamento nobile, lo stesso sguardo gelido e magnetico, capace di scioglierti il cuore o trafiggerti l’anima in un solo istante. Vi basta un’occhiata su Google per capire di cosa parlo
E quindi? Quindi niente. Le guardai solo per poter dire, nel mio cervello contorto: “Mi dispiace. Ma mia madre era mia madre”. E a volte, lo ripeto, la genetica gioca sporco.
Dato che la mamma si ostinava a non girare la testa verso di me, mi arresi al film, pur continuando a lanciare occhiate nella sua direzione ogni due minuti, tipo cane che aspetta il biscotto. Niente. Zero reazione. Uno schifo totale, considerando che non avevo certo firmato per una serie piena di sottotitoli solo per far scena da figlio modello. Ma siccome quei maledetti sottotitoli sembravano ipnotizzarla, rimasi lì. Seduto. Inchiodato. Aspettando che la puntata finisse. E magari anche il supplizio.
Indossavo ancora jeans e camicia, con il telefono infilato in tasca. Ci ho messo dentro la mano, l’ho tirato fuori e ho illuminato lo schermo mentre mi rannicchiavo nell’angolo del divano, proprio di fronte alla mamma. Scorrevo distrattamente, quando papà ha detto senza staccare gli occhi dalla TV: “Meglio che quel telefono sia in modalità silenziosa.”
Ok capo. Ho abbassato il volume, anche se lui nemmeno mi stava guardando.
Poi ho incrociato lo sguardo di mamma. Mi stava fissando. Ho mormorato un “Mi dispiace”, a bassa voce, sperando bastasse. Lei ha accennato un sorriso, ma i suoi occhi sono scivolati sul telefono, e quel mezzo sorriso si è irrigidito, come se stessi guardando pornografia in diretta.
Ho scrollato le spalle.
Che si aspettava? Che mi mettessi a recitare le scuse in latino, inginocchiato sui ceci?
La mamma tornò a guardare la TV e io, rassegnato al mio ruolo di comparsa non pagata nel suo film sottotitolato, tornai anch’io al telefono. Scrissi ad Alessia. Mi rispose. Il classico scambio da “ci manchiamo, ma ci stiamo annoiando da soli”. Niente di memorabile.
Sospirai in silenzio. Pensai che forse era il momento giusto per tornare di sopra e passare al genere “divertimento solitario”, se capite cosa intendo.
Ma proprio mentre stavo per alzarmi, notai qualcosa. Mamma non stava più fissando la TV. Non proprio. Aveva quello sguardo immobile, finto distratto, da sentinella in agguato. O forse era solo il suo radar interiore da vichinga purosangue, che captava i miei pensieri con l’accuratezza di un satellite militare.
Mi fermai. Rimasi seduto. Perché se c’è una cosa che impari presto in casa mia, è che sfidare una madre danese armata di intuizione è un suicidio a puntate.
La sua mano sinistra scivolava lenta sulla coscia, proprio dove l’orlo della maglia si era arreso, arrampicandosi piano come spinto da un desiderio sottile. Era salito fino a metà gamba, scoprendo pelle liscia e calda, lambendo l’anca come un invito sussurrato. Le dita si muovevano morbide, in un gesto che si fingeva casuale, ma aveva la lentezza studiata della tentazione. Si grattava piano, come chi accarezza più che grattare, e quella calma solo apparente nascondeva un’intenzione precisa.
Quel lembo di maglia si sollevava solo dal lato opposto a papà, che, ovviamente, non si accorgeva di nulla, disteso sul divano come un mobile inerte, lo sguardo incollato ai sottotitoli come se ogni parola tradotta valesse più di noi.
Io, invece, non riuscivo a respirare. La fissavo senza pudore: il profilo immobile, lo sguardo assente verso lo schermo, e quella mano che saliva un centimetro alla volta, sollevando il tessuto con la complicità di chi conosce esattamente l’effetto che provoca. La luce della TV danzava sulla sua pelle, rendendola più reale, più vicina, più mia.
