Prime Esperienze
KNOCKOUT...
di xNemesi
01.03.2022 |
2.525 |
4
"Allora troverò la forza di reagire..."
Now My Feet Won't Touch The Ground by Coldplayhttps://www.youtube.com/watch?v=fZIoFXmWbv0
Ansimo nel calore che abbaglia. Che stordisce.
È come quando arrivano sui fianchi quei pugni potenti come un rumore forte.
Ti sbattono addosso e ti fermano il respiro. Allora tocca di guardarsi intorno e cercare un riparo. Una salvezza che ti protegga da questa pioggia di violenza.
Il caldo è uguale. È uguale come questi pomeriggi d'estate. In un paesino della bassa come il mio non c'è nessuno, sono tutti in vacanza sulla riviera ligure o in Romagna. Beh, quasi nessuno.
La cosa delle botte, mi fa tornare alla mente l'incontro di quest'inverno.
Tre settimane a Natale e per le qualificazioni regionali combattevo con un ragazzo di Treviglio. Un treno. "L'intercity" lo chiamavano i suoi compagni di scuola. Mio papà, che m'era venuto a vedere m'ha detto che ai suoi tempi lo avrebbero chiamato l'Espresso.
Che ai suoi tempi, ha replicato smozzicando il sigaro, gli Inter-city non c'erano ancora.
Ma io ho sorriso. Ho pensato che così sarebbe sembrato un caffè, non un pugile. Per cui, mentre cammino per le strade deserte di questo piccolo paese, di una piccola provincia a metà tra Milano e gli appennini, sento le costole che si piegano per il caldo.
È agosto. È normale che faccia caldo. Sono le due del pomeriggio. Il momento meno indicato per affrontare la violenza di questa temperatura. Roberto. Si chiamava così quel ragazzo. Alto, molto alto. Una testa ed una mano più di me. I suoi pugni piovevano come grandine. Dall'alto. Arrivavano sulla zucca. La protezione riparava gli occhi ed un po' anche il naso. Ma tutto rimbombava con un rumore sordo. Sembravano petardi. A tre settimane da Natale ti sorprende soprattutto che un marcantonio come quello, tutto a un tratto, ti rifili una serie di colpi al corpo. Tu sei lì, tutto concentrato a salvare la capoccia da quei missili che saettano intorno. Ripari il cervello aggrappandoti ai guantoni che pesano come macigni. Ed ogni volta che ti arriva un pugno sui polsi benedici la tua buona stella.
Perché questo gigante non si scolla da questi colpi alti, che cercano il colpo grosso. E poi, mentre ti rimbocchi le maniche ed ogni tanto ti sporgi verso di lui, non vedi le sue ginocchia piegarsi? Sembra quasi cadere. Come quando hai colpito per il KO. Le gambe si piegano senza vita. E tu ad aspettare il tonfo sul tappeto. Dev'essere così, con religiosa attenzione, che i boscaioli del Canada ascoltano le sequoie cadere.
Io in Canada non ci sono mai stato. E non ho mai visto una sequoia.
Solo larici pioppi e betulle che corrono a fianco delle statali che arrivano in paese. E poi scappano via dall'altra parte. Forse temono di rimanere intrappolati in quest'aria. Ferma e noiosa. L'aria di un paese della bassa. Però l'asfalto di queste strade è liscio, in paese.
Lo noto pure adesso che cammino lungo il corso. Lo hanno rifatto di recente.
La mamma è contenta, che tre mesi fa s'è ammazzato il Piero. In motorino. Non è che dico che s’é ammazzato per dire che s'è fatto male. No. S'è proprio ammazzato. Morto.
Un buco nella strada é stato, dicono. Era di notte. Non l'ha visto è c'è saltato dentro. Che ingordo. Il Piero era il nipote della mamma. Mio cugino. Andava all'università a Milano. E poi, tre mesi fa, s'è ammazzato. Mia mamma diceva che il Piero era un ragazzo intelligente. Studiava ingegneria, a Milano. Non perdeva tempo come me, diceva la mamma. Dietro alla boxe ed alla Gilda. Però io penso: che se era tanto intelligente, mentre tornava da casa della Mimma il casco se lo metteva.
