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incesto

L’abbondanza proibita di zia Beatrice, 1


di ElegantiInsieme
15.07.2025    |    337    |    5 9.6
"Sorrisi, mentre ripensavo, un’ambizione che sapevo galleggiava tra realtà e fantasia..."
AVVERTENZE PER ANIMI IMPAZIENTI (Spoiler: qui non si scopa subito!)
Questo racconto, fedele al nostro modo di scrivere, è un percorso lento e coinvolgente. Ogni episodio aggiunge un pezzo alla storia, costruendo gradualmente una tensione che vi catturerà.
Se vi aspettate scene di sesso immediate, rimarrete delusi: qui si scopre prima la mente, poi il corpo. Il desiderio ha bisogno dei suoi tempi, perché le cose migliori non si gustano in fretta o fredde.
Se siete pronti a lasciarvi avvolgere da emozioni, sensazioni e un tocco di leggerezza, siete i benvenuti. Altrimenti, potrete sempre trovare altro da leggere altrove.

*****

Quell’estate non sarebbe andata come avevo immaginato. Pensavo di tornare al mio solito impiego stagionale in cucina, nel ristorante dove avevo lavorato gli ultimi anni del liceo. Era un modo pratico per guadagnare qualcosa prima di tornare in università in autunno.
E invece, all’improvviso, mi ritrovai con una valigia leggera e una strana irrequietezza addosso, diretto verso una casa al mare. Ad aspettarmi c’era zia Beatrice. O almeno, così continuavo a chiamarla, anche se tra noi quel titolo cominciava già a suonare un po’ forzato.
Era stata mamma a prendere la decisione, approfittando dell’assenza improvvisa di Giacomo, ufficiale dell’esercito e marito di Beatrice, assegnato a una missione lontana che l’avrebbe tenuto via per il resto dell’estate. “Vai ad aiutarla,” aveva detto. “Ha bisogno di compagnia, con una neonata e nessuno in casa.”
Beatrice e io non ci vedevamo da un po’, ma il ricordo che avevo di lei era vivido. Più giovane delle altre zie, più affascinante, meno, materna. C’era sempre stato qualcosa di magnetico nei suoi modi, in quello sguardo ironico, nella sua voce bassa e nel modo in cui si muoveva. Quando da ragazzino passavo qualche giorno da lei, finivo sempre per osservarla troppo a lungo. E se all’epoca non mi ero mai spinto oltre, ora, con i miei vent’anni e il tempo trascorso, qualcosa dentro di me sembrava voler mettere in discussione certi limiti.
“Grazie ancora per averlo fatto,” disse mamma, stringendomi forte e baciandomi per salutarmi. “Tua zia lo apprezza tanto. E anch’io.”
“L’hai già detto mille volte,” risi. “E te lo ripeto: sono felice di farlo. E poi, passare l’estate con Beatrice suona decisamente meglio che sudare in cucina.”
Quella casa al mare mi aspettava. E lei, anche.
Non sapevo cosa sarebbe successo.
Ma sapevo benissimo che nulla, dopo, sarebbe stato più come prima.
Il mio vero titolo di studio come babysitter improvvisato era scolpito nei ricordi d’infanzia trascorsi accanto a mia madre, ad accudire la mia sorellina Sara, che aveva solo cinque anni, quattordici meno di me. Fin dal primo giorno in cui l’ho tenuta in braccio, minuscola e profumata di latte, ho sentito nascere dentro di me un amore profondo, quasi viscerale. Cambiarle i pannolini, prepararle il biberon, vegliarla mentre dormiva: ogni gesto non era un compito, ma una carezza. Era come se il mio cuore avesse trovato una nuova ragione per battere. Sara non era solo mia sorella, era un pezzo vivo della mia anima.
Ci si aspettava anche che sfruttassi le mie competenze da chef in erba, maturate al ristorante, cucinando per me e zia Beatrice, oltre, naturalmente, a occuparmi di tutti quei lavoretti pratici che di solito faceva zio Giacomo, come montare mensole, cambiare lampadine e probabilmente anche combattere invasioni di formiche. Per il resto, la vita prometteva bene: spiaggia quanto volevo, oppure piscina con jacuzzi a pochi passi dalla cucina. In cambio, zia mi avrebbe pagato quasi quanto mi avrebbe dato il ristorante, e mamma e papà avevano persino accettato di aumentarmi la paghetta mensile di 100 euro per tutto il prossimo anno scolastico. Insomma, un lavoro così non si trova su LinkedIn.
“E ricordati di chiamarmi regolarmente e di farmi sapere come vanno le cose”, mi raccomandò la mamma, ripetendo per la millesima volta il suo mantra.
Naturalmente, quelle telefonate non servivano solo a sapere se avevo mangiato abbastanza o se mi ero messo la crema solare. La verità è che, secondo lei, avevo una missione molto più delicata: diventare la sua spia personale. Diceva che tra Beatrice e Giacomo c’erano delle tensioni, e sospettava che lui si fosse praticamente offerto volontario per quella missione militare pur di mettere un oceano, o almeno qualche centinaio di chilometri, tra sé e sua moglie. E forse anche tra sé e la neonata.
Mamma temeva che tutto quello stress potesse far sprofondare Beatrice in una depressione post-partum, e voleva che io tenessi gli occhi bene aperti e riferissi tutto. Ovviamente, senza dire nulla alla diretta interessata: ufficialmente, ero lì per “aiutarla”. Ufficiosamente, avevo il distintivo invisibile dell’agente segreto in sandali e maglietta.