Il sangue mi saliva alle guance, caldo, sporco, pulsante. Non era il riscaldamento. Era lei.
Inspirò profondamente, e il suo petto si sollevò piano, come una promessa non ancora mantenuta. I capelli biondi le scivolavano sulle spalle, brillando nel buio. La vestaglia sembrava disegnata apposta per restare incollata addosso, seguendo ogni curva, ogni respiro, come se volesse mostrarmi tutto e niente insieme.
E io la guardavo. E mi perdevo.
Nel frattempo, il mio pene si preparava al debutto, lo scroto si stringeva in un tempismo perfetto, come un attore sul palco pronto a rubare la scena. Non proprio il tipo di spettacolo che mi aspettavo di vedere a quell’ora, ma hei, la vita è piena di sorprese.
Ora guardavo il seno di mia madre. O meglio, cercavo di non farlo Indossava quella maglia oversize, una di quelle troppo grandi per essere serie, troppo sottili per essere innocenti. Il cotone le scivolava addosso come se sapesse esattamente dove fermarsi: sopra i capezzoli, tesi e duri come se stessero aspettando qualcuno a cui lanciare un messaggio cifrato. Si muovevano appena con il respiro lento di mamma, ma quel poco bastava per mandare in tilt la mia concentrazione.
Non ricordavo se quella maglia l’aveva sempre fatta sembrare così, disarmante. O se ero io a vederla per la prima volta con occhi nuovi. Occhi da adulto. Occhi da idiota confuso.
Seguivo il profilo del tessuto che si stendeva lungo la curva dei suoi seni, poi giù, fino alla pancia piatta e oltre, mentre il resto di me faceva finta di controllare il telefono. Come se le notifiche potessero battere la vista di una donna che, anche in pigiama, sembrava appena uscita da un sogno pericoloso.
Lei si mosse, impercettibile. Un leggero aggiustamento. Quanto bastava perché il mio sguardo cadesse dritto lì, dove non doveva. Io abbassai subito gli occhi sul telefono, come se un messaggio potesse salvarmi l’anima.
Lei emise un suono, qualcosa a metà tra un sospiro e un brivido. Dopo un secondo, la guardai di nuovo. Quella maglia le pendeva sotto il sedere, tirata di lato sulla coscia, come un invito implicito a guardare: studiato con la precisione di chi sa benissimo dove cade l’occhio. Mamma si mosse. Prima una scrollata di spalle, innocente, quasi. Poi quel movimento si propagò come un’onda: giù per le costole, poi lungo i fianchi. Le sue dita si fermarono sulla coscia, a grattarsi con la calma studiata di chi sa esattamente quanto è osservata, anche se finge il contrario.
Poi guardò il papà, che continuava a fissare la TV come se gli avessero puntato una pistola alla testa: immobile, in trance.
Ed è lì che successe: mamma sollevò il sedere quel tanto che bastava, con un gesto rapido e naturale. La mano scivolò sulla chiappa mentre tirava l’orlo della maglia dietro il suo corpo, scoprendo la pelle liscia e morbida. Un movimento semplice, ma che mi fece smettere di respirare per un istante. Quel culo era un’opera d’arte: rotondo, sfrontato nella sua perfezione, sembrava scolpito apposta per distrarre anche i santi.
E io lì, a metà tra il panico e l’erezione, a chiedermi:
Ma che diavolo sta succedendo?
La testa della mamma si mosse di nuovo mentre stavo ancora riflettendo sulla mia domanda. I nostri sguardi si incrociarono. Sentii il cuore battere forte, come se volesse uscire dal petto. Poi sorrise, un sorriso breve, mentre gli occhi si abbassavano appena, e il mento seguiva quel movimento come per invitarmi a guardare.
Non servivano parole.
E io non potevo fare a meno di chiedermi se tutto quello fosse davvero reale.
Fissavo la sua coscia nuda, con l’orlo della maglia risalito fino alla vita, che le abbracciava il sedere come se dicesse “Guarda quanto sono perfetta, e tu puoi solo starsene lì a fissare.”
