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Gay & Bisex

"L'estate del bar di vetro"


di SERSEX
03.05.2025    |    4.165    |    16 9.5
"Ogni volta che Nico lo guardava, ogni volta che lo sfiorava passando dietro al bancone..."
Era l’estate del 1988, e Giò aveva appena finito il liceo classico. Dopo cinque anni vissuti nella città vicina, tra i banchi di scuola e le fughe al mare, aveva finalmente riaperto le persiane della vecchia casa di famiglia, nel paese di provincia dove era nato. Un luogo sospeso tra il mare e le colline, sonnolento d'inverno, ma d’estate capace di ribollire di corpi, motorini e voglia di vivere.
Il sole sembrava non tramontare mai, e le giornate si dilatavano in un torpore erotico fatto di sale sulla pelle e sguardi che duravano un secondo di troppo. Giò non era più il ragazzino magro che tutti ricordavano: il liceo lo aveva fatto uomo. Il petto si era riempito, le spalle allargate, i capelli neri lasciati crescere un po’ troppo, come usava allora. Ma gli occhi erano rimasti quelli: scuri, profondi, sempre un po’ distanti.
Era stato quasi per caso che aveva sentito parlare di quel nuovo locale, "Il Bar di Vetro", aperto da poche settimane. Un posto moderno, con luci azzurre, arredi minimali e musica che arrivava da Roma o da Milano prima ancora che dalle radio locali. Il proprietario era un certo Nico, sulla trentina, uno che parlava con accento del Nord ma che aveva il sangue meridionale e un fisico da fotomodello stanco. Alto, barba curata, camicie aperte sul petto e uno sguardo che fermava il tempo.
Giò e i suoi amici cominciarono a frequentarlo con curiosità. Nico li accoglieva sempre con un sorriso largo, offriva da bere ogni tanto, rideva alle battute di Giò come se fossero brillanti, anche quando non lo erano. E Giò, che non era stupido, si accorgeva di quello sguardo. Lo sentiva addosso quando si voltava al bancone, quando ballava, quando si asciugava il sudore con l’orlo della t-shirt.
Una sera, Nico lo invitò a restare dopo la chiusura. Gli altri andarono via uno a uno, e Giò rimase. Sedettero sul divano in fondo al locale, mentre la musica si spegneva lentamente. Nico gli offrì un bicchiere di vino e gli mise una mano sulla coscia. "Hai occhi che non dimenticano," disse.
Giò lo guardò, ma non fece nulla. Il cuore gli batteva forte, la bocca si era fatta secca. Avrebbe potuto baciarlo, lasciarsi guidare, sentire per la prima volta il peso di un corpo maschile contro il suo. Ma invece rise nervoso, si alzò in piedi, disse qualcosa tipo: “È tardi, vado.” E se ne andò. Il cazzo duro nei jeans, e la sensazione di aver lasciato qualcosa a metà.

Ci ripensò per tutta l’estate. Ogni volta che Nico lo guardava, ogni volta che lo sfiorava passando dietro al bancone. Un giorno tornò al bar deciso, ma Nico era cambiato: più freddo, più distante, come se avesse chiuso una porta. E quella porta non si riaprì più.


