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Olivina gemeva tutta 1a p. (il suo seno)


di sexitraumer
13.10.2009    |    27.113    |    0 6.9
"Io dovevo solo allontanarmi di qualche passo e fingere di dover fare pipì..."
Il mondo di Toraldo & Olivina, Terra d’Otranto, secolo XVI.

Ehi voi ! Sì, … dico proprio a voi. Ci siete ? Sapete chi sono ? No …? Beh, qualche notte fa , durante il sonno, entrai nella mente della persona che lavorava allo scrittoio vostro, e gli dissi di chiamarmi Toraldo, e vorrei se per voi signori di questi tempi, non è cosa troppo sgradevole, non declinare punto il cognome mio; non me ne vorrete, ne son sicuro, come non ve ne voglio io, se venite ormai ogni anno a compier caciara qui dalle parti mie per quella notte della Taranta che attira volgo da ogni dove. Non ero che un banale servo ragioniere, un giovane istruito al servizio di uno di quei signori territoriali della Terra d’Otranto. Nacqui da queste parti l’8 febbraio 1515, crebbi, lavorai tutta la mia vita per il mio Signor Barone, un tale il cui nome non ha importanza veruna. Tanto era onesto e timorato di Dio quel Signor Barone mio, che per rispetto anche a chi mi insegnò a leggere e scrivere scrivo col maiuscolo. Non posso nominare punto il nome suo acciocché non ne insozzi la memoria. Perdonatemi amici che leggete; ai miei tempi non c’era questa lucente diavoleria meravigliosa con i tasti, e le lettere ed un colorato vetro immaginoforo con cui ogni tanto, quando posso, vi percepisco a scrivere, o a dettar le memorie vostre. Percepire è la parola più giusta perché propriamente non vi vedo … tuttavia “sento la consapevolezza” di dove mi trovo; mentre voi avreste una piccolissima possibilità d’inferire ( vi sfido a saper il suo significato …) la presenza mia. Il vostro amico Toraldo ancora oggi ha lo spirito suo in vincoli. Non riesco ancora a capire se per il sottoscritto sia stato deciso il Paradiso o l’inferno. A tutt’oggi non ricordo d’aver mai visto Angeli di fatta alcuna, né solforosi demoni uscir dalla terra onde prelevarmi. Proprio non capisco se io, o l’anima mia, stiamo trascorrendo un periodo di purgatorio prima di ascendere. Ancora, quando ne ho voglia riesco a percepire voi moderni abitanti di quel che fu il mio ambiente; in questi cinque secoli potete immaginare quante ne ho “sapute”… sì, avete capito bene: sono quello che voi chiamate “fantasma”; ma scordatevi l’idea di potermi vedere. A mezzanotte (l’ora è invenzione vostra) non uso comparir da parte alcuna; men che meno nei castelli, torri, e campanili … posso però come vi dissi all’inizio, da una dimensione a voi nascosta, entrar nella mente vostra per stimolare in voi, ultimi padroni invero della vostra mente, certi sogni e non altri. Oggi in quello che fu il palazzo baronale del nostro signor Barone credo ci siano gli uffici dell’amministrazione vostra cari moderni… siete pure voi dei gran maialoni nel vostro cuore mercé quella diabolica invenzione della pornografia; una parola moderna che ben descrive quanto ai miei tempi avveniva lo stesso per ingannar lo tempo, o dimenticarsi per un po’ della condizione propria. Né a tutt’oggi so quanto abbia a durare questa mia condizione forse un poco privilegiata...orsù dunque, a chi scrive queste mie memorie racconterò: La mia disgrazia fu mia sorella Olivina di me più giovane di quattro anni. Nostro padre, buon anima, la promise in sposa ch’era ancora un’infanta al figlio di un notaio, suo buon amico, di un paesino a noi vicino. Il giovane tirocinante notaio Ranuccio Tresoldini di anni ventiquattro quando la sposò, del notaio Giuseppe Maria Tresoldini da Martano. Nostro padre Mario e nostra madre Annamaria fecero ogni sforzo per crescerci timorati di Dio e rispettosi delle leggi della Signoria nostra. Anche il nostro parroco (altro amico di famiglia) fece quanto poteva per educarci al rispetto tra bambino e bambina; ragazzo e ragazza; uomo e donna. Solo che noi , lasciati a noi stessi nell’età dei primi impulsi forse non ne demmo troppo per inteso. Nostro padre stalliere capo del Signor Barone dei nostri luoghi risparmiò per ben venti anni e dotò mia sorella di una discreta somma per i suoi sponsali. Come capo stalliere aveva sotto il suo comando degli schiavi e delle schiave negre alte e ben piazzate con le quali ebbe di tanto in tanto a giacer di sesso. Olivina la sorellina mia aveva 18 anni quando lasciò casa nostra; un’età da marito, una sorta di “ultima chiamata” visto che ci si sposava anche più giovani, per l’anno 1534. Il paese nostro è inutile nominarlo. A quell’epoca potevamo essere, che dico ?-, 1000 abitanti …? e ci metto pure il forse! Tutta la vita di ognuno di noi era la campagna del nostro manso e vari lavori dovuti al Barone da parte di noi tutti in famiglia non appena abili al lavoro, non lavoravano solo gli schiavi quindi; che oltre tutto appartenevano al Barone. Poi avevamo la Chiesa, la strada con gli amici, il mercato, il nostro Santo Patrono e la sua festa, qualche pubblica esecuzione purtroppo non rara, qualche scorreria (invero non poche) dei turchi con relativa mobilitazione dei maschi abili alle armi … e i tre momenti fondamentali canonici di ogni bravo suddito cattolico: battesimo, comunione, cresima, e per chi se la sentiva il matrimonio; dopo una trentina d’anni il funerale; tempo per annoiarci non ne trovavamo mica; altri mille abitanti, o poco meno, nel paese del notaio Tresoldini ad un’ora di cammino dal nostro in direzione sud. L’insano desiderio tra di noi nacque forse una mattina d’estate di domenica. Nostro padre Mario, un buon uomo di 42 anni, ci portò alla Santa Messa di buon mattino. Dopo di essa, mentre nostra madre Annamaria restava a casa a preparare il desinare, che a casa nostra mai ebbe a mancare, nostro padre, giudicandoci abbastanza grandi per aiutarlo almeno un po', ci portò con lui in campagna. Doveva dare un’occhiata al raccolto di grano perché presto sarebbe arrivato il tempo della mietitura, e raccogliere i fichi dall’albero del nostro manso, e da quello del fondo accanto, nella pars dominica, ch’era invece del Signor Barone. Olivina ed io lo dovevamo aiutare portando le ceste. Io che ero il più grande lo avrei dovuto aiutare con il cesto più grande e pesante. Ad un certo punto, giunti sul nostro manso, nostro padre ci diede delle ceste vuote: a me toccò la più grande; mi piazzai prima accanto, poi davanti ad essa senza sapere come impugnarla ed Olivina rise: non avevo capito niente; provai a sollevarla per farmi vedere operoso: avendole provate vi dico che di peso non differivano molto: solo per circonferenza ed altezza. Entrambe più alte di noi. Olivina mi mostrò come far: infilammo le loro asole, e nostro padre le caricò poco con delle carrube visto che non eravamo né grandi, né prestanti. Ci caricò solo con mezza cesta ciascuno. Dovevamo compiere come primo lavoro per lui cento passi (però di nostro padre erano quei cento passi) fino al carretto, scaricarvi le carrube, e poi ritornare in attesa della prossima incombenza. Durante il tragitto più o meno verso la metà della distanza da compiere caddi a terra inciampando. Imprecai, ed Olivina avanti a me, benché più piccola, si voltò verso di me e mi soccorse senza pensarci due volte; solo che nel chinarsi per aiutarmi inciampò anche lei cadendo verso di me. Il nostro manso non era fatto di terra scapola; le pietre c’erano. Tuttavia noi due, sbilanciati dalle ceste, inciampammo su uno strato di terra fangosa. In ginocchio strisciai verso di lei, ma tutto quello che ottenemmo fu di finire di far scontrare le sommità delle nostre ceste un braccio più alte del nostro capo. Le carrube si rovesciarono in terra: meno male che erano cibo da asini come il conduttore del nostro carretto. Mentre buffamente Olivina si chinava verso di me anche il peso della sua cesta spostava avanti i suoi abiti e la sua veste finì per slacciarsi dalla parte del seno ed io vidi le sue due piccole boccette. Il sole non era tanto alto e l’inclinazione dei raggi con cui ci investiva me le fece notare belle rosee. Mentre nostro padre si affannava a controllare le spighe io potei ammirare il petto della sorellina mia al sole del tardo mattino. Mezzogiorno era vicino. Cosa posso dirvi ? Era un piccolo seno; forse era magnifico proprio per questo; ben tornito e stava su da solo. Non avevo mai visto mia sorella così scollata fino a vedere tutta la valle tra le sue boccette. Il sole mi venne incontro irraggiando di fronte a mia sorella che teneva gli occhi socchiusi. Non si stava accorgendo che restando io col sole di spalle guardavo agevolmente tutto il suo corpo attraverso la camicetta e la gonna. Rimasi a guardarle quelle zinnette in formazione mentre carponi si dirigeva verso di me. Era la mia curiosità infantile che si stava trasformando in turbamento sessuale. Nel momento in cui si fosse rialzata in piedi quel suo piccolo seno sarebbe riscomparso dietro la veste. Forse il tutto sarà durato qualche minuto… Olivina nonostante fosse più piccola era più intelligente di me. Si tolse la cesta dopo aver armeggiato con braccia ed asole pensò prima di tutto di togliere la cesta dalla mia spalla. Poi mi aiutò a rialzarmi. Mi chiese:

