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Lui & Lei

Il tredicesimo piano...


di xNemesi
21.05.2024    |    1.887    |    5 8.7
"Entriamo nello stabile, vetri sporchi e lattiginosi come ghiaccio crudele, e raggiungiamo l'ascensore..."
Epitaph - King Crimson

https://www.youtube.com/watch?v=tflchAt5kJw


Sordidamente simbionti, siamo immersi nel nero più nero.
Quel nero denso ed opprimente di angoscia, come il tempo che scorre in un vortice complesso di istanti per sempre sconnessi. E più ci immergiamo, più nuotiamo alla ricerca di un fondo che non troviamo.
E mai troveremo.

L'automobile percorre l'autostrada a velocità sostenuta.
La pioggia scende con impudente indifferenza nel cielo scuro di questa notte.
Smaniamo, voraci come fiere, di saziarci delle sensazioni con cui siamo soliti nutrirci.
Noi siamo noi. Un'unita indivisa, incapace di trascendere l'intensità atomica del nostro legame.
Noi siamo uno.

Noi siamo uno anche se siamo stati allevati nella campagna bigotta di una tranquilla provincia collinare. Siamo uno, anche se siamo cresciuti nel sobborgo residenziale borghese di una grande metropoli.

In campagna abbiamo vissuto nella rigida ipocrisia dell'immobilismo cattolico.
Papà e mamma ci hanno insegnato che la forma è più importante della sostanza.
Che la famiglia è importante per l'immagine che proietta intorno a se, piuttosto che per la forza dei legami che la uniscono. Che la famiglia dev'essere un'immagine di onestà e di pulizia, di rigore e di stabilità.

In città abbiamo assistito passivamente alla distruzione di questa bugia in cui credevamo. In realtà poco avevamo capito.
Abbiamo osservato un padre allontanarsi giorno dopo giorno dalla nostra esistenza e abbiamo osservato nostra madre impazzire poco a poco in una nuvola di incoscienza.

Nel piccolo villaggio, freddo di inverno e fresco d'estate, siamo stati soli.
Spersi nell'abulica indifferenza della nostra famiglia, non fosse stato per lo zio Sergio.
Lui ci ha fatto sempre giocare, fin da bambini.
Ci ha osservato ridere spensierati, ha accarezzato la fatica di vivere impressa sulle nostre guance rosate. Ha spostato lentamente il piano del nostro stare insieme su una dimensione fisica, corporea. Fino a sorprenderci quella volta.

Quel giorno che ci ha chiesto di toglierci i vestiti.
Noi eravamo intimiditi, ma lo zio Sergio era sempre stato gentile.
Così ci siamo spogliati e lo abbiamo visto toccarsi quel coso.
Abbiamo visto la sua faccia arrotolarsi e disgregarsi in una smorfia spiritosa e anche un po' impaurita. Lo zio, senza fretta, ci ha condotto in uno spazio diverso in cui noi eravamo finalmente necessari. Un livello astratto e materiale al tempo stesso, dove la nostra importanza trascendeva persino la reale capacità di comprenderla. Ed anche se, ogni tanto, il dolore ci sfiorava con le sue fiamme affilate, siamo stati al gioco e mai lo abbiamo tradito.

La metropoli e la nuova casa ci ha fatto paura. Soprattutto vista da quella finestra tanto in alto, sui tetti della città. La nostra casa era piccola e tanti, troppi, erano i mobili che mamma ci proibiva di toccare.
Mamma. Così orgogliosa e superba nella sua pazzia. Arrivava a casa ogni volta con un uomo diverso. Noi eravamo gelosi. Papà prima di andarsene era già dissolto nella nuvola ambrata delle cose che beveva. E noi eravamo i soli, rimasti a proteggere quella povera donna dalla sua stessa follia. Un giorno ci disse che avrebbe potuto sposarsi di nuovo, se lo avesse voluto. E noi, che avevamo oramai dimenticato nostro padre, eravamo contenti.
Noi stessi, avremmo sposato mamma.
Mamma, però, continuava ad arrivare con uomini diversi, sempre più giovani, sempre più vecchi. Adesso, rimanevano tutta la notte e nelle nostre lunghe veglie sentivamo le urla soffocate di mamma e i prolungati cigolii del letto. Le facevano male e la mattina ci svegliava e vestiva ad occhi bassi, senza guardarci.

Zio Sergio non lo abbiamo mai tradito.
O almeno questo è quello che ci ricordiamo. Lo zio ci aveva detto che molti erano quelli che, per gelosia, avrebbero voluto che il nostro rapporto terminasse. Noi non lo avremmo voluto. Volevamo molto bene a quello zio che ci faceva stare così bene. Era un bene strano quello che provavamo. Anche se, ogni tanto, sentivamo dolore, anche se, ogni tanto, avremmo voluto non fare ciò che ci chiedeva, il sorriso benevolo di zio Sergio ci faceva capire che eravamo noi a fare del bene a lui.