La luce fredda della TV le illuminava il fianco come fosse il palco di uno show, mentre il mio pene, come al solito, si faceva duro a velocità record, lasciandomi senza parole, o meglio, solo un gemito di rassegnazione.
Le labbra di mia madre si incresparono, si aprirono un attimo, poi si richiusero. Per un secondo, il suo profilo mostrò quell’espressione spaesata e confusa che avevo avuto io poco prima, ma sparì subito. E io? Ero preso dal panico e dall’imbarazzo, senza dire nulla mi girai di scatto, cercando di nascondere il rigonfiamento nei jeans mentre scappavo dal soggiorno. Attraversai l’ingresso, salii le scale e mormorai frettolosamente: “Buonanotte”.
Papà borbottò qualcosa.
La mamma non disse nulla.
Appena entrato in camera, mi tolsi i pantaloni con tutta la calma del mondo, lasciando però i boxer ben saldi al loro posto. Telefono in mano, seduto sul letto a mandare un messaggino ad Alessia: “Chiamami, voglio sentire quella voce sexy che mi fa impazzire”.
Non avevo idea di cosa sarebbe successo dopo, quando la porta si aprì all’improvviso e sobbalzai come se fossi stato colto in flagrante. In preda al panico, afferrai il primo cuscino a portata di mano e me lo sbattei sul cazzo, duro come una roccia, emettendo un grugnito decisamente poco virile.
Ecco spuntare la mamma, la vichinga purosangue, con la testa infilata nella stanza come un’ariete pronto a sfondare. Quegli occhi, due lance gelide, mi trapassavano senza pietà. La sua espressione era un mix perfetto tra giudice inflessibile e generale pronto a dichiarare guerra.
Posai il telefono a faccia in giù sul letto, pregando in silenzio che il cuscino facesse il suo lavoro di scudo.
“Simone,” disse con voce calma ma tagliente, “non sono arrabbiata per prima.”
"Lo so", dissi.
“Voglio che tu ci pensi bene, Simone. A cosa potrebbe succedere se ti lasciassi andare con Alessia.”
La mamma si interruppe. Sentii il suo respiro cambiare, più lento, più profondo. Come se stesse cercando di misurare le parole, o forse solo il mio sguardo.
“Fai uno sforzo. Solo una settimana. Una settimana senza romanticismi, senza mani dove non dovrebbero essere. E magari, magari ti aspetta una ricompensa più interessante.”
“Una ricompensa?”chiesi, con un sorriso storto. “Tipo una medaglia al merito o, qualcosa che si slaccia?”
Lei non rise. Ma la piega della bocca tremò appena, e nei suoi occhi si accese un lampo che non aveva nulla a che vedere con l'autorità genitoriale.
“Dico solo che, anche se Alessia non fosse quella giusta, forse c’è altro, qui dentro, che potrebbe tenerti occupato. Qualcosa di più vicino. Più maturo. Più, consapevole.”
“Distratto, dici?”replicai, fingendo di riflettere. “Dalle pulsioni? Dalla voglia di sentire pelle contro pelle?”
“Dalla tentazione di saltare le tappe. Dal pensare che il desiderio basti, senza capirne il peso.”
La sua voce era scesa di tono, quasi un sussurro. Intensa. Intima.
Un brivido mi attraversò la schiena. Mi leccai le labbra, e non era solo nervosismo.
La guardai. Lei restò immobile, ma quello sguardo, quello sguardo era una promessa non detta. Una provocazione lanciata come un guanto.
E io, con le provocazioni, ho sempre avuto un problema: le raccolgo tutte.
"Tutto bene?" chiese la mamma.
Ho dovuto fare un respiro profondo prima di dire: "Va bene, mamma", ma non riuscivo a nascondere il tremore nella mia voce.
"Buonanotte", disse la mamma. "Ti voglio bene."
"Anch'io ti amo", dissi mentre chiudeva la porta.
Guardai il telefono, e mi bastò un solo secondo per decidere che il sesso telefonico e le videochiamate non rientravano nella categoria delle relazioni romantiche.