“Come va? Stai bene?”
“Sì, sto bene Olivina!”
“Allora aiutami a raccogliere le carrube, che le dobbiamo rimettere nelle ceste!”

Raccogliemmo le carrube, e ce le rispartimmo metà e metà, alla buona. Poi io la presi per le asole e me la ricaricai sulla spalla. Quindi aiutai mia sorella Olivina a caricarsi la sua cesta. La sua veste era ancora lenta sul davanti e Olivina suo malgrado trascurò di riabbottonarsela, forse anche a causa del sole mattutino. Io da ingenuo, nonché perfetto ingrato, le toccai per un attimo il seno destro e mia sorella per tutta risposta fece partire un calcio che per poco non mi fece perdere di nuovo l’equilibrio. Mi guardò male, e mi venne paura che lo dicesse a papà. In tal caso mi avrebbe senza dubbio pesantemente punito. Invece non mi fece punire. Restò in silenzio. Dopo cinque piccoli carichi di carrube il nostro lavoro era finito in meno di un‘ora. In quell’ora Olivina mi tenne il muso. Volevo riappacificarmi con la mia sorellina e, dopo essere andato vicino a lei in un momento in cui nostro padre era impegnato con la falce, le diedi tre o quattro bacetti sulle guance. Olivina li gradì. Mi sorrise e mi mostrò di nuovo quel che poteva intravedersi del suo piccolo seno. Mi godetti quella vista, ma non volli ricascare nella tentazione per paura di un’altra sua arrabbiatura. Continuai a guardarlo; avrei voluto lisciarlo, baciarlo, succhiarlo, stringerlo, ma per timore di una sua reazione non osavo farlo. Turbato e paralizzato. Mi avvicinai fino ad una mano da lei e mia sorella per tutta risposta prese la mia nuca e avvicinò la mia testa al suo primo capezzolo disponibile: il sinistro. Un’occasione irripetibile: diedi prima un bacio, poi una succhiatina timida, e finii per assorbire tra le mie labbra tutto il suo capezzolo. Provai il piacere che della dolcezza della carne femminile: dolce, tiepida, morbida e liscia ovunque. Poi Olivina mi scostò all’indietro dicendomi:

“Ehi, sta arrivando papà, guarda! Ci ha visti!”

Mi voltai terrorizzato, divenni rosso in volto in pochissimi istanti, quando mi ero girato del tutto non c’era nessuno. Solo alte piante di grano dalle quali nessuna forma umana sembrava venire avanti. Tremavo, teso sul torso e con le gambe che non mi stavano reggendo. Forse, per un istante, credetti ad un calo di sangue nelle vene perché per quel lunghissimo istante mi sentii mancare vedendo grigio, poi respirando profondo per istinto sudai freddo, e alfine vidi più luce, e mi ripresi. Non ero in pericolo come credevo qualche angoscioso secondo addietro quando mi ero convinto che anche il cuore mi volesse lasciare. Sentii di nuovo il sangue nelle mie vene. Rivolgendomi verso Olivina vidi che non c’era più nemmeno lei. Era corsa via dopo avermi fatto un crudele scherzo. Dopo un minuto di errare tra quelle alte spighe la vidi che mi aspettava ridendo beffarda dietro le gambe di nostro padre: era praticamente immune da ogni mia reazione visto che reclamando giustizia mi sarei autoaccusato.

“Hai finito di oziare Toraldo?! Cosa credevi che te la cavavi con una passeggiata a mezza cesta?”
“Lascialo stare papà! Si vede che è uno sfaticato …”
“Ma…”
“Toraldo! Vieni qui! Mi devi aiutare con i rami secchi!”

La voce calma di mio padre, ignaro di quanto era accaduto tra noi due figli, finì di calmarmi e ricondurmi alla normalità. Compresi di più anche mia sorella. Olivina andò a sedersi su una pietra all’ombra di un fico mentre io e papà facevamo dei fasci con dei rami secchi perlopiù di legno di olivo. Nemmeno quei fasci di rami pesavano troppo; però erano lunghi. Nostro padre chiamò imperiosamente Olivina:

“Olivina! Vieni qui!”

Olivina venne pronta a eseguire gli ordini di papà:

“Piazzati accanto a Toraldo, stagli sempre accanto ! Forza!”

Olivina si piazzò accanto a me che già reggevo sulle spalle il primo fascio di legna secca; nostro padre me lo tolse e sistemò il carico tra noi due, di traverso, e ci disse di portarlo al carretto. Dovevamo trasportare circa tre fasci. Ero contento di quell’incombenza perché avrei potuto continuare a guardare le rotondità di Olivina. Mia sorella era alta poco meno di sei piedi. Aveva un bel seno bianco, con dei carnosi capezzoli. I suoi fianchi erano stretti. Magnifici erano i suoi capelli castani chiari quasi biondi con delle stupende trecce. Il suo viso molto regolare beneficiava di un bel paio di occhi verdi. Mentre camminavamo piano piano per non superarci tra di noi mi accorsi che il fascio di legno tremava da dentro, ma non per la nostra presa. Vidi un onda nera. Il mio istinto mi fece capire in un istante, e urlai ad Olivina:

“Buttalo! Buttalo avanti! Presto!”

