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Lui & Lei

L'infinito di Giacomo Leopardi


di fedemio
25.10.2016    |    2.769    |    2 5.7
"Silvia è molto contenta perché questi sono i suoi migliori clienti, ma sono pochi..."
La vera storia della poesia più famosa del mondo.
Giacomo, piccolo magro e alquanto brutto, ormai 20 enne, nonostante ricco e di nobile famiglia, è ancora vergine di vagina. Nella sua tenuta ha scopato qualunque animale, come si conveniva al tempo, ma mai una femmina di razza umana. Ha passato la vita a scrivere e riscrivere. Lui è intimamente, segretamente e profondamente innamorato di Silvia, una ragazza veramente molto bella ma tanto povera. L'unico modo che Silvia ha per procurarsi da mangiare è vendere il proprio corpo. Nella ridente cittadina di Recanati se la sono scopata tutti. C'è qualche signorotto in paese che ha con lei l'appuntamento settimanale. La usano e ne abusano, da soli o con gli amici, e poi la pagano profumatamente. Silvia è molto contenta perché questi sono i suoi migliori clienti, ma sono pochi. Le lasciano soldi equivalenti al mangiare di due giorni. Altre volte scopa con operai agricoltori e braccianti vari che però pagano poco e le lasciano da mangiare solo per il giorno della prestazione. Altre volte ancora si ritrova a dover scopare con dei poveracci che l'unica cosa che le possono dare da mangiare è il loro sperma. Per Silvia questo non è un problema, per lei l'importante è godere e mangiare. I suoi buchi sono tutti aperti. Non le fa più schifo niente. Ha visto di tutto. Qualcuno ha goduto orinandole addosso e qualcun'altro le ha fatto leccare la figa al proprio cane. Il mondo del sesso è veramente variegato. Per fortuna che ci sono persone come Silvia a colorarlo e renderlo piacevole.
Giacomo un giorno origlia il suo cocchiere e lo stalliere che si scambiano commenti ed opinioni sulla bella Silvia. Il giovane nobile è così eccitato all'udir quelle parole che si precipita nel pollaio e senza essere visto si scopa subito una tacchina con fervore.
Decide di invitare Silvia a prendere un the in giardino. Il giorno dopo manda il cocchiere, la lavandaia e la governante a prenderla, la fa lavare e ripulire. Le spruzzano addosso una grande quantità di essenza di rosa e la depilano sotto, tra le gambe attorno alle labbra della vagina. Lasciano solo un folto ciuffo di peli sul monte di venere. Le mettono addosso una stola bianca. Praticamente un lenzuolo con solo il buco dove infilare la testa. Silvia è molto contenta del trattamento che sta ricevendo e del primo passo fatto dal padrone di casa per conoscerla. Finché le preparano la stola Silvia fa un primo ricco pasto offerto dalla casa a base di selvaggina che nelle buone cucine del tempo non mancava mai. Assaggia di tutto e mangia come un'ossessa faggiano quaglia e cinghiale, accompagnati da polenta, crauti, broccoli e fagioli giganti. È proprio curiosa di conoscere questo misterioso Giacomo. Sono le sedici e la fanno accomodare sul prato ad aspettare. Giacomo scende tutto nudo. Oltre una penna di gallina, una boccetta d'inchiostro ed un foglio di carta in mano, è vestito solo di un bocciolo di rosa con un piccolo gambo senza spine che se l'è legato al pisello penzolante. Arriva vicino a Silvia, non la saluta, perché non sa comportarsi con le donne, e stando in piedi avvicina il suo cazzo alla faccia di Silvia e le dice "annusa sto fiore". Silvia obbediente appoggia il naso alla rosa e prende in bocca il pisello.
Giacomo ha un mancamento e cade a terra svenuto per pochi secondi con la testa tra le gambe di Silvia. Non appena apre gli occhi nota subito quelle grandi labbra semi aperte che lo invitano ad entrare per fare l'esploratore. Il nobile ha la testa talmente infossata tra le coscie di Silvia che anche sforzandosi non riesce a vederla in faccia. Il monte di venere e il fitto ciuffetto la coprono. Deve alzare ancora un po di più gli occhi per cercare quelli di Silvia, ma invece del suo sguardo vede la folta riccia peluria nera di lei che, nel frattempo si è tolta la stola e ci si è sdraiata sopra per mettere il suo corpo a disposizione del generoso signore, il quale invece di saltarle addosso prende carta penna e calamaio e scrive "Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude."