Un giorno, forse..., non ci ricordiamo bene, abbiamo detto qualcosa a qualcuno, ad una compagna di scuola o forse al parroco. Successero cose strane, grosse, troppo per noi. Al paese si raccontava che lo zio, pio uomo di chiesa, che mai donna era riuscito a sposare, si era sposato con Dio e lo aveva raggiunto nella lontana foresta dell'Amazzonia. Noi non sapevamo dove fosse questa foresta. Ma eravamo tristi e spauriti.

Mamma e papà ci fecero visitare da strani dottori importanti nella metropoli vicina.
E, poiché era il tempo di andare alla scuola media, ci iscrissero al collegio femminile di quella città.

Temevamo le visite degli uomini di mamma. Sentivamo il dolore e la paura esplodere nella nostra testa. Non riuscivamo neanche più ad addormentarci, la sera. Fingevamo di dormire e poi stavamo con le orecchie bene aperte, per sentire i rumori e capire i significati di quelle urla soffocate e delle parole pronunciate. La cosa strana è che, gradualmente, ci abituammo a questi suoni e a quelle parole. E dopo un po', nelle nostre notti insonni, venne a farci visita una sensazione nuova. Strana e potente.

Quell'affare li. Si, quello da dove esce la pipì. Il pisello. Diventava più grosso. E noi cercavamo di stanarlo, di ricacciarlo indietro, ma lottando con lui, ci rendevamo conto che non avremmo mai vinto. Perché a noi questa lotta piaceva. E lottavamo fino a che, esausti, un liquido lattiginoso usciva a sporcare il lenzuolo.
La prima volta che mamma vide la biancheria, non si arrabbiò, ma emise una risata alta e lunga. Molto lunga. Non ci disse niente, ma continuò ad impazzire come sempre, come ogni altro giorno normale.

Al collegio pensavamo a zio Sergio. Non lo avevamo dimenticato, non avevamo cessato di provare, per lui, tutto il bene che potevamo.
Nell'istituto c'erano anche ragazze più grandi. Quelle che facevano il liceo. Sentivamo, origliando nei bagni, che parlavano di certe cose fatte con i ragazzi. Ci ricordavano dei giochi dello zio. Desideravamo essere come loro. Volevamo ritornare padroni di quelle indolenti emozioni.

La prima volta fu a tredici anni, con il fratello di una delle ragazze grandi che ci aveva preso in simpatia. In una vecchia macchina che odorava di piombo e benzina.
Era un pomeriggio di primavera. Ci fece molto più male dello zio. Ma, stranamente, più sentivamo dolore, più il piacere si impossessava di noi. Stavamo diventando un'altra persona. Una strana energia metamorfica si era presa la nostra mente e ci stava portando via con sé trasformandoci. Non potevamo più farne a meno. Cercavamo ogni occasione per stare con un ragazzo, con un uomo, anche con un vecchio. E tutti, anche se ognuno a suo modo, alla fine facevano quella strana smorfia, spiritosa ed impaurita, la stessa che faceva lo zio Sergio.

I fidanzati che si susseguivano nella nostra vita di liceale o di universitaria non erano sufficienti a lenire la brama di quell'amore assaggiato e mai dimenticato. Cercavamo occasioni diverse per vivere sensazioni sempre più forti.
Iniziammo a frequentare dei posti strani. Allucinanti oscuri e psicotici. La penombra dominava tutto il resto, resa più aspra dalle lame di luce che ci abbagliavano a sprazzi nella discesa negli abissi. Gli uomini si moltiplicavano. Uno, due, dieci.
Infine altre donne. Altri corpi, sempre diversi.
Sensi ammassati in un garbuglio indistinguibile nel quale avevamo iniziato a perderci. Una sera, per gioco, andammo in una strada. Ad aspettare, gonna corta e calze a rete, il primo sconosciuto che ci avrebbe caricato in macchina e fatto sua sui sedili posteriori in finta pelle, sul cofano o accovacciati dietro una portiera.

Mamma morì. Restammo nell'appartamento che guardava la metropoli dall'alto.
Contemplavamo in un'affollata solitudine la città. Ci dedicammo anima e corpo allo studio. E cercavamo, continuamente, nostra madre. La cercavamo nelle compagne di classe più carine, quelle vestite alla moda. Loro preferivano
sempre i più grandi, i più "fighi". Non certo noi, piccoli, magri e con la faccia da secchione occhialuto. La cercavamo nelle compagne di corso, all'università. Loro preferivano quelli con la macchina veloce e l'abbronzatura sempre stampata in
faccia. Anche a dicembre.