Io stesso gettai avanti la mia parte di fascio, ed un secondo dopo anche mia sorella. Avevo capito qual era la ragione di quel tremore ondulato improvviso: una piccola serpe nera si era rifugiata dentro quella legna secca senza che noi due ne avesse contezza. Adesso, sfrattata dalle nostre movenze, cercava di allontanarsi da noi. Olivina rimase esterrefatta visto quanto eravamo stati vicini ad essa. Terrorizzata non osò più toccare quel fascio di legna secca. Io invece mi ero reso conto che il pericolo era cessato, e mi caricai da solo il fascio fino al carretto. Al ritorno andai da Olivina, e dopo averle messo affettuosamente la mano sulla spalla la baciai di nuovo e la riaccompagnai da nostro padre da bravo fratello. Dicemmo a papà della serpe nera e lui interessato, con la falce in mano, si asciugò la fronte sudata colla camisaccia da lavoro ed il braccio, e ci chiese:

“Sicuri ch’era nera?”
“Sì papà!”
“L’ho visto anch’io ch’era nera…”- Mi appoggiò Olivina:
“E che ha fatto dopo che avete gettato in terra la legna?”
“Scappata!”- Olivina disegnò le sinuosità delle movenze della serpe in aria col suo dito indice.
“Ma la testa era tonda, ovale o a triangolo? Tipo così?” - Papà ci fece il segno del triangolo con le dita.
“No era ovale, mi sembra!”
“Bravi ! Allora oggi avete imparato qualcosa!”
“Cosa padre?”
“Se è una vipera, e state attenti che vi uccide, la testa è a triangolo e non è mai nera! Grigia, verde, ma non nera! Lunga poco più di un braccio, ma non due! Quella, lunga e nera, era una biscia! Non vi avrebbe ucciso comunque! Capito?! Innocua e più spaventata di voi che siete più grossi di lei!”
“Sì papà abbiamo capito! Nero e testa tonda è biscia, e non uccide! Però è brutta!”

Nostro padre derise quella mia valutazione della bellezza o meno della serpe.

“E se è una vipera?”
“Se è una vipera … è verde, ha la testa così…” - Stavolta feci io il segno del triangolo con le dita. Papà non mi fece terminare. Io non conoscevo la risposta ed alla fine papà disse con sufficienza:

“Si scappa e si ringrazia Dio! Chiaro?!”
“Sì papà!”
“Al lavoro allora! Filate!”

I restanti fasci di legna secca me le caricai tutti io. Ero felice di sentirmi uomo davanti a mia sorella che si era spaventata. Lei si limitò a pungolare in più punti i fasci di legno onde controllare non ci fossero altri intrusi. Si spaventò per poi sorridere quando vide scappare una lucertolina. Alla fine del lavoro mi venne incontro e mi disse a bassa voce:

“Abbassati! Ora papà è andato alla cisterna e non ci vede!”
“E allora?!”
“Sei stato coraggioso! Vieni, guarda!”

Ci abbassammo tra le spighe di grano alte, Olivina scoprì tutto il suo seno e vi avvicinò la mia testa. Mi baciò sulle labbra un istante anche se a labbra chiuse e poi mi disse a bassa voce:

“Io di qui papà lo vedo prima quando torna verso di noi… ora inginocchiati!”

C’inginocchiammo entrambi, l’uno di fronte all’altra; Olivina avanzò col ginocchio verso di me di un passetto e mi offrì il suo piccolo seno:

“Ecco succhia finché vuoi! Tanto l’ho visto fare a mamma e papà! A lei piace. L’ho osservata. Quando ti faccio così col dito però, staccati e allontanati !”

Olivina mi aveva dato un affettuoso pizzicotto sulla guancia. Quello era il segnale che avrei dovuto staccarmi subito per dare a lei il tempo di riallacciarsi la veste sopra. Io dovevo solo allontanarmi di qualche passo e fingere di dover fare pipì. La pronta intelligenza di mia sorella Olivina era diabolica.

“Io dirò il tuo nome come se ti cerco, e tu fai finta di fare pipì. Io ti reggerò la bugia con lui fingendo che non ti trovo…se va tutto bene mi sentirai che dico: papà, è qui! Sta facendo la pipì… capito?!”
“Sì!”
“Allora, dai!”

Succhiavo quel suo dolce capezzolo, e le baciavo il seno senza dimenticare di poggiarvi sopra le guance: una delle sensazioni più belle che si possano provare. Il tempo all’inizio sospeso in quell’accoglimento era purtroppo volato. Mi scaldavo il viso col calore del suo seno innocente. Mi stavo godendo le dolcezze della pelle femminile di tiepido velluto del morbido seno di mia sorella unitamente ai suoi respiri e rantoli più profondi quando purtroppo sentii il fatidico pizzicotto.

“Ahnnnn! Ahnnnn!…come succhi fratello! Piano! Più piano! Sto qui! Con te!…Ahnnn! Ahnnnn!”
“Uhmmmff! Uhnnnnf! Ahnnnnf! Ahnnnf!”
“Ahnnnnn! Ehi ! Ahnnnn! Uhmmm! Sì! Ahnnnnn!”

All’improvviso nel volgere di un istante divenni molto contrariato; ecco il fatidico pizzicotto che volli ignorare continuando a succhiare; per cui di pizzicotti ce ne vollero due; poi mi staccai e mi allontanai di dieci passi, e voltatomi rispetto a Olivina, mi tirai fuori il pisello che si era anche ingrossato ed indurito per il turbamento. Ero proprio in imbarazzo. La pipì sembrava non voler uscire. Passarono secondi angosciosi, ma non era il caso: il preavviso di Olivina era stato dato prontamente. Fui rincuorato quando udii la voce di Olivina:

“Papà! Sta qui dietro che fa pipì! Eccolo…”

Mio padre per gentilezza non mi disturbò, e si limitò a dirmi:

“Quando hai finito vieni! Mi aiuterete tutti e due a cogliere un po’ di fichi, vi insegnerò io come si staccano dall’albero, che poi si torna a casa tutti, dai!”