“Lo farò, mamma”, dissi prima di chiudere la telefonata e infilarmi finalmente in macchina per affrontare le tre ore di viaggio verso la costa.
Mentre guidavo, con il sole che entrava dal parabrezza e l’autoradio a farmi compagnia, la mia mente cominciò a scivolare verso sogni a occhi aperti. Mi vedevo già sulla spiaggia, sdraiato al sole, circondato da una folla di ragazze in bikini. Mi promisi che quella volta avrei superato la mia solita timidezza e avrei fatto il primo passo. Nessuno lì mi conosceva. Potevo essere chi volevo. Potevo persino fingermi interessante.
Ma poi, tra tutte quelle figure indistinte, c’era un volto che tornava sempre. Un corpo preciso. Un sorriso che conoscevo fin troppo bene.
I miei genitori, in particolare mia madre, si aspettavano, e quasi mi incoraggiavano, a lasciarmi andare un po’, a fare “esperienze”. Usava persino l’espressione “sirene da ombrellone”, ridendo sotto i baffi.
Quello che non sapevano è che la mia fantasia più insistente, più sfacciata, aveva un nome e un cognome. E dormiva nel letto accanto al mio. Zia Beatrice.
Nei miei pensieri, non era solo in bikini. Era distesa su un lettino, una sexy sirena, il costume che sfidava le leggi della decenza e quello sguardo distratto che le veniva naturale quando si sentiva osservata ma faceva finta di niente. Il tipo di sguardo che ti fa impazzire.
Altro che sirene da ombrellone. Quella che mi faceva davvero girare la testa era lei.
Mia zia era semplicemente irresistibile. Non nel senso patinato delle riviste o delle influencer da copertina, ma in un modo che mi colpiva dritto allo stomaco, e più in basso. Aveva curve da capogiro, e il suo sedere, fasciato nei jeans, era una calamita per lo sguardo. Ogni volta che indossava un abito, il suo corpo prosperoso diventava una provocazione continua: le gambe, forti e tornite, sempre velate da collant sottilissimi, sembravano scolpite apposta per sostenere quel lato B esplosivo; e sopra, quei seni così abbondanti da essere diventati protagonisti di più di un mio sogno proibito.
Sapevo che se l’avessi vista anche solo una volta in costume, a bordo piscina, ogni buon proposito sarebbe andato a farsi benedire. Altro che mare e onde: avrei passato l’intera estate incollato a quel bordo vasca.
Per essere ancora più onesto, quando pensavo a mia zia in questo modo, di solito mentre ero a letto ad accarezzarmi il cazzo, trascorrevamo ancora più tempo nel suo letto che in piscina e io, nella mia immaginazione, il suo corpo era un territorio vasto e lussurioso che esploravo senza fretta, usando ogni mezzo che avevo: le dita che tracciavano confini segreti, la lingua che assaporava ogni curva, il naso immerso nel suo profumo più intimo, e infine il mio cazzo, pronto a fondermi con lei.
Forse era da lì che nasceva il mio interesse per le donne con curve vere. Le ragazze troppo magre non mi avevano mai attirato. Mi piacevano i corpi pieni, morbidi, quelli che sembrano fatti per essere accarezzati, esplorati, vissuti. Non parlo di eccessi, ma di quella pienezza naturale e sensuale che racconta femminilità in ogni gesto, in ogni movimento.
Forse era solo una mia impressione, o forse no, ma con la mia poca esperienza avevo notato che le donne con forme più generose sembravano vivere il sesso con più autenticità. Si lasciavano andare di più, partecipavano con tutto il corpo, con la voce, con l’anima. Erano donne vere, e i loro gemiti non erano mai di scena: erano il suono puro del desiderio, e io lo sentivo addosso, dentro, come un richiamo irresistibile.
In ogni caso, con il vento a favore, senza lavori in corso (un miracolo d'estate) e fermandomi solo una volta, sono arrivato più di un'ora prima del previsto e ho bussato alla porta di mia zia.
Eppure, mentre il cuore accelerava e la mente si incendiava di immagini proibite, una voce più ragionevole si faceva largo tra i battiti tumultuosi: il senso del limite, della distanza che doveva restare inviolata. Lei era zia, famiglia — un confine netto che non potevo permettermi di oltrepassare senza rischiare di distruggere tutto.
Quel desiderio, intenso e vivo, si scontrava con un muro di realtà e morale, trasformandosi in una tensione palpabile, quasi dolorosa. Ogni fibra del mio corpo chiedeva di cedere, di avvicinarsi a quella presenza così magnetica, ma la mente tratteneva, imponendo una tregua che sapeva essere temporanea.
Era un gioco di equilibrio sottile, dove la passione si nutriva della proibizione e la ragione tracciava i confini di un territorio pericoloso.
E in quel bilico fragile, sapevo che ogni momento insieme avrebbe amplificato quell’attrazione, trasformandola in qualcosa di più grande, di più profondo, qualcosa che non avrei più potuto ignorare.
Rimasi lì per un lungo momento, incerto. Forse era uscita per una commissione al volo, in fondo non si aspettava che arrivassi così presto. Proprio mentre quel pensiero cominciava a farsi strada, un rumore lieve dall’altra parte della porta mi fece sollevare lo sguardo. Sorrisi alla telecamera del campanello, giusto per farmi vedere.
Poi la serratura scattò, e la porta si aprì. E in quell’istante, quasi persi la testa.