Meno di cinque minuti dopo, un orgasmo mi travolse come un’onda impazzita, lasciandomi svuotato, fluttuante, con i muscoli sciolti, rilassati.
Ero esausto, appagato, e finalmente in pace.
Quella notte dormii come un santo. O meglio, come un peccatore soddisfatto.
Non era la mia immaginazione
Mi svegliai quella mattina prima del solito. Alle sette in punto. Sì, hai letto bene: sette del mattino. Un orario che dovrebbe essere dichiarato fuorilegge durante l’estate.
Feci il mio ingresso trionfale in cucina come se fossi stato convocato sul set di un film d’autore. La luce del sole filtrava dalle tende bianche delle finestre come un riflettore teatrale, trasformando il tavolo della colazione in una scena in posa fissa.E chi c’era lì, seduto come un re del nulla? Papà, ovviamente, immerso nel suo giornale, con le spalle alla finestra e la luce che gli illuminava la carta come se stesse leggendo le sacre scritture. Non sarebbe uscito prima delle otto del mattino.
Poi c’era lei. Mamma.
Indossava una vestaglia di seta color lavanda, quel tipo di tessuto che non copre, ma accarezza. Sembrava fatta apposta per farsi notare e poi fingere di non volerlo. Ogni suo movimento generava pieghe lente e morbide, come una danza. E quella sfumatura di lavanda? Un sussurro visivo: “Guardami pure… ma se puoi, trattieniti.”
La cintura era lì, più per educazione che per contenimento: annodata alla meno peggio, come un segreto mal custodito, pronta a cedere al primo respiro un po’ più profondo. Le due metà della vestaglia si univano in un abbraccio precario, oscillando a ogni passo come se cercassero scuse per aprirsi. E si fermava a metà coscia. Precisa. Millimetrica. Come un confine fragile tra la promessa e la provocazione.
Ieri? Non ci avrei fatto caso. Ma oggi… oggi qualcosa era cambiato.
Ogni dettaglio gridava per essere osservato.
E poi c’era lei, che sembrava assente, persa nella trama di un film qualsiasi. Le gambe, distese e accavallate con l’innocenza di chi sa perfettamente cosa sta facendo. La seta che si ritraeva piano, come un sipario che lascia intravedere il corpo nudo dietro le quinte. La curva morbida dell’anca, l’incavo del ginocchio, quella linea sottile dove pelle e luce giocavano a nascondino.
La sua mano sfiorava distratta il bordo della vestaglia, proprio lì dove si apriva un po’ troppo. Non era un gesto involontario. Non con quel ritmo, non con quella lentezza.
Sembrava dire: “Lo so che mi guardi. E mi piace.”
Ma oggi? Oggi, caro lettore, i miei occhi avevano deciso di fare gli straordinari.
Il cuore batteva forte. Il mio sguardo era incollato a lei, ipnotizzato.
“Buongiorno Simone” disse, sorridendomi. Anche senza trucco, senza niente a incorniciarle il volto, mamma restava bellissima. Quella sua bellezza nordica, limpida, elegante e sfacciatamente naturale, sembrava ancora più vera così, appena sveglia.
E intanto, dall’altra parte del tavolo, papà leggeva il giornale, ignaro.
O almeno… così sembrava.
Papà abbassò il giornale, quella sua bibbia personale di notizie vecchie di un giorno, e mi guardò sopra gli occhiali con quell’aria da inquisitore stanco. Lo sguardo era una sentenza: “E tu che diavolo fai in piedi a quest’ora?”.
"Buongiorno." Scrollai le spalle e mi guardai intorno in cucina e nell'angolo della colazione. Mi sono appena alzato."
"Siediti", disse la mamma. "Ti preparo la colazione."
"I cereali vanno bene", dissi sedendomi.
“Avevo promesso che ti avrei preparato la colazione,” disse mamma con un sorriso gentile. Si alzò con calma e si spostò dietro l’isola della cucina, occupandosi della colazione, sistemando tazze e preparando il caffè con la tranquillità di un gesto mille volte ripetuto.