Papà non trovò strano che Olivina avesse difficoltà a vedermi. Mia sorella fingeva, ma la sua statura era tale che poteva benissimo darsi che tra quelle alte spighe non potesse vedermi. Io invece ero slanciato, alto più di sette piedi, di buone spalle, e di capelli neri che mio padre mi comandava di portare corti. Se volevo potevo farmi crescere baffi e pizzo, ma la barba no; non prima dei 30 anni consigliò, meglio sarebbe dire comandò, il nostro Signor Barone nel darci “la sua benedizione”. Mio padre eseguiva senza mai contraddirlo. Tempo dopo io puntai sui baffi, ma non sul pizzo. Molti giorni dopo “quel giorno”, io e Olivina eravamo diventati più grandi, ed io ero contrariato. Quel pomeriggio, tornato a casa con il cesto carico, pranzai rapido dato che dopo l’ora quarta dovevo andare da don Grico de’ Greci, un giovane prete di 36 anni molto severo, tutto d’un pezzo (so io di cosa all‘inizio!) ch’era il mio precettore da sei anni prima. M’insegnò un po’ di teologia, poi a seguire il latino, il greco antico, e la matematica. Di lì a qualche anno mio padre aveva ottenuto per me suo primogenito, dopo anni di umiliazioni, risparmio e servilismo al suo nobile padrone, il posto di intendente per le finanze della nostra signorìa. Non vestivamo mai di lusso. I nostri genitori risparmiavano stretto. Mai un balocco. Don Grico m’insegnò a far di conto, ed a calcolare gli interessi. Avevo ancora un anno, o forse due di studi, poi avrei sostenuto l’esame. Mio padre avrebbe portato al nobile signore la somma che aveva messo da parte per me, ed io Toraldo sarei entrato a far parte della corte del buon Barone nostro signore e protettore. Dopo di che avrebbe atteso la vecchiaia sereno fino all’eterno riposo. Questi erano i sogni di nostro padre. Il diavolo però, già lo sapete, si mise di mezzo: quanto a me stesso feci del mio meglio (- o peggio, decidete voi!). Devo ammetterlo: ormai erano anni che spiavo mia madre a farle il bagno ogni due - tre settimane nella tinozza. Le faceva indossare lo stesso la camicia da notte da quando le erano cresciuti i peli alla passerina. Prima, quando non aveva i peli, glielo faceva nuda; talvolta lo facevano assieme, come era giusto. Papà mi sorprese più di una volta a spiarle dal giardino della nostra casa capanna. Satanasso, che ancora oggi non mi fanno conoscere, ci mise veramente la coda: mio padre non mi punì. Solo la prima volta un piccolo sganassone di striscio sopra la testa per farmi sloggiare dalla finestra dalla quale cercavo di fare capolino. La seconda volta che provai a spiare le intimità di Olivina, sapendo che avevo compiuto da tempo i 16 anni, ritenendomi ormai maturo per il sesso quello vero, mi portò all’inizio quasi per orecchie al carretto col nostro asinello, e dopo esser sortiti dalla corte, per strada, mi disse che mi avrebbe consegnato alle guardie ridendo. Facce truci; degli ignoranti capaci di tagliar di spada, imbaldanziti dal cimiero e dall’armatura, più che dall’arma. Arrestavano i vagabondi, battevano periodicamente le puttane sia con la frusta, che col loro (quasi sempre sporco) membro virile. A noi ragazzi ogni tanto raccontavano di qualche battaglia contro i turchi, della ruvidezza degli spagnoli di Carlo V, delle loro imprese con le puttane … menavano alquanto se sbagliavamo a domandare qualcosa, o a domandare troppo, peggio ancora a lasciar ascoltare tra di noi i troppo piccoli: li piccinni. Se ti rubavano qualcosa, e ti rivolgevi a loro, nell’immediato ti aiutavano, e se ti ritrovavano il mal tolto era meglio che facessi loro un regalino, o ti facevano problemi. Dei poveri morti di fame pure loro. Avevo imparato a conoscerli. Si comportavano bene solo in Chiesa o nei tribunali. Don Grico mi portava ogni tanto a veder qualche processo, tipo cause civili per debiti, o piccoli processi ad altrettanto piccoli delinquenti. Si mormorava che si prendessero soddisfazioni o sfoghi con i detenuti più cattivi. Alcuni di questi soldati di giustizia, i più generosi, o forse i giovani più ingenui, che poi venivano cacciati o assegnati alle spedizioni contro i turchi, avevano preso a ingravidare le condannate a morte per far loro guadagnare qualche anno fino ad una provvidenziale amnistia. Chissà. Tutti questi pensieri scorrevano rapidamente durante il tragitto fino alla piazza. Ero impaurito; e se era venuto a sapere dei miei “inizi” con Olivina ? … certo, inizi, ma inizi innocenti: piccole prese in mano del mio pisello, guardate privilegiate ai primi peli della sua fica; e a quella qualche carezza con le mani; non certo gli assaggi … una volta convinsi Olivina a farmela tutta la pippa; accettò per curiosità, dato che non aveva mai visto il seme liquido dei maschi; solo per questa curiosità aveva accettato di spipparmi sotto un albero in campagna da noi; in quell’occasione mi diede il permesso di toccarle le poppe, non la vulva. Provando sempre tenerezza per la mia amata sorella rispettai questo suo desiderio; ne ebbi in cambio la mia venuta sulla sua manina calda e gentile … ora da solo col mio severo padre sul carretto non osavo aprire bocca, e raggiunto il paese, a cento passi dalla piazza del mercato fermò il carretto, mi fece scendere, e dopo un rapido colloquio con una donna seduta al fresco che conoscevo di vista, mi portò nella spoglia casa di quest’ultima,la quale nomavasi donna Teresina, un donnone di 50 anni l’ultima volta che se li era contati, e colà mi disse di aspettare che sarebbe tornato con le guardie del Barone; sì, come no! Scemenze! Ma non potevo saperlo. Donna Sina, o la Sina come la chiamava mio padre mi disse:

“Signorino vieni qui che sei alquanto sporco …”
“Dite a me signora ?”
“No, al cugino del Barone!...muoviti avanti!”

Mi avvicinai impaurito a quella donna grassa con le mani grosse, che mi aspettava con un catino d’acqua, ed un pezzo di sapone. Appena la raggiunsi mi calò i pantaloni corti, che finirono a terra, e mi lavò la faccia e le orecchie; a gesti mi disse di lavarmi le mani; quindi riprese ad aprire bocca:

“Via le mani da lì, che son pulite … alzale su !”

Eseguii senza contraddire, e mi lavò senza troppe cerimonie le ascelle, la pancia, ed il pisello, e le palle più di tre volte; la seconda mi disse a gesti di scappellarlo onde lavare anche la cappella; poi sciacquatolo tutto mi asciugò con uno strofinaccio che sembrava pulito. Non cambiò l’acqua già saponata dalla faccia; asciugò e basta.

“Rialzati i pantaloni e aspetta lì!”- Mi indicò una sedia ed un tavolaccio di legno. C’era un piatto con una frisella al pomodoro ed un po’ di vino rosso nella caraffa di coccio davanti a me.

“Se hai fame mangia, che ti farà sicuramente bene … di vino non troppo, che poi dormi …”- Ne approfittai, e chiesi ingenuo tra un boccone e l’altro:
“Sapete quanto dovrò stare con le guardie signora?”- Rise senza rispondere. Me la mangiai tutta quella frisella, ricordo. Ah oggi invece … Cosa darei per bere ancora quel vino …

L’avrete capito anche voi, mio padre mi aveva fatto uno scherzo; dopo dieci minuti, credo almeno, di attesa venne una bella moretta di 20 anni circa di nome Cosimina, una delle figlie di donna Teresina, troia come la madre che, ormai grossa e con le tette sfatte, scopava con quelli più vecchi, o meno danarosi; mio padre però doveva aver pagato bene per me quella sera. Forse un bel ducato. Mai mi chiesi quanto costò quel mio battesimo particolare: Cosimina con tutta la sua giovinezza, e con quei suoi magnifici occhi neri, che davano la sensazione del caldo, era tutta nuda davanti a me. Due belle poppe sode ed una bella fica col pelo nerissimo. I suoi capelli erano boccoli neri e lunghi. Una bella femmina davanti alla quale mi calai i pantaloni e mi tolsi la camicia. Mi prese per mano e mi portò nella sua stanza, che era accanto alla stanza dell’ingresso dove ero stato ricevuto. Soltanto una tenda rosso scura separava le due stanze. Come entrammo la Sina chiuse la tenda dietro di noi. Cominciavo a godermi con gli occhi il bel culo di Cosimina quando lei stessa appoggiò lo spacco del culetto al mio pisello che cominciava a svegliarsi … mi invitò a strusciare la mazza di carne nel suo culo caldo, vellutato, e sodo. Mi ero scappellato il pisello per sentirlo quel velluto carnale, roseo, tondo ed invitante.