Se l’arcana e inconfessata motivazione che mi aveva spinto ad abbracciare con tale fervore l’occasione di quel lavoro estivo era il desiderio di condividere la vicinanza con la mia incantevole zia, alimentando fantasie incestuose tanto audaci quanto interdette, lei si ergeva ora dinanzi a me in tutta la sua vivida e ammaliante magnificenza.
Zia Beatrice era lì, a piedi nudi e con i capelli bagnati, con indosso una vestaglia che le arrivava appena sotto le ginocchia. Ma ciò che mi sconvolse davvero fu il suo seno. Il tessuto della vestaglia era sottile e del tutto inadeguato a contenere le angurie che copriva, ovviamente senza reggiseno. Come ho detto, zia aveva sempre avuto una scollatura enorme, ma la gravidanza e l'allattamento avevano reso la situazione ancora più gloriosa.
"Matteo!" esclamò con un’esultanza che vibrava di calore, spalancando le braccia in un gesto che fece fremere il suo accappatoio, lasciando intravedere, per un istante, una scollatura vertiginosa, un abisso di pelle vellutata che chiamava come un canto proibito. Il desiderio di immergermi in quel candore liscio come seta mi travolse, ma riuscii solo a perdermi nel suo abbraccio, caldo e avvolgente. Il contatto dei suoi seni pieni, premuti contro il mio petto, accese in me un’ardente pulsione, un fuoco istantaneo che mi infiammò. Con uno sforzo quasi sovrumano, repressi l’istinto di stringermi a lei, di lasciare che il mio corpo tradisse la brama, per non rivelarmi come l’ospite travolto dalla passione sulla soglia del suo regno.
"Entra, entra", disse, interrompendo l'abbraccio molto prima di quanto avrei voluto, e tirandomi dentro per un braccio prima di chiudere la porta. "Sei così in anticipo, mi hai beccata appena uscita dalla doccia", disse, richiudendo l'accappatoio.
Mi dispiaceva vedere la scollatura scomparire, ma era stata sostituita da qualcosa di ancora migliore. Tenendo la vestaglia in quel modo, la stringeva stretta sul petto, delineando chiaramente capezzoli che sembravano letteralmente la punta di un pollice. E dove premevano, notai delle macchie a forma di anello, dove quei grossi capezzoli avevano evidentemente perso latte.
Ed ecco svelato il cuore pulsante della mia ossessione, l’ardente segreto della mia depravazione. Ero venuto qui per quei capezzoli turgidi, per l’abbondanza irresistibile di quei seni che gridavano promesse di piacere proibito, per il latte che sognavo di assaporare, un elisir caldo e divino che mi chiamava con una brama insaziabile. Bramavo di nutrirmi di lei, di saziare quella sete inconfessabile, e in sua assenza, desideravo rubare immagini vivide e carnali di quelle curve perfette, per nutrire le mie fantasie più intime e febbrili, da accarezzare, per alimentare le mie fantasie più sfrenate e solitarie.
Di recente, avevo rimuginato a lungo su questi pensieri, flagellandomi per l’audacia di desideri così torbidi e contorti, eppure mi ero reso conto che questa ossessione aveva radici profonde, coltivate in silenzio per anni. Forse tutto era iniziato tredici mesi prima, quando, con occhi rapiti, osservavo mia madre allattare Sara, mia sorella, in un’intimità che accendeva in me scintille di un desiderio ancora informe. Ma la vera fiamma, quella di una brama puramente carnale, aveva preso vita proprio qui, tra queste mura, con questa donna. Sei mesi fa, il suo fascino aveva incendiato la mia anima, trasformando un’eco lontana in un’ossessione vibrante e inarrestabile.
Ero arrivato qui con la mia famiglia per qualche giorno durante le vacanze invernali dall'università. Zia Beatrice era incinta di otto mesi e il suo seno, già grande, si stava gonfiando sempre di più, perdendo periodicamente liquido in preparazione dell'allattamento. Per qualche ragione non desideravo altro che strapparle la camicetta, strapparle il reggiseno e ingozzarmi di quello che sapevo avrebbe avuto il sapore di ambrosia calda.
Poi ero tornata durante le vacanze di primavera. Era la prima volta che vedevo la piccola Alice di persona e mi innamorai all'istante di lei, proprio come mi era successo con Sara. Ma mentre i miei sentimenti per la mia nuova cugina erano puri e protettivi, quelli per sua madre diventarono più sporchi e perversi. Coglievo ogni occasione per guardarla allattare la bambina, e visioni di capezzoli paffuti che perdevano latte mi riempivano la mente e i sogni. Volevo succhiare quei meloni. Volevo succhiarli mentre scopavo mia zia. Volevo scopare le sue grosse tette e mescolare i nostri succhi quando ci sarei venuta sopra.
Da allora, la mia collezione di porno, che fino ad allora era stata dominata da donne in calze di nylon, iniziò ad accumulare un sottoinsieme di pornografia giapponese sull'allattamento. Per ragioni che non riuscivo a spiegare, guardare un uomo sdraiato sulle gambe di una donna, che si sollevava e allattava un seno prosperoso e pieno di latte attraverso un capezzolo gonfio era diventato il massimo della perversione.
“Matteo?” la voce di mia zia mi riportò alla realtà e finalmente alzai lo sguardo, rendendomi conto di quanto a lungo avessi fissato i suoi capezzoli che premevano contro l’accappatoio, segnato da una macchia di latte.
“Sì, sono arrivato prima del previsto, e devo dire che l’idea di trovarti così ha reso il viaggio decisamente più interessante,” dissi con un sorriso appena accennato, cercando di mantenere la calma.