Era passato più di un ventennio. Giò ormai viveva a Bologna, in via San Vitale, non lontano dalla facoltà. Aveva studiato filosofia in via Zamboni, amato e sofferto, bevuto troppi caffè al Caffè Zamboni e perso più di una notte a inseguire corpi sconosciuti nelle stanze buie dei circoli. Ma d’estate, il richiamo del paese natio tornava puntuale. Non tanto per i genitori — con cui parlava poco — ma per quel bisogno di radici, di vento caldo tra le ginestre, di odore di sabbia e plastica surriscaldata.
Quell’agosto era più rovente del solito. Il paese sembrava sempre uguale: vecchi bar, vecchie chiacchiere, ma qualcosa lo aveva trafitto scorrendo una bacheca online di eventi locali. Una foto. Una rassegna di incontri a tema musicale. E sotto, tra i commenti, una firma: “Nico V.”.
Giò aveva sentito un tuffo nel petto. Si era seduto sul letto, nudo, con il ventilatore che gli lambiva i testicoli sudati, e aveva riletto tre volte quel nome. Poi un messaggio, breve, diretto: “Se sei tu… sarei felice di rivederti. Sempre qui, al Bar di Vetro.”
Il locale era ancora lì. Più opaco, meno alla moda. Un tempo c’erano le luci fredde, la musica da Milano. Ora il neon tremolava, e il pavimento era un po’ unto. Ma Nico era sempre Nico. Un po’ più ingrassato, i capelli grigi alle tempie, un anello al dito e una foto dei figli dietro al bancone. Ma quando lo vide entrare, quel sorriso fu lo stesso.
“Pensavo non saresti venuto,” disse.
“Sono qui,” rispose Giò. “Questa volta non me ne vado.”
Due giorni dopo si rividero. In una spiaggia nascosta, poco oltre il costone dove i ragazzi andavano a prendere il sole nudi. Una spiaggia naturista non ufficiale, ma tollerata. Giò c’era già stato. Quel giorno ci arrivò presto, stese l’asciugamano, si spogliò e si lasciò baciare dal sole. Quando sentì dei passi dietro di sé, non si voltò subito.
Era Nico.
Camminava nudo, senza fretta, il cazzo semi-duro, appeso tra le cosce pelose. Lo sguardo deciso. Senza parole si sdraiò accanto a lui.
“Perché sei venuto?” chiese Giò.
“Perché ho voglia di te da venticinque anni.”
Le bocche si cercarono con fame. I corpi si avvinghiarono sotto il sole cocente. La pelle sudata, salata, scivolava. Nico lo prese per il collo e lo baciò forte, affondando la lingua con violenza. Le mani si mossero rapide. Il cazzo di Giò, lungo, duro, sbatteva contro l’addome dell’altro. Nico lo prese, lo strinse. “Cristo, sei proprio come ti avevo immaginato…”
Si inginocchiò davanti a lui, nella sabbia, e lo prese in bocca con forza. Senza esitazione, affondando fino a strozzarsi, sputando, leccando. “T'ho sognato mille volte così, con la bocca piena del tuo cazzo duro.”
Giò lo guardava, ansimando, le mani tra i capelli di Nico. Lo guidava, lo spingeva. “Più giù… leccami le palle… sì, così…”
Poi si inginocchiò lui. Gli prese il cazzo: spesso, grosso, circonciso, con vene pulsanti e odore di maschio vero. Lo succhiò a fondo, con la bava che colava sulle dita. Leccò il buco, lo baciò, lo sfidò. Nico gemeva, gli tirava i capelli, lo spingeva più a fondo, fino a fargli venire le lacrime agli occhi.
“Allarga le gambe,” disse Nico.
Giò si girò, si mise a quattro zampe sulla sabbia calda, il culo in alto, già bagnato dal proprio desiderio. Nico lo sputò, lo leccò. Con rabbia. “Che bel culo. L’avrei voluto la prima volta. Ora me lo prendo tutto.”
E lo fece.
Entrò in un solo colpo, con un grido. Giò si aggrappò all’asciugamano, il respiro spezzato. Era grosso, e lo sentiva riempirlo, toccarlo dentro. Nico scopava con forza, spingendo i fianchi contro di lui, le palle che schiaffeggiavano le sue natiche. Lo prendeva come un animale, senza freni, con anni di desiderio accumulato in ogni affondo.
Il ritmo aumentava. Le urla, i gemiti, il rumore della pelle contro pelle.
“Sborra dentro, ti prego…” ansimò Giò, con la voce rotta.
E Nico venne con un ringhio, scaricando tutto dentro di lui, mentre lo teneva stretto, incollato, tremante.

Rimasero così, uniti, sotto il sole che bruciava. Due uomini. Due corpi. Un passato che non era più solo ricordo.

Nel 2021, a fine pandemia, Giò tornò di nuovo al paese. Per quanto la sua vita scorresse ormai altrove — Bologna, la filosofia, i caffè all’università, gli amori lampo che si consumavano tra lenzuola stropicciate e addii veloci — il richiamo del mare non si spegneva mai. Né quello del Bar di Vetro.
Quella sera lo vide da lontano: Nico dietro il bancone, i capelli più corti, la barba un po’ più bianca, ma lo stesso sguardo stanco e pieno di fuoco. Solo che questa volta non era solo.
Un ragazzo — moro, alto, accento dell’Est — gli girava attorno con naturalezza. Mani sulle spalle, baci sul collo, sguardi d’intesa, ma anche silenzi lunghi e strani. Le voci in paese girano rapide, e nel giro di due giorni Giò sapeva tutto: Nico aveva lasciato la moglie l’anno prima, dopo anni di silenzi e finti sorrisi. I figli erano grandi, sparsi per l’Italia. Il bar, unico rifugio rimasto. E il ragazzo, venuto per un’estate, era diventato il compagno ufficiale. Ma la felicità era un’altra cosa. E si vedeva.
Giò non disse nulla. Non fece mosse. Ogni sera arrivava con i suoi amici, ordinava da bere, sorrideva. E con Nico scattavano battute a doppio senso, risate strozzate, sguardi che duravano mezzo secondo più del dovuto.
Una notte, dopo che il locale si era svuotato, Nico uscì a fumare. Giò lo seguì fuori.
“Bologna ti sta bene addosso,” disse Nico.
“E a te? Ti sta bene questa nuova vita?”
Nico si strinse nelle spalle. “Fa compagnia. A volte basta.”
Si guardarono in silenzio. La luce del lampione li tagliava a metà. Giò sentiva il desiderio salire dentro, lo stomaco stringersi.
“E noi?” chiese, quasi sottovoce.
“Noi siamo una cosa che accade solo d’estate,” rispose Nico. “E a me basta anche così. Anche solo per una notte.”
“Ma io non sono fatto per le storie a distanza,” disse Giò. “E tu lo sai.”
Nico annuì. Gli sfiorò il braccio con due dita. “Lo so. Ed è per questo che non ti chiedo niente.”
Quella notte non fecero l’amore. Nessun amplesso rubato, nessuna bocca divorante. Solo uno sguardo lungo, un abbraccio troppo stretto, una mano passata dietro la nuca.
E l’estate passò così. Giorni di mare, notti al bar, battute taglienti come lame. Ogni volta che si sfioravano al bancone, Giò sentiva ancora il calore di quel pomeriggio in spiaggia, la sabbia, il cazzo duro di Nico che lo riempiva.
Ma c’era un confine. E sapevano entrambi di non poterlo più varcare.
All’ultima sera, prima di ripartire, Nico gli porse una birra. “Offerta della casa.”
Giò rise. “La solita.”
“Già. La solita. Come noi.”

E si toccarono le mani per un istante di troppo.
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