“Hnnnn, hnnnn, hnnnn … ti piace il mio culetto vero ? ”
“Huh … hnnn … hnnnn … sì, mi piace ed anche tanto … ancora … ancora …”
“Dai bel cazzone … uhmmm sì … lo sento che cresce … strusciati bene … come ti chiami … Ahnnnn !”- Le avevo afferrato le poppe e cominciavo a stringerle affamato. Il cazzo mi stava diventando duro. Cosimina mi invitò a baciarla ed a slinguarla sul collo. Eseguivo tosto.
“… allora …?”
“Toraldo … uhhhhh … mi chiamo Toraldo …”
“Fai Toraldo, fai … sìììì … toccami la fica, … uhhhh … ahnnn … frugami ! … afferrami … stringimi!... mi volto ? Così te lo prendo in bocca … me lo vuoi mettere in bocca Toraldo?”

La sua fica era meravigliosa. Già bagnata. Continuavo a massaggiargliela cercando di afferrarla e tenerla. Aveva una fica generosa. La prima che toccavo in vita mia; la toccavo tutta, ed in pieno. Continuavo a slinguarle il collo mentre mi godevo la novità ch’era quella fica tra le mie dita. Calore umano dal suo corpo, calore dal suo sesso, piacere sulle mie mani. Era un piccolo acconto del futuro paradiso? La fame che avevo di Cosimina aumentava a dismisura. Permisi a Cosimina di voltarsi, e lei mi mise a sedere sul letto, quindi si apprestò a farmi quel pompino. Andava avanti indietro con la sua bocca calda e salivosa. La sua lingua mi dava sensazioni mai neppure immaginate. Ogni tanto guardavo aprendo gli occhi e vedevo la sua testa boccoluta muoversi sotto di me. Cosimina era una maestra del bocchino che mescolava con delle tenerezze eseguite con il suo naso caldo che strusciava sulla mia cappella, poi sull’asta, e di nuovo sul prepuzio dove sentivo l’alito caldo di lei. Era amorevole quella Cosimina, anche se era stata soprattutto pagata per esserlo. Il fatidico momento stava arrivando; questione di pochi istanti; poi avrei penetrato la prima donna della mia vita … il pompino ebbe ahimé termine e Cosimina attese la mia penetrazione allargando le cosce ed indicandomi il buco rosa tra la folta peluria che poc’anzi io stesso avevo toccato. Entrai dentro di lei in un istante. Appena la cappella toccò le pareti della vagina sentii una sensazione di piacere ancora oggi indescrivibile. Sentire calura, prurito,umidità tutto in uno; era la cappella mia a mandarmi dentro quelle sensazioni di cui oggi posso solo avvertire il ricordo. Cosimina mi diceva continuamente di scopare:

“Dai scopa, ahnnn,… ahnnn, scopa !...scopa !... ahnnn, ahnnn, ahnnn… sì … dai …”
“Ahhh…ahhh…ahhhn…ahnnnn…”

Respiravo e battevo tosto. Il mio batacchio, con mia grande meraviglia, la sapeva suonare quella campana di carne calda. L’alito delle labbra di Cosimina lo sentivo sulle mie e subito gliele cercai per un bacio. Me lo ricambiò, ma non cercò la mia lingua, lì rimasi deluso. Pensai di nuovo alla sorella mia Olivina e a quella volta in cui me la fece vedere, odorare, assaggiare. Ora invece ne stavo scopando in pieno una. Il mio cazzone mi faceva percepire un paradiso tutto personale col cazzo e col corpo. Ero felice dentro di lei in quel lungo ed al tempo stesso breve “adesso”, come qualche tempo prima lo fui assaggiando la prima volta sulla lingua la fica di mia sorella Olivina. Cosimina si stava facendo scopare amorevolmente. Mi diede la possibilità di entrarle nel culo; anzi me lo chiese direttamente, per la sborrata che sarebbe arrivata presto, prestissimo. Il calore e la morbidezza piacevole del corpo di Cosimina diedero la carica alle mie palle. Cosimina con l’odore dei suoi boccoli neri freschi sulle mie nari, mentre le mettevo la lingua di lato sul collo mi disse:
“Dai esci…non posso farti sborrare dentro … se finisco incinta non posso più … ahnnnnn … lavorare …”

“Ancora un po’… ahnnn … ahnn ….”
Mi toccò le palle ultragonfie.
“Stai per sborrare ! Esci Toraldo !”

Uscii, e Cosimina, prima che me ne pentissi e le rientrassi dentro, nel volgere di pochi istanti si mise alla pecorina aprendo le natiche, e dilatandosi l’ano.

“Dai entra dietro che sborri… su…dai che vieni così sennò…”

Non ci pensai due volte e feci pressione con la mia cappella gonfia in quell’ano che “me la prese in consegna” con un’amorevole stretta. Istintivamente iniziai ad avanzare un po’ goffo. Cosimina non se ne curava. Lo aveva fatto molte altre volte e chissà con chi la prima volta o con quante altre persone quel giorno.

“Ahi … ahi… dai Toraldo,… schizza … spingi che vieni …”