Mi sedetti in fondo al tavolo, accanto a papà. Alla mia sinistra c’era l’isola della cucina. Lei era lì, di spalle, con il busto chino e la parte bassa del corpo nascosta dal bancone.
Provai a distogliere lo sguardo, ma finii per osservarla comunque di profilo, mentre si muoveva con calma tra tazze e caffettiera. E intanto, un pensiero mi attraversò la mente, silenzioso e ostinato: la notte precedente aveva avuto qualcosa di strano. Un atteggiamento diverso, sfuggente. Come se stesse dicendo qualcosa senza parlare. E io non riuscivo ancora a decifrarlo del tutto.
Quando la mamma si voltò dai fornelli, posò il mio piatto sul bancone della cucina e prese il caffellatte. Io la fissai, aspettandomi un cenno, un’occhiata, qualcosa. Ma no, i suoi occhi erano incollati a papà, e mentre lo faceva, sembrò perdersi nei suoi pensieri. Il suo sguardo non si soffermò mai su di me.
Con il caffellatte saldo nella mano destra, alzò il braccio sinistro con la nonchalance. Le sue dita, come abili esploratrici, scivolarono tra i risvolti della vestaglia di seta, accarezzandoli con una lentezza che sembrava studiata per far perdere la testa a un povero pischello inesperto come me. Poi, con un gesto che sembrava dire “ops, che disattenzione”, tirò il risvolto verso sinistra, lasciando che il rigonfiamento dorato del suo seno sinistro facesse capolino come un tesoro nascosto.
Dovetti letteralmente ingoiare un sorso di saliva per non soffocarmi con la mia stessa sorpresa.
Oddio!
Feci uno sforzo immenso per non fissarla troppo a lungo, anche se ormai era evidente: quel dettaglio non era affatto casuale.
Il mio cuore prese a martellare nel petto come se stesse facendo cardio alle sei del mattino, mentre io cercavo di sembrare il ritratto della calma.
Deglutii piano, lento, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Nell’aria, il profumo del caffè, del pane tostato… e poi il suo. Un mix velenoso. In quella cucina improvvisamente più piccola, più calda, e decisamente più pericolosa.
Abbassai lo sguardo. Mani, ginocchia, bordo del tavolo — qualsiasi cosa potesse aiutarmi a non tornare lì, su quella sottile fessura nella vestaglia, che sembrava voler raccontare più di quanto dovesse.
Ma poi lei fece un passo. Solo uno.
Il tessuto leggero mi sfiorò il braccio, come una carezza pensata per sembrare involontaria.
Sì, certo. Involontaria quanto un bacio in mezzo al palco.
Un brivido mi attraversò la schiena, affilato e rapido. E quando alzai lo sguardo, anche solo per un istante, trovai i suoi occhi. Già lì. Già su di me.
Feci uno sforzo immenso per non fissarla troppo a lungo, anche se ormai era evidente: quel dettaglio non era affatto casuale.
Il mio cuore prese a martellare nel petto come se stesse facendo cardio alle sei del mattino, mentre io cercavo di sembrare il ritratto della calma.
Deglutii piano, lento, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Nell’aria, il profumo del caffè, del pane tostato, e poi il suo. Un mix velenoso. In quella cucina improvvisamente più piccola, più calda, e decisamente più pericolosa.
Abbassai lo sguardo. Mani, ginocchia, bordo del tavolo, qualsiasi cosa potesse aiutarmi a non tornare lì, su quella sottile fessura nella vestaglia, che sembrava voler raccontare più di quanto dovesse.
Ma poi lei fece un passo. Solo uno.
Il tessuto leggero mi sfiorò il braccio, come una carezza pensata per sembrare involontaria.
Sì, certo. Involontaria quanto un bacio in mezzo al palco.
Un brivido mi attraversò la schiena, affilato e rapido. E quando alzai lo sguardo, anche solo per un istante, trovai i suoi occhi. Già lì. Già su di me.
Non disse niente.
Ma quel silenzio, be’, parlava chiaro.