E invece no. Si vede che la Mimma quella sera gli deve aver succhiato via un bel pezzo di cervello, al Piero. Il resto è colato sull'asfalto.
Svolto a destra in Via dei Giacinti. L'asfalto è bello nero e nuovo, come il telefonino che ho comprato al centro commerciale. E penso a mamma e a tutte le altre mamme che sono andate dal sindaco e gli hanno urlato in faccia. Ed il sindaco ha fatto un po' come me, quando mamma mi urla in faccia. Ha detto: «Va bene, va bene. Le rifacciamo le strade signore. Ma adesso lasciatemi fare. Che devo tornare alle mie cose». Più o meno è quello che io dico alla mamma. Quando vado a boxe o dalla Gilda. Che la mamma non le piace che io faccia la boxe. E non le piace che frequenti la Gilda e la compagnia della piazza. Tutti quei ragazzi poco seri che pensano solo ai motorini, alle macchine ed al sesso. Peccatori senza religione. Così dice la mamma.
Alla mamma non piace la boxe. Neanche quel giorno che mancavano tre settimane a Natale. E non le piace la Gilda. Dice che sembra una di quelle.
Beh, la Gilda non è una santa. È cresciuta in fretta, anche se ha solo sedici anni. Come me. Io lo so che i sabati che rimango al bar con gli amici e poi vado a letto presto perché l'indomani ho un incontro, lei va in discoteca con i grandi. A Voghera o a Tortona o a Pavia. Una volta persino a Milano. Lo so.
So anche, me l'ha detto l'Ambrogio, che mangia le pastiglie colorate. E fa delle cose brutte, come le chiama l'Ambrogio. Come la volta che l'ha succhiato a quei due ragazzi di Milano. Sul divanetto del locale. È fatta così, la Gilda. Gli dici che c'hai la BMW parcheggiata fuori e lei si eccita.
Le piacciono quelle cose. La gente ricca ed elegante che lavora poco e pensa solo a divertirsi. Ma alla Gilda piaccio anch'io. Che il primo pompino che m'ha fatto, me lo ricordo bene. Eravamo a scuola. Durante l'ora di ricreazione che pomiciavamo nella stanza delle scope. Ed allora la Gilda mi ha detto: «Senti Giorgio, vuoi che te la faccia una sorpresa?». Ed io ero impaurito e non sapevo cosa dirle. Ma poi mi spiaceva dirle no. La vedevo ridacchiare, il viso luminoso sotto la frangetta. E la magliettina tutta attillata con il fiore disegnato sulla tetta. Sono rimasto senza respiro.
C'era un chiasso, nella palestra di Cinisello, che si respirava fuliggine di treno. E tutti i ragazzi urlavano. E c'erano quattro ring dove c'erano le eliminatorie. E poi Roberto, quello del treno, che per coincidenza c'aveva il papà capostazione, che mi correva incontro con la faccia incazzata.
Uno e due e tre. I guantoni che sbattono sui miei.
La mamma era rimasta a casa arrabbiata. Non aveva degnato d'uno sguardo papà che caricava la mia borsa sulla Punto. «Dai Jolanda, non fare così. Il Giorgio è un campione. Non si farà male». E la mamma non gli ha risposto, al papà. Mi ha guardato e mi ha detto: «Giorgin', li hai fatti i compiti per domani?». «Li ho fatti mamma. Li ho fatti tutti». «Bravo Giorgin', figlio mio. Ti prego, non farmi stare in pensiero. Che non voglio che ti fai male e poi diventi tutto brutto». «Mà, non ti preoccupare, ce la faccio vedere io a quello là. Mamma?». «Dimmi amore». «Senti, stasera posso uscire? È il compleanno della Gilda. La porto al cinema».