Silvia è non curante degli atteggiamenti a volte folli dei suoi clienti. Rimane sdraiata e, a causa della pancia piena, rilascia un peto. Un piccolo peto, un istante dal quasi impercettibile rumore, se non fosse per lo che era lì con la testa. Da sempre la storia insegna che l'emissione di gas dall'ano più è breve e silenziosa e tanto più è puzzolente. Lo sventurato per non cadere tramortito al suolo un'altra volta da quel fetore, si mette seduto davanti alle gambe spalancate di Silvia. Prende fiato e cerca di rinsavire. Certamente quella ventata di benessere di Silvia non avrebbe giovato ai polmoni già deboli del malandato giovane, ma lui resiste. Nella sua breve e emarginata esistenza non era mai stato così vicino ad una vulva. I servi invece si sono allontanati in fretta tappandosi il naso. Tra lo sgorbio d'uomo e Silvia si è creato il silenzio più totale. Lei è disposta a farsi fare di tutto e lui è talmente timido che non parla nemmeno sotto tortura. Osserva le grandi labbra vaginali, le afferra e le divarica colpito dalla notevole dimensione e profondità della cavità vaginale della sua amata. Subito si fa venire qualche inpensabile e malsana idea. Ma prima, esterefatto dalla visione, riprende carta calamaio e penna e descrive "Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura."
Il disagiato si avvicina incuriosito e cerca di fistare Silvia. Le mancava solo questo. Lei comincia a sgrillettare il clitoride per bagnarsi un pò e permettere allo sfigato di inserirle le mani. Si perché entrare solo con una mano a lui non basta. Intanto un forte vento spettina lo sventurato e la rosa che aveva attaccata al cazzo viene portata oltre le mura della tenuta. Il maniaco continua a spingere con le mani dentro la già sfondata figa di Silvia la quale non riesce ad eccitarsi a sufficienza e accusa dei dolori uterini fortissimi. D'istinto urla con quanto fiato ha in gola "coglione!! lo capisci che mi stai facendo male??" Giacomo con sincera meraviglia ma senza scomporsi più di tanto riprende carta calamaio e penna e descrive "E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando:"
Silvia è incredula. Di tutti gli storditi che le erano passati tra le gambe questo è sicuramente il peggiore. Infatti appena ha scritto quelle cose si rifionda tra le gambe di Silvia con entrambe le mani unite a pugni chiusi. Silvia caccia un urlo disumano, si alza e dà un sonoro ceffone a piena mano al malscalzone. Lo colpisce sull'orecchio e la compressione dell'aria in esso contenuta probabilmente gli ha anche lacerato il timpano. Lo iellato ricade tramortito a terra privo di sensi. Dopo qualche secondo viene svegliato da un forte fischio. L'unico rumore che ancora sente da quell'orecchio. Apre gli occhi e a pochi centimetri dal suo naso vede il foglio di carta, penna e calamaio. Li prende in mano e descrive "e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei."
Di tutte le bestie che aveva scopato l'associale, quell'essere è sicuramente la più calda. Giacomo ha un'erezione esagerata. Silvia se ne accorge e decide di chiudere in fretta la prestazione perché non sopporta più questo schizzato squilibrato pazzo. Finché lui è sdraiato a terra lei gli afferra il cazzo in mano lo mette in piedi e ci sale sopra a smorza candela. Fa tre salti di numero e Giacomo eiacula per la prima volta dentro un corpo femminile. Ha, teoricamente, posseduto la donna dei suoi sogni. Giacomo è in estasi, è al settimo cielo, non controlla l'emozione, si gira di scatto sul fianco facendo cadere a terra Silvia che sto giro è veramente incazzata. Il disgraziato riprende carta penna e calamaio e descrive "Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare."
Raccoglie le sue cose e torna nella segregata torre, dove per anni si era ammazzato di seghe rovinandosi la salute e la vista, per rileggere la sua poesia in compagnia della sua ossessionante solitudine. Silvia è sbalordita. Va dai servi si fa ridare vestiti ed effetti personali, i soldi e se ne va dolorante.
Di lì a pochi giorni Silvia perisce per le ferite interne procurategli dallo squilibrato, perché prima di fistarla non si era né lavato le mani né tolto gli anelli che indossava.
Giacomo scosso da quel dolore, ma non conscio delle sue colpe, un decennio dopo scrive un'altra poesia a perenne memoria di Silvia: "A Silvia".

Parafrasi
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
-Ho sempre sognato questo monte di venere e questo ciuffo di peli che da qualunque posizione osservo non mi permette di vedere lo sguardo di Silvia.

Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura.
- Mi siedo a guardare l'immenso spazio dentro la vagina di Silvia. Intanto intorno si crea un grande silenzio perché la gente scappa tutta per le puzzette che fa. Io invece faccio strani pensieri e così malati che mi spavento pure io.

E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando:
- Il tempo sta cambiando, c'è un forte vento e Silvia quando cambia il tempo urla come una matta.

e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei.
- Silvia me le ha ha suonate di santa ragione e credevo di morire e diventare eterno. Si sente che sei viva.

Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
- Hai una vagina grande e piena come il mare e il mio pene nelle tue secrezioni uterine si perde come un naufrago. Non ho mai goduto così tanto.
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