Non era frutto della mia immaginazione. La mamma si stava mettendo in mostra davanti a me.
Santo cielo!
Papà leggeva il giornale, immerso nel suo mondo di notizie, mentre io mangiavo in silenzio, lanciando a mia madre tutte le occhiate che potevo senza rischiare di sembrare, troppo evidente.
Avrei forse dovuto guardarla davvero, affrontare la cosa per quello che era, ma lei era pur sempre mia madre. E io avevo ancora la mia sexy ragazza, almeno sulla carta.
Eppure, nonostante i pensieri che cercavano di tenermi al mio posto, c’era qualcosa, o meglio, tutto, in lei che scaldava l’aria, la pelle, il sangue.
Il modo in cui si muoveva, il tono della sua voce, persino il profumo della sua pelle, avevano il potere di accendere ogni parte di me.
Un angolo della mia mente, quello più razionale (o più spaventato), cercava di opporsi. Cantilenava come un disco rotto: Questo è strano. Questo è sbagliato. Questo è strano. Questo è sbagliato.
All’inizio era insistente, quasi fastidioso. Ma con il passare dei minuti, la voce interiore cominciò ad affievolirsi, come se qualcuno stesse abbassando lentamente il volume, girando una manopola invisibile.
E a quel punto, il silenzio dentro di me cominciò a sembrare pericolosamente comodo.
La mamma, la nostra vichinga purosangue, si dava da fare all’isola della cucina, brandendo un coltello come fosse un’ascia da battaglia mentre faceva a pezzi un ananas con la precisione di chi potrebbe squartare un drago. Intanto, quella dannata vestaglia di seta iocava a fare la ribelle, aprendosi quel tanto che bastava per lasciare intravedere un po’ più di seno, non abbastanza da mandarmi nel Valhalla, ma quanto bastava per farmi sperare e tremare allo stesso tempo.
Ogni piccolo movimento di quel tessuto infido mi faceva accelerare il cuore come se fossi in fuga da qualcosa di primordiale. La seta le scivolava addosso con una naturalezza provocante, aderendo qua e là, disegnando curve, pieghe e risalite in un gioco che sembrava pensato apposta per confondermi i pensieri.
Non mi degnò di uno sguardo, no, i suoi occhi da valchiria erano fissi su papà, come se fosse l’unico degno di attenzione in quella cucina.
Ma poi, proprio l’unica volta in cui il giornale di papà frusciò come un albero che cade nel silenzio del bosco, abbassandosi quel tanto che bastava per creare un momento di sospetto, la mamma alzò la mano sinistra con la rapidità di chi schiva una freccia e si richiuse la vestaglia, come a dire: “Spettacolo finito, signori.”
Papà, assorto nel suo caffè, non si accorse di nulla, troppo impegnato a sorseggiare come un filosofo immerso in profonde riflessioni sul niente.
Fu proprio in quell’istante, naturalmente, che il mio corpo decise di mettermi in difficoltà.
Il mio pene, già fin troppo consapevole della situazione, scelse quel momento per dare chiari segnali di partecipazione.
Sul serio? Proprio adesso? Bastardo! pensai, mentre cercavo di restare immobile e dignitoso, come un soldato in parata sotto il fuoco nemico.
Mentre il giornale di papà si ergeva di nuovo come uno scudo vichingo, la vestaglia della mamma, quella ribelle di seta, decise di fare il suo colpo di scena, spalancandosi come le porte di un banchetto divino. Wow, che spettacolo!
Conclusa la sua battaglia con l’ananas, la nostra valchiria purosangue si diresse al tavolo, portando un bottino di banane, frutti di bosco e ananas, accompagnati da una porzione di yogurt che sembrava pronta per un rituale di degustazione. Si sedette di fronte a papà, con la grazia di una regina nordica pronta a presiedere il consiglio.