“In effetti, un po’ mi imbarazza salutarti in questo mio vecchio accappatoio,” disse lei, stringendolo un po’ di più attorno al corpo.
“Scusa,” ripetei, cercando di distogliere lo sguardo, anche se ero decisamente distratto.
“Non c’è davvero motivo di scusarsi,” replicò con un sorriso gentile ma carico di sottintesi. “Perché non vai a scaricare la macchina mentre io mi cambio?”
“Certo,” annuii, uscendo dalla porta principale mentre la vedevo dirigersi verso la sua stanza.
Mentre portavo dentro le valigie, la chitarra e il portatile, cercavo di controllarmi, ripetendomi di non cadere di nuovo in quella trance silenziosa in cui il suo seno incredibile diventava l’unica cosa che vedevo. Era ipnotico, sì, ma dovevo imparare a guardarla con discrezione. Promisi a me stesso di limitarmi a rapidi sguardi di sbieco. Forse, quando fossimo stati all’aperto, un paio di occhiali da sole molto scuri sarebbero stati il mio miglior alleato.
Mentre sistemavo i vestiti nei cassetti, la porta della camera da letto si aprì ed entrò Beatrice, completamente vestita, con la piccola Alice stretta al petto. Il modo in cui la teneva, delicata e protettiva, mi fece percepire ancora di più quella sua femminilità naturale, calda e accogliente.
“Eccola qui,” dissi, avvicinandomi lentamente, come per non disturbare quel momento intimo tra loro. Guardando la piccola principessa, sentii una dolcezza nuova che mi avvolse, quella stessa dolcezza che mia mamma mi aveva descritto come il segno che un giorno sarei stato un bravo papà anch’io. Un pensiero che mi fece sorridere, anche se dentro di me bruciava qualcos’altro, più complesso.
“Vuoi tenerla un po’ con te?” mi chiese Beatrice, con un sorriso che aveva qualcosa di complice, come se sapesse esattamente cosa stavo pensando senza che io dovessi dirlo.
“Ma le starà bene che uno sconosciuto la tenga in braccio?” risposi, cercando di mascherare il mio imbarazzo con una battuta, ma sentendomi già parte di quel piccolo mondo.
Lei rise, un suono morbido e invitante. “È una piccola chiacchierona in miniatura, non si ferma mai,” disse, avvicinandosi a me. “E poi, non sei uno sconosciuto. Parla spesso del suo bel cugino Matteo, da quando sei stato qui ad aprile.”
Quel sorriso, quel modo di guardarmi così diretto e dolce, mi fece dimenticare per un attimo tutte le regole non dette, e sentii che quel legame, così familiare eppure così carico di qualcosa di più, stava appena cominciando a scrivere la sua storia.
"Davvero?" dissi alla bambina, prendendola dalla madre, felice di scoprire che tutto ciò che avevo imparato occupandomi di Sara quattro anni prima mi stava tornando in mente.
Mentre cullavo dolcemente Alice e la coccolavo, osservai di nascosto la figura imponente di mia zia. Indossava abiti leggeri e piuttosto larghi, adatti al caldo estivo, anche se, con mia sorpresa e gioia, indossava anche dei collant. Immagino che, essendo a casa sua in maternità, mi aspettassi che li saltasse, ma eccola lì, a camminare con i piedi avvolti in calze di nylon color abbronzatura e le unghie dei piedi appena smaltate di rosso.
Beatrice era manager in una società di import/export, sempre impeccabile, anche nei dettagli più discreti. Ogni volta che la vedevo dal vivo, in foto o durante le videochiamate, non mancavo mai di notare quel sottile velo di nylon che abbracciava le sue gambe. Collant sempre presenti, che fossero sotto tailleur eleganti o abiti più morbidi da casa.
Non era solo un’abitudine: sembrava quasi un’estensione della sua femminilità, parte integrante del modo in cui si presentava al mondo, con naturalezza e una grazia sensuale mai ostentata.
Quel dettaglio, così sottile ma costante, mi colpiva ogni volta. E non facevo fatica a immaginare che non avesse rinunciato a quel rituale nemmeno adesso, nei giorni lenti e intimi della maternità. Anzi, forse proprio in quel contesto, la cosa acquisiva un fascino nuovo, ancora più privato. Più sensuale.
Beh, per me andava bene, perché i collant mi avevano sempre eccitato. Anche mia madre li indossava spesso, sia come insegnante, sia come zia Beatrice, quando indossava una gonna o un vestito a casa, un segno di buona educazione, pensai (con la mia mente perversa). Anche alcune delle mie insegnanti del liceo li avevano indossati, tenendo lontana la mia passione dalla famiglia. Purtroppo, all'università, trovare una ragazza che indossasse i collant era come cercare un ago in un pagliaio, persino pochissime professoresse li indossavano di questi tempi.
Nel frattempo, Alice sembrava affezionarsi a me, mentre si rannicchiava contro il mio petto e si addormentava. La reazione della bambina a quanto pare rilassò anche la madre, perché la voce di zia Beatrice era dolce e bassa quando parlò di nuovo.
“Grazie mille per aver accettato questa sfida, Matteo. Immagino che un giovane studente universitario possa trovare modi più entusiasmanti per trascorrere l'estate.”
"Nessun problema", dissi. "Sono davvero felice di essere qui. E se è sempre così, immagino che sarà un'estate tranquilla e serena."
La zia sorrise e cominciò a raccontarmi la vera natura del piccolo diavolo tra le mie braccia e come sperava che potessi aiutarla come baby sitter.