Tirai quattro colpi con forza nonostante la mia cappella non la vedessi più, con Cosimina che assecondava le mie spinte; come presi a stringerle i seni per incastrare meglio e più intimamente il nostro coito contro natura, e mentre mi chiedevo cosa sentissi dentro quel culo, le venni dentro. Raggiunsi il mio primo orgasmo pieno. Le lasciai dentro il mio seme in cospicua parte. Anche la voglia ormai soddisfatta mi stava facendo scemare l’animo. Sentivo che Cosimina, benché ancora congiunta con me, cominciava ad essere distante. Poco a poco mi convincevo che di quel seme che adesso accoglieva a Cosimina gliene sarebbe tosto fregato molto poco. Per drizzarmelo era stata dolce, gentile ed amorevole; ottenuto per me l’orgasmo dopo aver prestato il suo bel corpo, i modi di Cosimina si affievolirono, di pari passo con i miei. Cosimina fu la prima donna dentro il corpo della quale potei venire pieno. Con Olivina la prima volta che me la diede mai pensai di darle il seme dentro il suo giovane ventre. La prima volta mi sarebbe sembrato troppo. L’orgasmo dentro Cosimina mi deluse. Avrei voluto sentire la sua caldissima fica di pochi istanti prima, non il suo tiepido culetto ancorché molto bello a vedersi. Con Olivina era stato molto diverso. Infatti mi stavo rivestendo e non mi ero accorto che Cosimina se ne era andata dopo avermi salutato con un sorriso ed un bacio era tosto sparita. Tornai in cucina e mi sedetti sul tavolo. Chiesi ed ottenni un’altra frisella col pomodoro. Non mi venne rifiutata, ma il vino lo dovetti chiedere espressamente. La Sina fu avara col vino; me ne diede pochissimo. Meno di un bicchiere; ma era piccola anche la seconda frisa. Mentre mangiavo ripensavo a due mesi addietro quando una mattina di maggio gli amici mi avevano detto che in piazza c’era il patibolo montato. Era passato pure l’araldo del Barone a dire al popolino che in nome di Sua Maestà Carlo V, Sacro Romano Imperatore, sarebbe stata resa al popolo giustizia dopo la cattura di un periglioso, e mai pentito brigante che terrorizzava da qualche anno le nostre campagne; dovevamo accorrere tutti in piazza e avremmo assistito all’impiccagione del malcapitato. Ma a me non interessava, anzi mi angosciava, e potete immaginare la mia sorpresa al momento in cui don Grico passò a prendermi di persona per portarmi a vedere un’esecuzione in pubblico per impiccagione ed una condanna di un altro, un ubriacone, a quaranta frustate per aver molestato donne in stato di ubriachezza. Era la quarta volta, e non si poteva soprassedere mi venne spiegato per sommi capi dal mio precettore. Don Grico mi fece assistere ad ogni nerbata senza permettere che mi distraessi neppure per un istante … poi venne il momento che più angoscia mi dava: quello di impiccare un uomo di trenta anni, un tale Polo, non ricordo ancor oggi il nome, --forse Marco ?... - per brigantaggio nelle terre del Barone. Il disgraziato, magro come i chiodi, aveva aspettato in piedi con delle umili vesti lacere, sporco, con la barba incolta, ridendo di quelle frustate, e legato con le mani dietro la schiena. Il suo viso piccolo gli deformava il volto quando rideva. Vidi l’aiuto del boia, un ragazzo rapato di fresco ai capelli di una ventina di anni, dargli un bicchiere di liquore, credo drogato, aiutandolo a mandarlo giù visto che era legato. Serviva a stordirlo almeno un po’ ci venne confidato dai soldati tempo prima. Il nostro signor Barone era generoso: nel suo feudo non si facevano soffrire li condannati a morte. Che fosse rogo, ruota, forca, o taglio della testa il boia, un buon uomo il cui nome voglio risparmiare, cercava sempre di stordire un po’ la vittima con una certa, ma invero non totale narcosi. Si stava giustiziando un brigante in nome di Carlo V. Feci in tempo a vedere come diventò rosso per il liquore. Purtroppo nessuno pensò a legargli i piedi. Egli però rassegnato ed indifferente rimase calmo, mentre lo accompagnavano fino alla botola fatale. Rifiutò la benda guardando a vuoto, fisso il nostro cielo nuvoloso. Un monaco cappuccino gli si avvicinò, e gli fece baciare un Crocifisso che recava seco. Il boia, lungi dall’essere una persona truce era un distinto cinquantenne in un sobrio abito nero senza troppi ricami, quasi calvo con i restanti capelli grigi, dai modi aggraziati se non gentili, gli mise con calma il cappio al collo stringendo bene il nodo scorsoio, - mi batteva il cuore e mi si stava drizzando il pisello … - e dopo avergli chiesto se aveva qualcosa da dire, davanti alla silenziosa risposta negativa del Polo, senza aspettare inutilmente oltre, indietreggiò di mezzo metro urtando apposta col suo culo e con il calcagno del piede sinistro una leva di legno posta dietro di lui. Avendo il boia le mani libere si tolse il cappello davanti al condannato e la botola si aprì, ed il legno gli mancò sotto i piedi. Il corpo di quel disgraziato cadde rapido, e penzolò subito scalciando sei o sette volte a due braccia dal suolo, prima di chiudere i suoi occhi, invero indescrivibili, già in sofferenza. Quel coglione dell’aiuto del boia, certo nuovo del mestiere, non scese sotto il patibolo a tirargli i piedi. Almeno avrebbe spezzato il collo ponendo fine a quella schifosa agonia. Ed invece no. Dovetti assistere senza poter voltare lo sguardo. Se avessi tentato di farlo Don Grico me lo avrebbe bruscamente impedito. Le persone presenti, una ventina di età le più varie, nulla ebbero da dire; tutti, me compreso, a farsi il segno della croce … nessuno abbassò lo sguardo nell’istante supremo. Solo il monaco sembrava crederci nel pregare leggendo il suo breviario. Don Grico mi diede uno schiaffo, visto che cercavo di non guardare lo strangolamento di quell’uomo con il suo stesso peso appeso alla corda. Poi alla fine, quando presumibilmente l’esecutato morì, don Grico, di ritorno verso casa, mi disse:

“Per oggi niente studio. Torniamo a casa, e al vespro voglio vederti a messa. Pregheremo per l’anima di quel … giustiziato !”
“Ma era … un brigante !...no?!”
“Era solo un povero diavolo! Ma questa è la fine che fanno … tienilo sempre a mente !”
“Pregheremo per lui allora ?”
“Certo è un dovere cristiano. Dio l’ha perdonato, e noi pregheremo per lui.”
“… è già arrivato in paradiso ?”
Non mi rispose niente; dopo qualche istante mi disse:
“… cerca di non mancare !”

Quel giorno pranzai taciturno; non riuscivo a spiegarmi la drizzata del cazzo in quel fatidico momento; di chi era la colpa di quelle turbanti scene?... forse mio padre si era messo d’accordo con don Grico ?… comunque alle sei sarei dovuto andare a messa. Mi gettai sul letto quando, dormendo nostra madre per il pomeriggio, mia sorella Olivina venne a trovarmi sul letto, e mi condusse in giardino visto che non voleva andarci sola. E lì il diavolo, nascosto tra di noi, mise la coda come vi dissi all’inizio. Era vestita, in casa, di una sola bianca e sottil veste di cotone. Coi raggi di sole giusti potevo vederle le rotondità e lo spacco delle natiche. Al petto portava all’altezza del seno un laccetto che avrebbe dovuto chiudere la veste secondo le regole della buona creanza. La veste arrivava alle ginocchia lasciando vedere le sue bianche gambette. Il bianco della veste faceva risaltare i suoi boccoli castani. Mia sorella mi condusse sotto l’albero di limoni per chiedermi:

“Fratello ditemi su … cosa avete fatto quest’oggi ? A pranzo eravate taciturno alquanto …”
“Vedete Olivina, sono pieno di tristezza oggi. Don Grico mi portò ad un’esecuzione capitale …”
“Ah il brigante!... ho udito la mamma parlarne con la vicina … ditemi ancora fratello … com’era quel brigante ?”
“Brigante dite …?...a me sembrò piuttosto un disgraziato.”
“Le mie amiche dicono tutte ch’era un uomo di gran cattiveria … avrei voluto vederlo morire, ma nostra madre non me lo ha permesso … beato voi mio Toraldo !”
“Ma cosa dite Olivina ? Siete dunque così stupida ?... è tanto orribile assistere ad un’esecuzione ! Ben ve ne incolse a non poter venire alla piazza …”
“Dite ?...”
“Dico. Ma per quale ragione volevate parlarmi Olivina?”
“Potreste mostrarmi come morì il brigante ? Ve ne prego fratello … fatelo!”
“La sua testa venne tirata dalla caduta quando la botola si aprì,… ma non morì subito … non credo che potrò dimenticare i suoi occhi quando il nodo si strinse … siano maledetti i patiboli ! Il carcere a vita sarebbe meglio… sull’onore mio Olivina, lo giuro !”
“Si strinse sulla gola …? E la lingua uscì fratello Toraldo?”
“Siete petulante alquanto Olivina!”

La morbosità di Olivina mi stava sorprendendo. Non sapevo cosa risponderle. La guardai silente. Olivina prese ancora a domandare insistente ed interessata.

“… mi fareste il verso del viso del brigante ?”

Eh sì … mia sorella stava diventando morbosa -e consentitemi il gioco di parole voi che vivete nella modernità … era anche formosa … - ; avrei dovuto andarmene sdegnato, ma mi venne in mente la diabolica idea di scambiare cosa contro prezzo, visto che Don Grico mi aveva insegnato i rudimenti dell’economia del piccolo scambio. La guardai in silenzio un buon minuto, credo, poi le posi la mia richiesta:

“Olivina … se io vi faccio l’imitazione della morte di quel poveretto … voi mi dareste a prestito qualcosa che è solo vostro?”
“Cosa mai dovrei darvi fratello Toraldo?”
“Il vostro fiore sorella …”
“Il mio … fiore ?”
Le indicai cosa volevo dirigendo lo sguardo verso la sua veste in basso … Olivina capì prontamente. Mi guardò, non disse alcunché per diversi istanti poi disse:
“Nostra madre mi disse che non devo mai mostrarvelo il fiore, visto che ora ha la sua peluria … sarebbe peccato mortale fratello Toraldo …”
“Peccato è anche incuriosirsi della morte altrui … di quel momento ognun dovrebbe tener rispetto … pensate che questo pomeriggio sono atteso in chiesa da Don Grico. Pregheremo per quel povero brigante …”
“Non è lo stesso peccato fratello.”
“Pensate Olivina ! In quei momenti ebbi dell’eccitazione …”
“Allora vi eccitaste fratello … vi stava crescendo ? Diventava duro ?”
“Sì senza dubbio veruno cara Olivina.”

