Gay & Bisex
"Misure Precise"

03.05.2025 |
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"Da come tremava appena lo vedeva entrare..."
Giò aveva appena compiuto diciasette anni. Portava ancora l’ingenuità addosso come una camicia troppo larga, che il corpo, ormai uomo, non riusciva più a contenere. Non aveva mai baciato nessuno. Le ragazze gli piacevano, certo. Ma anche certi uomini — quelli più grandi, con lo sguardo lento e le mani sicure — gli facevano girare la testa. Anche se non lo avrebbe mai ammesso.Aveva trovato quel lavoretto per caso: il volantino era appeso al tabacchino sotto casa. “Sarto cerca apprendista. Anche prima esperienza. Retribuito.” Il laboratorio era in una via nascosta del centro di Bologna, dietro una saracinesca scrostata. Dentro, odore di lana grezza e di legno vecchio. E lui.
Marco Vaudetti. Cinquant’anni. Barba curata, occhi come coltelli e mani da maestro. Vestiva sempre con una certa eleganza silenziosa: camicia bianca, panciotto grigio perla, pantaloni su misura. Aveva il modo di parlare calmo, ma imperioso, e guardava Giò come se lo stesse già misurando dentro.
“Mai fatto l’apprendista?” chiese, mentre lo scrutava da capo a piedi.
Giò scosse la testa. “No, signore.”
Marco sorrise, sottile. “Meglio così. Ti insegnerò io. Ma devi stare molto… attento.”
Il primo giorno fu semplice. Gli fece stirare tessuti, sistemare rocchetti, prendere misure ai manichini. Ma il secondo giorno cambiò tutto.
“Vieni qui, Giò. Ti insegno come si prende una misura vera.”
Marco gli fece segno di mettersi in piedi, a gambe leggermente divaricate. Lo sfiorava con il metro, ma più spesso con le dita. Giò sentiva il respiro dell’uomo vicino alla nuca. Le mani scivolavano lentamente lungo le sue cosce, sulle anche, fermandosi un attimo troppo a lungo all’altezza dell’inguine.
“Se vuoi imparare, devi lasciarti fare,” disse piano, quasi sussurrando.
Il cuore di Giò batteva forte. Era confuso, eccitato, spaventato.
“Va bene…” mormorò.
Marco lo guardò negli occhi, poi abbassò la serranda del laboratorio con un cigolio metallico che rimbombò nel silenzio. Da quel momento in poi, ogni misura divenne un pretesto per qualcosa di più. Mani che stringevano, bocche che assaggiavano, parole sussurrate all’orecchio che bruciavano più di un ferro da stiro.
Giò non sapeva se fosse desiderio o soggezione. Ma non riusciva a smettere.
La saracinesca era ormai abbassata da mezz’ora. Fuori, la città si era fatta ombra e silenzio. Dentro, la luce fioca delle lampade scaldava il legno delle mensole e la pelle umida di Giò.
Marco lo aveva fatto spogliare con lentezza chirurgica. Prima la maglia, poi i jeans. Niente sotto. “Bravissimo,” aveva sussurrato, sfiorandogli i fianchi con le nocche. “Giovane, liscio, inconsapevole. Una tela perfetta.”
Giò, nudo davanti a lui, tremava leggermente. Ma non si muoveva. Gli occhi bassi, il petto che si alzava piano, il membro già duro senza sapere il perché. Non capiva se era voglia o paura. Ma voleva restare.
Marco si sedette sulla sedia da taglio, le gambe larghe, il panciotto ancora chiuso. Solo la patta dei pantaloni slacciata. Tirò fuori il cazzo con naturalezza. Grosso. Grosso e teso. Lì, davanti a lui.
“Vieni qui, a gattoni,” ordinò con voce ferma, profonda.
Giò obbedì. Le ginocchia nude sul pavimento freddo, le mani tremanti che si appoggiavano al legno. Quando fu abbastanza vicino, Marco lo prese per i capelli e lo avvicinò al cazzo. Glielo strusciò sulla bocca chiusa.