Lei mangiava. Papà mangiava, perso nel suo mondo di carta stampata. Io mangiavo, ma con un piccolo dettaglio: i miei occhi da giovane guerriero traditore erano incollati all’interno del seno sinistro della mamma, che faceva capolino come un tesoro proibito, quasi sfiorando il confine del capezzolo. Quel morbido rigonfiamento del suo torace? Oh, per Dio, mi faceva venire l’acquolina in bocca, e non era certo per il suo dannato toast. Era come se il mio stomaco reclamasse un banchetto ben più, peccaminoso.
Mentre guardavo mia madre, il mio pene formicolava e la testa si gonfiava, spingendo il tessuto dei miei boxer e dei pantaloncini verso l'esterno e verso l'alto. Dopo avermi stuzzicato, come faceva mia madre a pensare che non sarei scappato dall'unica ragazza che mi aveva già garantito un po' di figa? Come poteva la mamma sperare di tenermi a casa quando quello che volevo veramente era scopare Alessia.
Lo shock di una scintilla elettrica che mi ha colpito il cervello ha bloccato i miei pensieri, e quando sono tornati, una nuova domanda mi è balenata in mente. Quanto era disposta a spingersi mia madre per impedirmi di avere rapporti sessuali con Alessia per i successivi quattro anni?
Volevo saperlo?
Ero lì, perso in un vortice di pensieri, a chiedermi se davvero volessi scoprire fino a dove sarebbe arrivata questa follia. Non sapevo se volevo saperlo, ma il mio cazzo, quel figlio di puttana schifoso, pronto a dichiarare guerra alle cosce di Alessia, non aveva alcun dubbio. Pulsava e si gonfiava.
Dovevo uscire dalla cucina, ma avevo un'erezione, quindi rimasi seduto lì, mangiando con un'andatura lenta e ponderata. Non era facile, visto che lanciavo occhiate furtive al seno di mia madre, desiderando che la sua vestaglia si spostasse un pelo più a sinistra. Volevo vedere la tonalità della sua areola e magari le dimensioni del suo capezzolo.
Ero stato consapevole dei capezzoli di mia madre fin dall’inizio di tutto questo, ma era stata la morbidezza della sua carne a catturare davvero i miei occhi, mentre altri pensieri più oscuri tenevano occupata la mia mente. Però, ero ben consapevole anche dei capezzoli di mamma.
Quella seta liscia che sfiorava la sporgenza dei suoi seni si era trasformata in qualcosa di più evidente: piccole protuberanze delicate si erano formate sulla superficie del tessuto, spingendolo in fuori in due punti precisi.
Con il tempo, quelle protuberanze erano cresciute, diventando più spesse e dure, e io non potevo fare a meno di immaginare il lento, teso movimento della sua carne sotto il tessuto, che sembrava gonfiarsi e contrarsi in un turbine di sensazioni, con i piccoli solchi dei suoi capezzoli che si contraevano e si allungavano verso l’esterno.
Cazzo, che male alle palle! La mamma, vichinga purosangue, con quella vestaglia di seta mi stava mandando fuori di testa. Ogni occhiata ai suoi seni era un pugno, e il mio inguine un campo di battaglia.
Non appena l’ultimo boccone di toast mi sfiorò il palato, spinsi indietro la sedia e mi voltai verso mio padre. Il giornale era ancora sollevato davanti a lui. Davvero, chi si prende il tempo di leggere un giornale tutto intero?
In fondo, ne ero quasi contento, perché quel muro di carta gli impediva di notare i miei pantaloncini traditori, gonfi come una vela in tempesta
Avrei dovuto scivolare giù dalla sedia, accucciarmi in silenzio e sgattaiolare via dando le spalle a mia mamma, ma invece no.
Non sapevo neanche io perché, ma spinsi indietro la sedia, mi girai a destra e mi alzai con tutta la calma del mondo, mettendo in bella mostra l’effetto devastante che la sua vestaglia aveva su di me. Anche se guardava altrove, i suoi occhi da falco non potevano non cogliere l’evidente ribellione nei miei pantaloni.
Avrei dovuto correre di sopra a masturbarmi, ma invece sono saltato sul divano di fronte alla TV, ho preso il telecomando e ho cercato qualcosa da guardare. Ho cambiato canale, senza prestare attenzione, mentre guardavo l'orologio e aspettavo che mio padre uscisse di casa. Quando se n'è andato, l'erezione si era calmata, ma la gamba aveva iniziato a tremare.