Olivina si mise le mani sui fianchi restando in silenzio un pochino e forse senza avvedersene aveva un po’ sollevato la veste mostrandomi le bianche gambette sue sotto le ginocchia. Poi decisa mi disse:

“Fratello fatemi l’imitazione, la più seria possibile ! Vi pagherò quanto chiedete! Vi aggradate di precisar meglio?”
“Allora mi date la vostra parola!”
“Se voi mi dite cosa volete …”
“Guardarvi ed assaggiarvi il vostro fiore Olivina, … non entrerò dentro di voi per non togliervi la virtù … lo so che siete promessa …”
“Fatemi l’imitazione acciocché io possa raccontarlo alle amiche mie coetanee …”
“Dopo me la farete vedere e … assaporar di sola lingua. Mi serve dolcezza. Promettete Olivina!”
Olivina mi guardò fisso senza parlare per pochi istanti, poi mi disse:
“Promesso. Avrete la vostra dolcezza che dovrà toccare anche me … ma farete piano con le labbra e con la lingua. E non lo direte agli amici vostri. Promettete a vostra volta !”
“Ve lo prometto Olivina!”

Gli raccontai come venne preparato e portato sul patibolo montato in piazza. Mi appesi al ramo più vcino col braccio destro dopo aver detto a Olivina di portare sotto di me una cassa di legno che possedevamo e di piazzarla sotto i piedi miei. Poi dando un calcio alla cassetta finsi di cadere nel vuoto ed imitai le smorfie dell’agonia del condannato. Cercai di gonfiare gli occhi ed imitai alla perfezione i boccheggi con la lingua. Movendo opportunamente il collo diedi gli stessi calci a vuoto che vidi dare al condannato nei suoi ultimi istanti poi mossi la testa un paio di volte e restai fermo un minuto buono forse, appeso al mio braccio. Tenni anche gli occhi fissi per un tempo che Olivina poté apprezzare come lungo, fino a spaventare mia sorella che assistette e gemette un pochino cercando di capire cosa aveva passato quell’uomo. Poi il mio teatro ebbe fine. Passai a riscuotere saltando giù dall’albero. Prima mi guardai intorno per aver certezza che nessuno di famiglia guardasse verso il giardino; poi mi piazzai di fronte ad Olivina. Mi chiese di restare ad un passo che avrebbe tosto alzato la veste a mò di gonna. Tenne fede alla promessa: mentre il sole all’imbrunire scaldava poco tiepidamente il suo corpo ben giovane ebbi la magnifica visione del suo pube peloso. Una macchia di pelo castano in mezzo alle sue rosee coscette. Iniziai ad avvicinarmi per farle l’assaggio gentilmente piano piano. Olivina tremava in maniera percettibile; ma sarebbe rimasta una femmina di parola. Attendeva a sguardo fermo la mia ovvia presa. Le afferrai le natiche di scatto, e schiacciai il mio viso tra il naso e le labbra, contro la sua passerina. Iniziai a respirarne gli odori caldi promananti da quella conchiglietta di carne. Il pelo mi irritava le nari. Baciai ciò che percepivo istante per istante. Mia sorella tremava, ma ero io a reggerla. Mollò eccitata la presa sulla bianca veste di cotone, che cadde sopra di me già in ginocchio sotto di lei, coprendomi del tutto. Campo libero allora ! Potevo restare. Schiusi le labbra, e feci uscire la lingua perché avevo tanto disìo di quelle carni calde e brodoline che mi avevano stregato poc’anzi. La leccai abbondante facendo la lingua scorrere attraverso lo spacco fino al clito, rapidamente avanti e indietro sempre a lingua piena e leggera per non indurle del male … pensate se avesse urlato … Olivina gemeva tutta ed era sempre più calda in tutto il bacino. Non sentivo un sapor particolare, piuttosto tanti, somiglianti a ciò che conoscevo, ma che non riuscivo a definire: per un istante mi sembrò di assaporar cicoria, ed un altro momento carota (tanto dolce era la sua vulva), e all’improvviso pesce. Anche la sorella mia Olivina doveva essere a disagio per la nuova sensazione, perché le natiche cominciavano a sudarle; o erano piuttosto le mani mie … ? Non potevo penetrarla. Cionondimeno la mia cappella era ormai durissima, e sbatteva contro i pantaloni. Dovetti liberare una natica, e con la destra e prendere a toccarmi il pisello ormai duro come potevo. Dovetti fare non poco sforzo di mente per non penetrarla. Olivina aveva intuito. Continuava a gemere per eccitarmi, e tosto che me lo smanettai sette, dieci, quindici volte forse, alfine venni. Leccavo la sua passera in ginocchio, e le lasciai il seme tra le gambette sotto il ginocchio perché lì ero venuto a schizzare copioso per via della posizione. Non le sporcai il suo giovane sesso se non con la saliva mia. Mia sorella a tratti era anche generosa; mi rendevo conto di aver ottenuto anche troppo. Ogni pollice del corpo di Olivina era per me prezioso. Lei non disse nulla. Accettò la cosa. Le gambe gliele avevo fuor di dubbio sporcate. Temevo che la cosa l’avrebbe fatta staccare, per cui tornai a prenderle le natiche ignorando le ultime goccette del pisello.

“mmmhhhnn … mmmm … mmmm”

Leccavo, leccavo …

“mmhmmmm … ahnn …. Mmm”

Sentivo che si era bagnata, e non tanto per la mia saliva che pur v’era in buona copia, quanto per la mia presa maschia, decisa e padrona. Un amico mi disse una volta parlando di femmine che tra il culo e la fica v’era un passo di formica. Ma sì pensai … -“quando mi ricapita!”- feci scorrere la lingua anche in basso per umettarle l’inguine caldo assai diverse volte. La voltai protetto dalla sua bianca veste abbondante, e cercai il suo ano con la lingua. Lei non frappose resistenza ed accomodò come poté le mie movenze. Quando sentii un saporino dolciastro capii ch’ero arrivato. La mia lingua era divenuta un’ispecie di cazzetto che scavava tra le carni intime della propria sorella. Le sue chiappette carezzavano calde dolcemente le mie guance rosse bollenti. Potei proseguire dei minuti fin quando le campane del paese non suonarono talmente forte nel dare il rintocco dell’ora quarta, che nostra madre si sarebbe presto destata dal sonno pomeridiano. Olivina, ben conoscendo le abitudini di nostra madre, si voltò e dopo avermi schiacciato il suo fior di fica sulla mia bocca un’ultima volta respirò sbuffando un tantino, e mi disse:

“Ahnnnn… ahmmm, … ohh … uhmfff … ahnnnn!....Date l’ultima leccata …. uhmmmmff! ... ahnnn,… che debbo lasciarvi tosto …”
“Sì …. uhmmmmm, ancora un attimo !”
“Presto Toraldo ! Potremmo venir visti !”