“Apri.”
Giò esitò. Marco lo guardò fisso, stringendo i capelli. “Ora.”
E Giò lo fece. Spalancò le labbra, inesperte, calde. Il cazzo entrò subito, violento. Troppo. Si spinse fino in gola, facendogli lacrimare gli occhi. Ma Marco non si fermò. Lo teneva fermo per la nuca e lo scopava in faccia con forza, grugnendo piano.
“Così… sì… impara, puttanello inesperto… Ti piace? Non sai neanche cosa ti sto facendo, eh? Ma guarda come ti gocciola il cazzo…”
Giò era rosso, il viso bagnato di saliva, le labbra umide, le mani che afferravano i pantaloni del sarto come fossero l’unica cosa a cui aggrapparsi.
Dopo qualche minuto, Marco lo tirò su di peso. Gli afferrò i fianchi e lo fece voltare. “Sei pronto per il vero mestiere, adesso.”
Lo fece piegare sul tavolo da taglio, dove fino a poche ore prima stiravano giacche. Gli allargò le gambe, gliele forzò con ginocchia sicure. Fece scorrere la punta bagnata del cazzo tra le chiappe strette, e poi iniziò a spingerlo dentro, centimetro dopo centimetro. Senza fretta. Senza pietà
“Ahi…” Giò gemette, teso, il respiro spezzato. “Non… non ho mai…”
“Zitto,” sibilò Marco. “Stai imparando. Stai diventando uomo.”
E iniziò a scoparlo sul serio. A fondo. A scatti. I colpi si facevano sempre più forti, più brutali. Il suono della carne contro carne, il respiro pesante dell’uomo, le mani che stringevano le anche magre di Giò come un macellaio che lavora sul taglio giusto.
Giò non sapeva più se piangeva, godeva o tutte e due le cose. Ma qualcosa in lui si era rotto. O acceso. O forse entrambe.
Quando Marco venne, lo fece senza avvertire. Dentro. Con un ringhio basso, animalesco, le mani affondate nella schiena liscia di Giò. Rimase dentro per qualche secondo, ansimando.
Poi uscì lentamente, il cazzo lucido e grondante. Si pulì con un fazzoletto da taschino. Elegante, come sempre.
“Domani torni, vero?” chiese, mentre si riabbottonava i pantaloni.
Giò, ancora piegato sul tavolo, ansimante, annuì. Senza parlare. Senza capire davvero.
Era passata una settimana.
Sette giorni senza un messaggio. Senza un segnale. Senza una voce.
Giò non mangiava quasi più. Saltava le lezioni. Passava le notti con gli occhi aperti, il cuore contratto, il cazzo duro tra le mani mentre si immaginava di nuovo piegato su quel tavolo, mentre il respiro di Marco gli scaldava la nuca, mentre il sapore dell’uomo gli riempiva la bocca.
Ogni cosa gli parlava di lui: l’odore del vapore, il ticchettio delle forbici, la ruvidezza della lana tra le dita.
Una sera, senza nemmeno accorgersene, si trovò davanti al laboratorio.
La saracinesca era mezza abbassata. La luce accesa.
Spinse la porta. Entrò.
Marco era lì, seduto alla macchina da cucire. Si voltò lentamente. E il suo sguardo disse tutto.
“Non dovevi tornare,” mormorò.
“Sono stato via troppo,” rispose Giò. La voce spezzata. “Non riesco a respirare senza di te.”
Marco si alzò. Si avvicinò lentamente, come un animale che sa di essere pericoloso. Gli sfiorò il viso. Lo guardò negli occhi.
“Ti stai consumando per me,” disse. “E io ti desidero come un maledetto.”
Giò non disse niente. Si avvicinò. Si inginocchiò. Ma stavolta, Marco lo fermò.