La Gilda. S'è abbassata ed ha armeggiato con i bottoni. Ed io stavo iniziando a capire qual'era la sorpresa. E allora le ho detto: «Ma, Gilda. E se ci scoprono?». «Tranquillo. Tranquillo. Faccio veloce». E giù una risata. Ed io, invece, ci avevo un po' di paura. Ma allo stesso tempo me lo sentivo che diventava duro. E stringeva nelle mutande e poi nei jeans. E allora le mani sono corse ai bottoni. Hanno giocato con quelle di Gilda ed hanno fatto la gara per aprire i pantaloni.
Il Roberto si muoveva poco. Ma i suoi pugni erano tuoni che scoppiavano vicino. Il papà m'aveva detto di stargli lontano, «che è più lungo di te. Ti prende anche se corri fino a Cremona». «E come faccio, allora?», gli ho chiesto. «Semplice. Corri. Corri veloce tutto intorno. E poi, ogni tanto gli vai vicino e lo colpisci. Un pugno qui ed uno là. Su fegato e reni». Ed io gli correvo intorno, al gigante. Giravo che sembravo sulle giostre e quello lì, con la faccia piena di pustole e gli occhi piccoli, mi odiava ad ogni pugno che tirava all'aria.
Quando la Gilda l'ha tirato fuori dalle mutande era tutto dritto. E l'ho sentita mormorare qualcosa sul fatto che "sembravo" piccolino. Ed allora ho sorriso. E le ho posato le mani sulla nuca e l'ho portata a me. È stato un tuffo in un sogno. Un sogno tiepido ed umido. Io c'avevo una roba nella pancia che era un'emozione grossa. E non sapeva come uscire. Allora tremava. E tremavano pure le gambe e gli occhi lacrimavano. E mi veniva da urlare, ma urlare non potevo, che se ci scoprivano ci mandavano dal preside. E la mamma non mi avrebbe fatto andare più con la Gilda.
«Basta che non ti fai male», mi ha detto la mamma. «Se non ti fai male, ci puoi andare al cinema con quella là. Con la Gilda. Ma sta' attento. Sta' attento per la mamma». E m'ha guardato con quegli occhi semplici che conosco. E so che, anche se la mamma ogni tanto mi dice delle cose brutte, in fondo mi vuol bene. E poi s'è girata verso papà. Lo ha guardato per un momento lungo lungo e poi ha parlato. «Papà», gli ha detto «pensaci tu al campione. Che non voglio che si faccia male». «Tranquilla mamma. Vedrai che il Giorgio lo ammazza quello là». E siamo saliti sulla Punto tutti allegri. Io perché alla sera uscivo con la Gilda. Il papà perché la mamma gli aveva dato un bacio sulla guancia attraverso il finestrino, prima di partire.
La Gilda ad un certo punto si ferma e mi dice. «Giorgio, lo sai che ce l'hai proprio bello grosso». Ed io guardo verso il basso e vedo il suo viso che mi piace tanto. E lo vedo vicino al mio coso, che invece lo vedo sempre. Quando faccio la pipì o quando faccio la doccia in palestra. O quando guardo la tele fino a tardi e ci sono le donne nude. Ma lì, vicino agli occhi truccati della Gilda, ed alla sua bocca con il lucidalabbra. Beh è un'altra cosa. E questa roba, che credo si chiami felicità, si gonfia sempre più nel ventre. E non riesco a trattenermi. E le dico, alla Gilda: «Gilda, io non so che succede. Ma tu sei bellissima». E la Gilda mi guarda negli occhi. Profondi profondi, me li osserva e poi mi dice, «Giorgio senti, adesso ti faccio un regalo». Ed io non capisco cosa voglia dire la Gilda.
La terza ripresa era l'ultima. Eravamo pari, ma forse qualche punto in più ce l'aveva lui.