La trovavamo nei foto romanzi porno in bianco e nero. Nei cinema scarsamente frequentati. La trovavamo con gli uomini non molto schizzinosi che ci assaporavano e possedevano frettolosamente nel buio della sala. L'abbiamo cercata molto.
L'abbiamo cercata anche sui bordi delle strade. Ma ogni volta che ci sembrava di averla trovata qualcosa scopriva l'enorme inganno che, giorno dopo giorno, notte dopo notte, ci inondava con la sua finta perversità. A volte ad attrarci era la figura di un irreprensibile umo sposato, a volte un accento straniero, altre il colore scuro della pelle, altre ancora quel qualcosa in più che aveva tra le gambe.

Una notte la trovammo.
Una notte ci trovammo.
Eravamo noi, finalmente insieme. Non avevamo più bisogno di uno zio Sergio da amare, di una mamma da adorare. Ci eravamo ricongiunti nell'amplesso esistenziale della nostra unione.

Ma quel qualcosa ancora non bastava. Non ci bastava amarci fino all'esaurimento fisico.
Le scorie del passato erano oramai endemiche nel nostro sangue imputridito.
Solo che adesso non sapevamo più cosa cercare. Ci agitavamo ogni notte come serpi, quando viene sollevato il masso sotto cui hanno il nido. Eravamo impazziti. Esagerati. Continuavamo a chiedere a noi stessi più di quanto avremmo potuto rispondere, a volere e desiderare più di quello che potevamo ricevere.

Cominciammo a cercare diversioni. Dapprima oggetti, lugubre divise in pelle, materiali inconsueti. Il nostro feticismo si impossessò di noi e delle nostre anime.

Provammo a soddisfarci con altre coppie. Ma in tutti, uomini e donne, una volta che ci eravamo rivestiti, il volto assumeva la grottesca espressione dello zio, in tutte l'ingordigia travolgente della pazzia di mamma. Non erano, però, come noi. Non ci bastavano. Anche le orge, che all'inizio sembravano distrarci dalla nostra logorante ricerca, dopo un po' diventavano complessi ma labili esercizi fisici. Facce e membra che non riconoscevamo più, finivano confuse in un mucchio di oggetti e maschere indistinte.

Inserimmo la violenza. Lampi di incosciente abbandono, alla ricerca in un dolore che annebbiasse la nostra fame d’amore sempre più sfocata e lontana.

***

L'automobile percorre l'autostrada a velocità sostenuta. La pioggia scende con impudente indifferenza nel cielo scuro di questa notte. Parcheggiamo.Entriamo nello stabile, vetri sporchi e lattiginosi come ghiaccio crudele, e raggiungiamo l'ascensore. Tredicesimo piano.
La chiave entra nella toppa e, senza difficoltà gira. Irrompiamo con taumaturgica urgenza nell'appartamento.
La camera. Dov'è?

Pareti bianche e opalescenti su screzi di follia, ci accolgono.
Un letto, con lenzuola damascate immacolate.
Sopra, una scatola di velluto nero, il contrasto reso divinità dalla solennità del momento che abbiamo tante volte sognato, temuto e infine invocato.

Lentamente, ma senza indecisioni, senza paura ci togliamo i vestiti.
Entriamo nel bagno, antistante e, prima l'una, poi l'altro, accarezziamo l'acqua di una doccia purificatrice, calda ed eterna.

Poi, la stanza da letto. Il letto.
Schiudiamo la scatola. Lucide lame di metallo. Il filo è sottile come la ragione che sfugge da noi. Due coltelli. Noi li impugniamo. Solchiamo le nostre carni avide. Le vene dei polsi iniziano a scimmiottare una farsa di colore vermiglio.

Noi ci impugniamo.
Mani scivolano sui seni. I capezzoli, sporchi di sangue, inturgiditi dall'eccitazione folle di questo impudente senso unico senza una possibile via di uscita. Labbra, lingue. Il collo è baciato, leccato, esplorato, succhiato.

La testa ci ronza. Il rumoroso silenzio che ci assale ci spaventa come mai fin'ora. Finalmente la violenta immagine dello zio che ci penetra o la rabbiosa istantanea del viso di mamma schizzato di sperma, nella notte delle notti, scompaiono.

Scompare tutto di fronte al candido contrasto tra il bianco ed il rosso.
Un pene che entra in una vagina, in una bocca, nell’ano.
Entra, esce, entra, esce.
Entra. Esce.
Liquidi uniformi, sbiaditi, impazziti, colorati e ondeggianti come coriandoli al vento che colano, stillano, zampillano. La testa vola, mentre il ronzio è sempre più forte, così forte da annebbiare persino le sensazioni più forti e i ricordi più antichi.

E il momento arriva. Un urlo sovrumano, nel momento più umano che donna, che
uomo, mai possa immaginare.

Ma noi non siamo uomo.
Non siamo donna.
Noi siamo noi.

E nell'esatto istante in cui la vita insegue il suo sogno, il sorriso tagliente della morte che insegue la vita, squarcia l'universo in un disarmonico rombo oscuro.

Noi siamo l'inizio che segue la fine
Noi siamo la fine che segue l'inizio.
Noi siamo Alfa e Omega.
Noi siamo Omega e Alfa.



Nemesi
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