“No. Stavolta voglio averti tutto. Sotto, sopra, dentro la bocca e tra le cosce.”
Lo spogliò in silenzio. Pezzo per pezzo. Poi si spogliò anche lui. Due corpi nudi sotto le luci gialle, tra i rotoli di tessuti e le forbici lucide.
Marco lo stese a terra su un tappeto da taglio. Si inginocchiò sopra di lui. Gli fece un cenno.
Giò si girò, si sistemò, e in un attimo erano bocca contro cazzo, fiato contro inguine. Si presero a vicenda con fame. Marco succhiava con maestria, leccando il glande con la lingua ruvida, mentre Giò affondava il viso nel cazzo dell’uomo come se fosse l’aria che gli era mancata per giorni.
La posizione li faceva gemere all’unisono. Bocche impegnate, mani che stringevano chiappe, fianchi, schiene.
Marco gli mordicchiava la base, glielo succhiava a fondo, fin quasi a farlo urlare. Giò lo imitava, sbavando, leccando le palle, ingoiando il cazzo intero con fatica, ma senza mai fermarsi.
“Ti mancavo così tanto, troia dolce?” ringhiò Marco tra un colpo e l’altro.
Giò rispose spingendosi ancora più giù, affondando la lingua nel solco umido del culo dell’uomo, facendolo tremare.
Marco gemette forte, un suono animalesco. Si strinsero, si presero, si bevvero.
Quando vennero, fu quasi insieme. Fiotti caldi, abbondanti, uno dentro la gola dell’altro. Nessuno si staccò. Nessuno sprecò una goccia.
Restarono lì, nudi, esausti. Solo il rumore dei respiri. Il cazzo di Giò ancora umido, il ventre di Marco che si alzava e abbassava piano.
Poi Marco parlò.
“Ti ho fatto male.”
“No,” rispose Giò. “Mi hai fatto vivere.”
Quasi due mesi erano passati...
Ogni giorno, dopo la scuola. O al mattino presto. O la sera, col buio. Bastava un messaggio, un cenno, un’ora libera: Giò correva, e Marco lo prendeva. Ovunque.
Sul tappeto da sartoria. Nella cabina armadio. Sul tavolo da taglio. Una volta, perfino nel retrobottega, tra i tessuti e gli specchi coperti.
Facevano l’amore come due creature affamate: ora violenti, ora lenti e complici. Ma sempre più uniti. Marco si lasciava andare. Giò si offriva, adorante. Ogni gemito, ogni goccia di sudore era un passo in più verso qualcosa che nessuno dei due voleva nominare.
Poi arrivò il giorno in cui Marco lo guardò mentre dormiva nudo sul divano, i capelli spettinati, la bocca semiaperta, e il cuore gli si strinse.
Lui si è innamorato di me.
Lo capì da come lo aspettava. Da come lo toccava. Da come tremava appena lo vedeva entrare.
E da quel “ti amo” che Giò sussurrò una sera dopo la chiusura, con il cazzo di Marco ancora caldo dentro di lui, mentre gli accarezzava il viso con la dolcezza di chi ha trovato il suo mondo.
Marco si alzò senza dire nulla. Andò in bagno. Si guardò allo specchio.
Aveva quasi 51 anni. Due figli, uno dei quali più grande di Giò. Una moglie che non lo amava più, ma che ancora gli faceva da scudo. Una vita costruita sull’equilibrio. E un segreto sempre più difficile da gestire.
Non posso continuare. Non con lui. Non così.
Il giorno dopo, fu freddo. Lo ricevette con una scusa, dicendo che aveva poco tempo. Niente baci, niente carezze. Giò lo guardò smarrio.
“Ho fatto un errore,” disse Marco, abbassando la saracinesca alle sue spalle.
“Cosa stai dicendo?”
“Tu sei troppo giovane. Ti stai attaccando. Io… non posso ricambiare. Non come vorresti.”