Mentre parlava, continuavo a camminare dolcemente per la stanza, cullando il bambino, e continuavo a valutare la mia sexy zia. Indossava una camicetta leggera che non sembrava minimamente interessata a nascondere le sue forme. Anzi, le accarezzava con precisione, mettendo in risalto un seno pieno, rotondo, prorompente, probabilmente una coppa E, G o addirittura H. Non ne avevo la certezza, ma avevo tutta l’intenzione di scoprirlo nel corso del mio soggiorno.
Mi resi conto che con un décolleté del genere, ogni camicetta doveva essere quasi certamente fatta su misura. Nulla, sul suo corpo, sembrava lasciato al caso. E quella vestibilità perfetta, tesa al punto giusto sul petto, accendeva in me pensieri decisamente poco opportuni.
Sì, sapevo che sarebbe stato incesto, ma cazzo, le sue tette erano così fottutamente grosse e le sue gambe e i suoi piedi in nylon erano così fottutamente invitanti. Pensieri che avrei dovuto respingere. Ma non lo feci.
Quando ebbe finito di elencarmi i miei compiti e, per l’ennesima volta, mi ringraziò per aver scelto di passare l’estate con loro, le lanciai uno sguardo carico di un’ironia leggera, quasi intima, e dissi:
“Lo sai bene, per la mia zia preferita sarei capace di fare anche molto di più.”
Lei sorrise, inclinando appena la testa, come se avesse colto e apprezzato quel velo di ambiguità. E per un istante, nel silenzio che seguì, sembrò che nessuno dei due volesse aggiungere altro.
Socchiuse gli occhi e temevo che avesse colto l'allusione nelle mie parole, ma poi sorrise e disse: "Lo prenderò come un complimento, anche se sono la tua unica zia", prima di incrociare le braccia in un modo che metteva in risalto, anziché coprire, la sua scollatura voluttuosa.
I miei occhi, quasi senza volerlo, tornarono ad indugiare sulla valle proibita che si apriva tra i suoi seni: una distesa di pelle chiara e morbida che sembrava fatta apposta per tentare chiunque.
“Beh, anche se ce ne fossero altre dieci, sono certo che saresti comunque la mia preferita. Chi potrebbe mai eguagliare la tua bellezza, il tuo ingegno, e quella tua gentilezza disarmante?”
Lei rise, scuotendo leggermente la testa. “Oh wow! Cosa ti insegnano all’università di preciso? Dovresti risparmiare quel livello di stronzate, intendo dire, di fascino per le ragazze sulla spiaggia,” disse con un tono leggero, ma il lampo compiaciuto nei suoi occhi mi fece pensare che il complimento fosse stato tutt’altro che sgradito.
“Dai, vieni,” aggiunse poi, voltandosi. “Puoi mettere Alice nel suo recinto e finire di sistemare le tue cose. Io intanto comincio a preparare la cena.”
La seguii, cercando di riportare la mente su binari più innocenti. Ma era difficile, molto difficile, con lei così vicina.
La seguii in cucina e, con delicatezza, adagiai la piccola Alice nel recinto da viaggio che Beatrice aveva sistemato accanto all’angolo colazione. Dormiva profondamente, con quell’aria serena e inconsapevole che solo i neonati sanno avere.
Immaginai che avremmo passato parecchio tempo lì, io e lei, durante quelle settimane tra biberon, giocattoli sparsi e le mie nuove mansioni domestiche. E in fondo, l’idea non mi dispiaceva affatto. Anzi, guardando quegli oggetti colorati e quei piccoli accessori tecnologici che sembravano usciti da un film di fantascienza, non vedevo l’ora di provarli.
Sembrava un gioco, un mondo a parte. E io stavo entrando lentamente in quella nuova dimensione, dove tutto sapeva di casa, ma nulla era davvero familiare.
Mezz'ora dopo, dopo aver finito di disfare le valigie e di configurare il mio portatile al WiFi e la PlayStation 5, sono tornato in cucina, dove zia Beatrice era a buon punto nella preparazione della cena.
Mi appoggiai al bancone della cucina, fingendo disinvoltura, ma in realtà solo per godermi lo spettacolo. Il suo corpo, imponente e armonioso, si muoveva con naturalezza tra i fornelli. Ogni gesto, ogni piegamento, ogni passo sembrava accentuare la morbidezza dei fianchi, la pienezza del seno, la sicurezza con cui occupava lo spazio. Dal petto ai piedi, non c’era un solo dettaglio che non mi ipnotizzasse.
Parlammo del mio ruolo in casa: preparare la colazione, aiutare con la cena, dare una mano con Alice.
Mi offrii di occuparmi dell’insalata e, poco dopo, eravamo seduti a tavola per la nostra prima cena insieme. Tecnicamente datore di lavoro e dipendente, come lei aveva scherzato, ma il confine tra ruoli sembrava già sfumare. La preparazione del pasto si era trasformata in uno scambio di battute complice, quasi intimo, come se stessimo costruendo un linguaggio tutto nostro.
"E sei sicuro di voler davvero iniziare a cucinare già domani?" chiese.
"Beh, sai che sarei a casa a cucinare al ristorante per il mio lavoro estivo se non fossi venuto qui per te e Alice, quindi sì, per me va bene cominciare."
C'era ancora un po' da fare in cucina dopo aver caricato e avviato la lavastoviglie, ma la mia immaginazione non mi permetteva di perdermi altro di quello che stava succedendo in soggiorno. Mi sono diretto silenziosamente verso il bordo della stanza e il tempismo era perfetto. Zia Beatrice si stava preparando a scambiare Alice da un seno all'altro.