È stato in quel momento che mi ha sorpreso. A parare pugni che sbattevano sui guantoni mi ci stavo abituando. Ad un tratto vedo le sue ginocchia che si piegano. E allora mi chiedo, ma che sta facendo? Io non l'ho colpito. E mi arrivano uno, due, tre pugni sui fianchi. E rimango senza respiro. Senza respiro come adesso, che cammino per la strada con l'asfalto tutto nuovo. Con l'asfalto tutto nero che mi racconta di Piero, di Milano e dell'università. Della mamma e del compleanno della Gilda. Del motorino che inciampa e della testa che scontra per terra. E mi racconta di papà che mi parla, in macchina. E mi dice che lui è contento che io esco con la Gilda. Che mi vede felice. E dice che quel gigante di Treviglio me lo bevo come un succo di frutta. Che quando lo sento colpirmi e farmi male io in quel momento devo pensare alla Gilda.
Devo pensare alla Gilda in un momento unico, che ci stiamo amando. Allora troverò la forza di reagire. «Io ci penso sempre alla mamma nei momenti difficili», mi dice mentre usciamo dall'autostrada con la Punto. «Ci penso quando sono al lavoro. E c'ho i colleghi che mi fanno le infamate. Ed il capo che mi fa la ramanzina. Ed allora io penso alla mamma. Penso ad un momento che siamo stati bene. Il giorno che ci siamo sposati. O quando sei nato te. O quella volta in vacanza in Sardegna, che tu non c'eri ancora, ed avevamo mangiato al ristorante. Spaghetti alle vongole e vino bianco. Che notte, quella notte con la mamma». Così mi dice.
Lei ce lo ha in bocca. La Gilda, intendo. Ed ha preso a succhiare veloce. E con l'altra mano s'aiuta. E la roba che c'è nella pancia e nelle mani. Nelle braccia e nei piedi. Nelle gambe che sono sempre più molli e nella testa che esplode dal caldo. Quella cosa esce fuori. E sgorga impetuosa insieme alle lacrime sulla mia faccia. E non c'è più lo stanzino. Non c'è più la scuola. E non c'è più questo piccolo paese di provincia che dorme sullo sferragliare delle fabbriche della pianura. Sulle serate al bar, a parlare di calcio e delle modelle della televisione. Ci sono solo io con le mie lacrime. E Gilda con la sua bocca affamata e calda. Ed io che mi verso dentro di lei come l'aria pulita in una giornata, che ha smesso di piovere.
A questo penso, mentre trattengo il respiro dopo i colpi del ragazzo di Treviglio.
E i miei occhi rinascono. E lo vede pure Roberto, che mi potrebbe finire. Invece si ferma. Mi guarda. È curioso o forse impaurito. Perché mentre mi stava menando io penso alla Gilda e a quel fantastico pompino. E a quanto mi ama, la Gilda, che io sono convinto che le cose che dicono di lei, non siano mica vere. Che la Gilda fa un po' finta. Perché vuole sembrare grande e figa come le veline. Ma per me la Gilda è la più bella. Anche se cerca di sembrare come tutte le altre. E quando lo penso, inspiro il primo sorso d'aria. E questa vola al cervello. E mi sembra di volare anch'io. Come una rondine che chiama la primavera e la sveglia dal suo sonno. Ed allora lo colpisco. Una, due, tre volte.
Al volto. E poi una quarta. Ed una quinta. E lui c'ha gli occhi che sembrano una fotografia.
Quelli di uno che è sorpreso, che non capisce. Quelli di uno che si ferma a riflettere.
Quelli di uno che mi guarda dal basso, mentre precipita verso il tappeto. Mentre si prepara a fare il rumore inconfondibile di uno che finisce KO.
Gli occhi di uno che pensa...: «sono stato battuto da un pompino».
Nemesi
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Dedicato a chi come me ha amato e praticato la boxe e ancora malgrado tutto,
non ha perduto il ricordo di quel primo amore e di quel primo pompino...
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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