Giò restò immobile. Le parole colpirono come schiaffi.
“Mi hai fatto credere che...”
“Non ti ho mai promesso nulla,” lo interruppe Marco. La voce dura. “Questo era un gioco. Bello, intenso. Ma un gioco. Adesso basta.”
“Ma io ti amo, cazzo!” esplose Giò, gli occhi pieni di lacrime. “E lo sai. Lo sai che non era solo sesso!”
Marco strinse i pugni. “Proprio per questo me ne vado. Perché so cosa provo. E so che non posso viverlo alla luce del sole come vorrei. Io ho una vita, Giò. Tu ne hai una da costruire. Se resto, ti rovino.”
Giò gli si avvicinò, cercò di toccarlo. Ma Marco si scostò.
“Ti prego…”
“Vai,” disse solo. E aprì la porta che dava nell'androne condominiale.
Giò uscì tremando. Gli occhi gonfi. Il cuore sbriciolato in gola.
Marco chiuse. Riaprì la saracinesca della bottega. Si sedette alla macchina da cucire. E scoprì che, per la prima volta in trent’anni, non riusciva più a lavorare.
Il tempo era passato e aveva lasciato i suoi segni...
Marco camminava piano, con l’aria di chi si è lasciato addosso troppi silenzi. I capelli erano quasi bianchi ormai. Il viso più scavato. Gli occhi, però, erano sempre gli stessi: inquieti, vivi.
Era uscito per una commissione qualsiasi, in centro. Una camicia da sistemare, un orlo da rifare, non importava. Non pensava a niente. E proprio mentre attraversava Piazza Maggiore, lo vide.
Lui.
Era seduto a un tavolino esterno, al sole. Occhiali scuri, barba corta, un libro di filosofia tra le mani. Un cappuccino davanti, una sigaretta accesa. Elegante senza volerlo. Bello da far male.
Marco si fermò di colpo. Il cuore saltò un battito.
Giò.
Non c’erano dubbi, era evidentemente ritornato a Bologna, dopo anni. Lo riconobbe subito. Quel profilo che gli era rimasto nella pelle. Ma più maturo, più sicuro, più... ferito. C’era una malinconia nei suoi gesti, un’ombra dentro lo sguardo, anche se rideva parlando con il cameriere.
Marco rimase a distanza. Lo osservò in silenzio. Non sapeva se avvicinarsi. Non sapeva se poteva.
Poi, come richiamato da qualcosa, Giò si voltò. E lo vide.
Per un istante lunghissimo, nessuno dei due si mosse.
Poi Giò si alzò. Lentamente. Si tolse gli occhiali. Gli occhi erano gli stessi di allora: grandi, pieni. Ma molto più duri.
Si avvicinò. Marco si fece trovare in piedi.
“Giò…” sussurrò.
“Sono passati quindici anni, Marco.”
La voce era calda, adulta. Nessuna traccia del ragazzo ingenuo che gemeva nel retrobottega.
“Lo so,” disse l’uomo. “Ma io... non ho mai smesso di pensarti.”
Giò lo guardò, come si guarda un vecchio sogno. Con tenerezza. E rabbia.
“E io non ho mai smesso di odiarti per come mi hai lasciato. Ma ti ho anche amato. Tanto. Forse troppo.”
Marco annuì. Deglutì con fatica.
“Era vero amore,” sussurrò. “E io... l’ho buttato via.”
Giò sorrise appena. Triste. Ma anche forte.
“Non l’hai buttato via. Me l’hai insegnato. Dopo di te, ho amato davvero. Ma non ho mai dimenticato. Perché il primo amore… ti marca.”
Marco fece un passo. “Posso offrirti un caffè?”
Giò scosse la testa, con dolcezza. “No. Oggi no. Ma grazie.”
Si voltarono entrambi nello stesso istante. E si allontanarono. Due uomini. Due vite. Un amore perduto.
Ma eterno.
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