Mentre la bambina continuava a succhiare a destra, zia Beatrice si scostò la camicetta per scoprire il seno sinistro. Indossava un reggiseno da allattamento e slacciò abilmente la coppa a scomparsa per esporre il capezzolo e l'areola da quel lato. Quella robusta biancheria intima di cotone bianco era improvvisamente il reggiseno a scomparsa più erotico che avessi mai visto. Alla luce di una lampada da tavolo, potevo vedere un globulo di latte che si stava già formando sulla punta.
Poi stava staccando Alice dal suo capezzolo destro, facendola gemere e minacciare di piangere, ma il gesto si spense rapidamente quando Beatrice le presentò il capezzolo sinistro alla bocca in cerca di qualcosa.
Cavolo, anch’io avrei voluto aggrapparmi a quella carne calda, sentire con la lingua quel nodulo duro e gonfio, pulsare sotto il mio tocco, e assaporare il latte materno che scivolava dolce e lento nella mia gola assetata. Mi sentivo forte, solido come una roccia, mentre i miei occhi seguivano il delicato passaggio da un capezzolo lucente all’altro, come se fossi spettatore di un gesto intimo e perfetto.
Silenzioso, mi ritirai, il cuore che ancora batteva un po’ più veloce, e tornai in cucina, dove con mani tremanti sistemai il mio pacco, affrettandomi a rimettere tutto a posto, portandomi dietro quell’immagine che bruciava nella mente
Quando sono tornato in soggiorno circa dieci minuti dopo, l'ho fatto facendo molto rumore, così la zia avrebbe saputo che stavo arrivando. Era ancora nella sua poltrona reclinabile molto morbida, ma le poppe erano state coperte e teneva Alice contro la spalla, protetta da un panno pesante, picchiettando delicatamente la schiena della bambina per farle fare il ruttino.
"Ehi, zia Beatrice," dissi, "posso svuotare la lavastoviglie domattina?"
"Certo," rispose, "lo faccio sempre."
"Va bene, allora sono piuttosto stanco dal viaggio, quindi se non hai bisogno di niente, vado a dormire."
"Fai pure", disse. "E Matteo, grazie ancora, siamo davvero felici di averti qui."
"Grazie. Penso che sarà una bellissima estate. Buonanotte zia, buonanotte Alice."
"Buonanotte, Matteo."
Una volta in camera, mi sono spogliato subito, ho tirato fuori dalla borsa il mio barattolo di lozione per la pelle, e mi sono sdraiato sul letto matrimoniale. Il mio pene già pulsava, umido e rigoglioso, la macchia bagnata sui miei slip a ricordarmi quanto fosse pronto. Nel mio pensiero, zia Beatrice si liberava del reggiseno da allattamento, lasciando scivolare i lembi sul corpo nudo, camminando sicura, avvolta solo da un paio di collant sottili e irresistibili. In meno di un battito di ciglia, la mia mente e il corpo esplodevano in un piacere travolgente, giù lungo la maglietta che avevo appena tolto, con una sborrata intensa e impetuosa, come un’onda calda che infrangeva ogni resistenza.
Il giorno dopo, mentre mi alzavo e andavo in cucina a preparare la colazione, ho sentito il bambino piangere. Era ora di iniziare il mio nuovo lavoro.
Poiché aveva solo quattro mesi, la culla di Alice si trovava ancora nella stanza di zia Beatrice, così bussai leggermente alla sua porta per vedere se avesse bisogno di aiuto.
"Entra pure", gridò mia zia.
Buongiorno. Stavo passando di qui quando ho sentito la piccola principessa. Vuoi che ti aiuti con lei?
"Sai, credo proprio di sì. Potresti portarmela, per favore?"
Presi in braccio la bambina che piangeva e iniziai a cullarla, sapendo che non sarebbe servito a molto, visto che probabilmente aveva fame. Quando mi girai verso il letto, rimasi immobile.
Zia Beatrice si era sistemata in posizione seduta, con dei cuscini dietro la schiena, e ora stava tirando fuori un seno dalla camicia da notte.
Spalancai gli occhi quando vidi l'enorme tetta in bella vista, il capezzolo grasso gonfio e gocciolante.
"Non hai mai visto un seno prima?" chiese con tono condiscendente.
"Uh, sì, certo," dissi, andando avanti anche se continuavo a fissare il seno pesante e immaginavo di succhiarlo.
"Ma mai una così grande, vero?" chiese, per niente turbata dal fatto che suo nipote fosse incantato dal suo grosso seno.
"Oh, cavolo, mi dispiace", dissi porgendole Alice.
"Va bene, lo capisco. Anzi, lo sento sempre. Ma tua madre mi ha assicurato che non ti sentivi a tuo agio con l'allattamento, si sbagliava?"
"No, no, non lo era", la rassicurai, alzando gli occhi verso di lei. Ed era vero, o almeno lo era. Dal momento in cui guardavo mia madre con la mia sorellina fino a quando finalmente ho iniziato a occuparmi delle bambine, avevo sempre considerato l'allattamento al seno la cosa più naturale del mondo, pura e innocente. Ma da quando avevo iniziato a toccare e succhiare i seni in modo sessuale, e soprattutto da quando avevo visto i seni extralarge di mia zia trasformarsi in brocche di latte, quell'innocenza era stata macchiata dal mio crescente feticismo, e avevo iniziato a eccitarmi ogni volta che vedevo una donna allattare in pubblico.