Papà levò le tende poco prima delle otto, lasciandomi solo nel soggiorno come un vichingo abbandonato in attesa di una tempesta. Non avevo la più pallida idea di cosa aspettarmi o quali piani avesse in serbo la mamma, la nostra valchiria purosangue.
Alessia, la mia ragazza, era sempre pronta a incontrarmi dopo i suoi corsi estivi di mezza giornata, e un po’ di giochetti provocanti della mamma non mi avrebbero certo fatto deviare dalla mia rotta. Ma, sul serio, un mare di provocazioni sarebbe bastato a tenermi lontano da lei?
Macché. Le mosse di mamma non avrebbero mai potuto competere con il richiamo di Alessia, questo era chiaro come il sole di mezzogiorno. Eppure, quella dannata domanda mi martellava in testa come un tamburo da guerra: fino a che punto era disposta a spingersi la mamma per tenermi lontano da Alessia per i prossimi quattro anni?
“Datti una mossa”, pensai. la nostra valchiria purosangue, voleva davvero spingersi così lontano?
L’avevo forse fatta uscire di senno? Macché, era una donna razionale, istruita, composta, con l’esperienza di chi potrebbe tenere testa a Odino in persona. Eppure, eccola lì: la mamma fece il suo ingresso nel soggiorno, come una regina che avanza sul campo di battaglia, fermandosi appena oltre il mio divano, di lato, come se stesse calcolando il prossimo colpo. I miei occhi la seguirono, pronti a decifrare le prossime mosse.
"Oh Dio," sussurrai, con gli occhi incollati alla schiena della mamma, la nostra vichinga purosangue, e, ammettiamolo, soprattutto al suo sedere. Quella vestaglia, traditrice come un serpente, le aderiva al solco centrale, scivolando tra le natiche come se volesse sfidarmi a mantenere la calma.
"Ehi," disse la mamma senza nemmeno girarsi, "vado a lavorare un po’, ma poi scendo a sbrigare qualche faccenda domestica."
"Va bene," borbottai, cercando di sembrare impassibile.
"Oggi farà caldo," aggiunse, con un tremito nella voce che sembrava un avvertimento: "Non andare da nessuna parte." E con quelle parole, mi lasciò lì, con il cuore che batteva come un tamburo e la mente che si chiedeva quale fosse il prossimo colpo di questa saga.
“Alessia non esce da scuola prima di mezzogiorno,” dissi, cercando di non far sentire troppo la mia delusione. “E suo padre insiste per venire a prenderla adesso, invece di aspettare che ci vada io.”
"Bene", disse la mamma. "Torno tra un pò per pulire, okay."
"Va bene."
La mamma, la nostra vichinga purosangue, si voltò, e, sorpresa!, la sua vestaglia di seta si spalancò come le porte del Valhalla, aperta dal collo fino a sotto il seno, mettendo in mostra i suoi rigonfiamenti e una scollatura che sembrava scolpita da Freya in persona. (Se non avete la più pallida idea di chi sia Freya, correte subito su internet… ma attenti a non cadere vittima di troppa bellezza in un solo colpo!).
Le sue mani, ferme come quelle di una guerriera, lasciavano uno spazio tra i seni che mi fece quasi soffocare dalla voglia, con la lingua che danzava come se stessi assaporando un banchetto divino. Si fermò per un istante, immobile quel tanto che bastava per far sembrare tutto casuale, ma chi ci crede?, prima di sfilare via dal soggiorno, lasciandomi solo con i miei pensieri, che si agitavano come onde impetuose in mare aperto.

(CONTINUA)

P.S.: Grazie per aver letto la nostra storia! Speriamo vi sia piaciuta e vi abbia ispirato. Se vi va, lasciate un commento o un like: il vostro feedback è sempre gradito! A presto per il prossimo episodio! Alberto & Laura (coautori)
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