"Ora che hai superato lo shock di vedere un seno così grande dal vivo, non devo più preoccuparmi che tu lo perverta ogni volta che devo allattare, vero?" disse, mentre Alice iniziava a succhiarsi il capezzolo e io desideravo disperatamente attaccarmi al seno libero.
"Uh, sì, certo," dissi, scuotendo leggermente la testa e uscendo dalla sua stanza, felice che non avesse visto la mia erezione crescente.
Sono andato in cucina e ho iniziato a preparare la colazione. Ho fatto una frittata davvero buona, sperando che mi avrebbe compensato per alcune delle mie gaffe con le tette.
Quindici minuti dopo, Beatrice uscì con Alice in braccio e disse: "Mmm, che buon profumo".
"Caffè?" chiesi mentre mi dirigevo verso la caffettiera che avevo appena preparato.
"Certo", rispose lei.
Ne versai due tazze mentre metteva Alice nel recinto. "Cosa ci metti dentro?"
"Due zuccheri e una panna", disse
Le preparai il caffè e glielo portai mentre si sedeva al tavolo della cucina. Indossava l'accappatoio attillato e macchiato di latte di ieri e quasi le rovesciai il caffè mentre glielo posavo davanti.
"Grazie", disse. Poi: "Stai di nuovo fissandomi."
"Oh, Cristo," grugnii raddrizzandomi e facendo un passo indietro. "Mi dispiace, mi, mi dispiace davvero."
"Ascolta, Matteo, so che effetto fa questa vestaglia e non avevo intenzione di indossarla qui, ma voglio chiarire alcune cose con te fin dall'inizio, okay?"
"Certo, certo."
"Sai da tua madre che le madri che allattano possono avere molte perdite. Per ovviare a questo problema di solito indosso un reggiseno per l'allattamento o metto delle coppette assorbilatte negli altri reggiseni. Ma nei brevi momenti in cui non voglio indossare il reggiseno, tipo tra il risveglio e la doccia, di solito indosso questo accappatoio perché è già rovinato. Capito?"
I miei occhi si erano naturalmente diretti verso l'accappatoio rovinato e la distesa di carne del seno senza reggiseno, ma li ho rialzati di scatto quando ho detto: "Sì, ha senso".
“Tuttavia, mi rendo conto che in qualsiasi altra situazione, con qualsiasi altro uomo che non fosse imparentato con me e che fosse qui per lavorare come babysitterper la mia bambina, sarebbe un abbigliamento molto provocante. La domanda per te è: è troppo provocante? Dovrei indossare qualcosa di più sobrio?
No diamine! urlò la mia mente. Decisi che dovevo aggiungere un po' di onestà alla mia risposta se non volevo che mia zia mi considerasse una pervertita di cui non ci si poteva fidare. "Non mentirò, zia Beatrice, non ho mai visto, ehm, seni come i tuoi e sono fantastici, voglio dire, mi hanno davvero colpito. Ma sono sicuro che me ne farò una ragione in fretta e voglio che tu ti senta a tuo agio a casa tua, quindi per favore indossa quello che ti pare."
Inclinò la testa di lato e mi guardò con gli occhi socchiusi. Poi si raddrizzò e annuì. "Okay. Ma anche tu dovresti sentirti a tuo agio qui, quindi se ti senti a disagio quando mi vesto così, fammelo sapere, ok?"
"D'accordo", dissi, poi tornai ai fornelli per finire la frittata, pensando intensamente alle verdure tritate che stavo saltando in padella nel tentativo di evitare che il mio pene si gonfiasse ancora di più a causa di quell'incontro surreale.
Dieci minuti dopo eravamo entrambi seduti a tavola, con le nostre frittate a metà. Zia Beatrice ne ingoiò un boccone e disse: "Se riesci a prepararmi una colazione così ogni mattina, ti guadagnerai sicuramente il pane".
"Adoro cucinare", dissi. La mia prima passione e il mio lavoro da sogno era diventare uno chef. Sorrisi, mentre ripensavo, un’ambizione che sapevo galleggiava tra realtà e fantasia.
“Oh, sì, cucinare è la mia passione, la mia missione quasi-sacra,” dissi, con un filo di teatralità.
Lei ridacchiò, lanciandomi un’occhiata complice e pungente:
“Con quel talento un giorno potresti persino fare la brava moglie, sai?”
Non potevo resistere all’idea di giocare il suo gioco, tra ironia e sarcasmo, così risposi con tono deciso:
“Ah, ma nella mia versione anni settanta, casalingo perfetto e impeccabile! Gonna a ruota, collant velati, perle al collo, mentre porto il tè “.
Beatrice sorrise, ma a metà, come se stesse parlando più a sé stessa che a me:
“Sì, e Giacomo impazzirebbe all’idea di questa scenetta vintage, lui che non sa nemmeno riempire un lavandino senza allagare la cucina.”
L’ironia tagliente di Beatrice aveva quel sapore amaro e dolce insieme, confermando che stava pensando ad alta voce, e apparentemente confermando i timori della mamma sui conflitti coniugali a casa della zia.
Io accettai la sfida con un sorriso di chi sa che, in fondo, è sempre più divertente parlare attraverso le battute che prendere tutto troppo sul serio.
"Beh, non so per quanto riguarda il vestito e le perle", ridacchiai, cercando di ritrovare l'allegria, "ma mi piacciono i collant." Ops, che stupidaggine. Era già preoccupato per il mio controllo del seno, e ora confesso un altro feticismo?
"È ovvio", disse prima di bere un altro sorso di caffè.
“Davvero?” chiesi, anche se in fondo non mi sorprendeva affatto che avesse notato il modo in cui, il giorno prima, avevo ammirato i suoi piedi avvolti nel nylon.
“Beh, quando qualcuno ti guarda con l’aria di un turista capitato per caso su una spiaggia per nudisti, e ha pure l’espressione di chi sta per sbavare, diciamo che il messaggio arriva forte e chiaro,” disse con un mezzo sorriso malizioso.
Io abbassai lo sguardo sul piatto, cercando di dissimulare l’imbarazzo che mi stava salendo alle orecchie.
“Sto davvero facendo una gran bella prima impressione, vero?” borbottai, cercando di sdrammatizzare.
“Direi... in perfetta media con il genere maschile,” rispose con tono leggero.
La guardai, colpito dal modo in cui lo aveva detto: l’angolo della sua bocca si era piegato in un sorriso ironico, appena accennato, ma con quella scintilla provocatoria che sembrava divertirsi a tenermi sul filo.
“Ti aiuterebbe se ti chiedessi scusa di nuovo, e promettessi che cercherò di tenere la lingua a freno?” tentai, cercando di cavalcare il suo umorismo con un filo di autoironia.
Lei mi fissò per un istante, con quello sguardo che sembrava vedermi più a fondo di quanto avessi previsto. Poi disse, mentre si portava in bocca l’ultimo boccone di frittata:
“La domanda è sempre la stessa, solo con un’aggiunta: riesci a conversare con una donna senza fissarle il seno, o le gambe?”
Il modo in cui scandì quelle ultime parole fece vibrare l’aria tra noi. Non sapevo se volesse sfidarmi, provocarmi o semplicemente mettermi alla prova. Ma qualunque fosse l’intento, funzionava.
Sotto il tavolo il mio cazzo sussultò per il suo linguaggio brusco, ma riuscii a mantenere la voce calma quando risposi: "Penso di sì".
"Davvero?" chiese, con un tono che lasciava intendere che non pensasse che potessi farcela. Onestamente, avrei dovuto scommettere contro di me, ma comunque non mi piaceva la sua supposizione che non potessi farcela.
"Certo", dissi. "Mi piace pensare di essere abbastanza consapevole da riconoscere i miei difetti e riuscire a migliorarli."
"Hmmm," rifletté mentre tirava indietro le spalle, allargando la parte superiore dell'incredibilmente erotica vestaglia di latte e mostrando ancora di più la sua scollatura mozzafiato.
"Okay," dissi, "ora mi stai solo prendendo in giro. Dopotutto sono ancora solo un uomo, e per giunta un giovane adolescente."
Rise forte. Così forte che le tremavano le tette, il che, ovviamente, attirò la mia attenzione. Come avrebbe potuto essere altrimenti?
“Hai ragione,” disse ridacchiando mentre si richiudeva lentamente la vestaglia sul seno ancora leggermente scoperto. “Probabilmente mi darebbe più fastidio il contrario, se non riuscissi ad attirare la tua attenzione.”
Poi abbassò lo sguardo su di me, inclinando appena la testa. “Ma lasciami chiederti una cosa. Quasi tutti, uomini e donne, finiscono per fissarmi il petto. È una reazione automatica, l’ho accettato da tempo. Ma non sono in molti, credimi, a posare lo sguardo sulle gambe in nylon. Tu sì. Ieri. E ogni singola volta in cui ti è capitato di vedermi con le calze. Dunque, è una tua passione? Hai un debole per il nylon?”
Nel pronunciare quelle parole, si voltò lievemente sulla sedia, con naturalezza studiata, e distese le gambe sotto il tavolo, mettendo in bella vista i piedi nudi, proprio davanti ai miei occhi.
Era la zia Beatrice che tutti conoscevano e amavano, affascinante, diretta, disarmante, ma in quel momento era anche qualcos’altro: un enigma pericolosamente seducente.
Scrollai le spalle, cercando di rimanere calmo.
“È solo che ormai non si vedono quasi più donne con le calze di nylon,” risposi, con voce più bassa del solito. “E trovo che sia un vero peccato. Hanno, qualcosa. Mi piace l’effetto che fanno.”
"Sì, questa moda sta svanendo nel dimenticatoio", ha riconosciuto.
"Forse sono nato nel decennio sbagliato", scherzai.
"In realtà trovo anche i collant sexy e che abbiano un certo fascino", ha detto.
"Non potrei essere più d'accordo", annuii, lanciando un'altra occhiata alle sue unghie dei piedi perfettamente curate e smaltate. Così sexy, ma quanto sarebbe stato meglio se elegantemente incorniciate da calze di seta e trasparenti?
Tirò su le gambe, si alzò, chiuse la vestaglia per nascondere il suo bel seno e disse: "Stamattina esco. Ti va di badare ad Alice? Mi rendo conto che è il tuo primo vero giorno con noi".
"Sì, andrà tutto bene", dissi.
"Sai che l'ho appena allattata, ma se le viene fame prima che torni, c'è del latte materno in frigo. Ho affisso le istruzioni sullo sportello del frigo per scaldarlo."
"Okay", dissi, chiedendomi subito se aiutarla a tirarsi il latte in occasioni come questa sarebbe stato uno dei miei doveri. Dio, lo speravo proprio.
"Vado a farmi una doccia", disse e uscì dalla cucina.

(CONTINUA)

P.S.: Grazie di cuore per aver seguito la nostra storia! Speriamo vi abbia emozionato e stimolato. Se vi fa piacere, lasciate un commento o un like: ogni vostro riscontro ci fa sempre piacere! A presto con il prossimo episodio!
Alberto & Laura (coautori)
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