Feci in tempo a darne cinque a quella vulva incandescente, ed a sentire sulla lingua mia i suoi salati sapori caldi che si raffreddavano al contatto con la bocca mia, per colarmi poi a rigagnolo sotto il mento. Ero felice. Avevo tosto conosciuto la dolce carnalità amorosa di Olivina che si liberò di me, ancora incantato, e corse in casa, mentre io rimasi steso sul pavimento di pietra del nostro giardino cercando di assaporare ancora almeno il ricordo di quelle umidità proibite che … ormai il cielo era scuretto e c’era ben altra umidità. Mia sorella Olivina era corsa ad assistere nostra madre; io avevo qualche ora di tempo, poi sarei dovuto andare a messa. Ero deciso a non prendere la Comunione dopo quello che era successo … tantomeno mi sarei confessato. Quella cosa era un segreto tra me ed Olivina e nessun altro. Neppure l’Altissimo doveva entrarci. Alle cinque a sole quasi tramontato m’incamminai verso la Chiesa Madre. Arrivai puntuale. Don Grico vedendomi sporco in faccia mi mandò a lavarmi il viso nella tinozza del cortile interno. In quel mio viso sporco c’era ciò che restava degli umori di Olivina. Un po’ mi dispiacque. Fui pronto per la funzione. Durante di essa feci quello che mi diceva don Grico senza curarmi d’altro. Poi dopo la messa alla quale parteciparono altre dieci persone, una volta congedatele, don Grico mi chiese di restare ad aspettarlo in sagrestia. Andai. Don Grico arrivò:

“A cosa pensavi durante la messa Toraldo? Mi sembrava che fossi più interessato alla Luna …”
“Forse era per stamattina …”- Avevo mentito: era per stamattina, ma anche per qualche ora prima!...
“Toraldo devi crescere ! Quello che oggi è capitato a quel disgraziato… domani chissà … se capitasse a te?”
“A me ?... mica devo fare il brigante io …”
“Tu sei nato da un padre ed una madre che lavorano,… son timorati di Dio,… lui l’impiccato questa buona sorte che hai avuto tu non la ebbe ad avere. Anche le schiave di tuo padre mi hanno riferito di come sono trattate bene da lui … non proprio un secondo padre ma poco ci mancava…”
“Ma l’impiccato … ?...Che sorte ebbe allora ?”
“Era figlio di nessuno; mica la vita è tutta rose e fiori ! Che ti credi ? Rifletti su queste cose prima di andare a dormire … dì, hai fame ?”

Era andato verso la credenza e ne prese due piatti con una forma di cacio. Ne tagliò tre fettine, e me le favorì insieme ad un tozzo di pane. Le stesse tagliò per lui. Prese anche un po’ di vino visto che ero grandicello,… ma giovane!, - e lo allungò con acqua. Dopo quel breve desinare, amichevole mi disse:

“Domani ti porterò nell’intendenza del Barone … al castello!”
“Intendenza …?!”
“Il posto dove gli agenti delle tasse del barone fanno il loro lavoro; ho preso già accordi: vedrai come si pagano i balzelli. Tra un po’ di anni anche tu farai lo stesso travaglio se Dio vorrà, e il barone naturalmente … tua sorella Olivina come sta ? ”
“Sta bene e vi saluta reverendo padre!”
“Sei un bravo fratello ? La proteggi ?”
“Sì reverendissimo!”

“Allora non raccontarle mai cosa ti ho fatto vedere oggi. Non era spettacolo da donne !”

C’era saggezza nelle parole di don Grico? Chissà … secondo me non era nemmeno spettacolo da uomini. Ch’egli tenesse veramente alla persona mia ? All’epoca lo ignoravo … finché una volta vidi una donna dalle forme e dai vestiti familiari sulla quarantina coperta da un ampio fazzoletto andare a trovare il mio precettore nella casa che questi divideva con la propria madre finché fu viva. Tuttavia quella donna era morta da poco, così pensai che la donna, che aveva un aspetto a me quasi familiare, si fosse recata da lui per le condoglianze d’uso. La vidi entrare nel vicolo, quindi in una piccola corte, poi alla fine Don Grico le aprì la porta. La mia curiosità mi fece capire che uomo tranquillo o meglio moderno dovette essere il padre mio. Spiando dalla finestra della corte vidi quella donna togliersi il fazzoletto che copriva il capo, e sciogliersi i capelli davanti al mio precettore che sorrideva felice. La conoscevo bene perché era nientemeno che mia madre. Ma allora ? … quale lutto ?! Decisi di saperne di più, ma non potevo entrare dalla porta. Così all’improvviso decisi di entrare alla guisa dei ladri nella casa del vicino , che a quell’ora era in campagna, avvedendomi che non ci fosse nessuno a sbarrarmi la strada, mi sarei diretto verso la terrazza. Dapprima bussai, e vidi che nessuno veniva ad aprire. Se ci fosse stato qualcuno avrei con una scusa chiesto di potermi recare in terrazza. Provai a spingere la porta di legno e potei vedere che si muoveva. Del resto quell’uscio non sembrava avesse la serratura. Io almeno non la notai. Bussai la seconda volta, ed attesi dei lunghi istanti, non venne ancora nessuno. A quel punto, armatomi di coraggio, provai a sgattaiolare all’interno in cerca dell’ertu; cioè il giardino: non mi soffermai a valutare l’umiltà degli arredi di quella casa, perché vedendo la luce proveniente dall’esterno mi diressi di corsa verso il giardino. Cazzo, no! Mi fermai in tempo! C’era un piccolo orto coltivato con la terra umida appiattita dall’ultima pioggia. Se ci avessi camminato sopra le mie non erano certo le impronte di un gatto! Camminai allora raso muro sporcandomi le vesti della malta di cui era intonacato. Raggiunte le scale di pietra che portavano in terrazza mi apprestai a salire alla svelta e giunto che fui sulla terrazza venni sorpreso da un piccolo cane di razza comune dal colore del legno. Abbaiò contro di me provocandomi dello spavento. Impietrito guardai il cane negli occhi e per fortuna vidi che non mi ringhiava; tuttavia vidi che ci teneva a farmi sapere che mi aveva visto. Provai ad avanzare ed il cane abbaiò di nuovo. Nessuno si curava dei suoi abbai. Camminai lentamente di lato al cane che mi seguiva passo passo; cercavo di tenermelo di fronte finché non raggiunsi il parapetto che separava la terrazza in cui ero da quella di Don Grico. Fortuna che il parapetto era basso. Il cane mi stava abbaiando ancora contro. Presi la decisione: ignorai il cane e provai a saltare il parapetto facendo forza con le braccia. Il primo tentativo andò a vuoto, e quel cane cercò di mozzicarmi alla caviglia più vicina a lui; riuscì solo a ferirmela perché la mia pronta reazione, fallito il primo salto, lo allontanò. Gli tirai un calcio con l’altra gamba colpendolo sotto al muso, forse al suo piccolo petto. Il cane arretrò di un metro, e ritentai il salto riuscendo dopo un secondo ad appiattirmi prono sul parapetto di confine. Affannavo, ma ero salvo anche se mi usciva un po’ di sangue. Il cane continuò ad abbaiare anche se noi due al resto della contrada non interessavamo. Lì in terrazza mi trovai finalmente sopra la casa di Don Grico. Dovevo solo aspettare qualche momento per riprendere fiato e scendere dabbasso a spiare. Non so quanti minuti aspettai; poi però volli provare a scendere in giardino. Speravo che nemmeno Don Grico avesse dei cani. No, fortunatamente non ne aveva. Ma ecco che all’improvviso dovetti trasalire la seconda volta:

“Cra-cra! Cra-cra! Cra-craaaaaaaaaaaaa!”

Curiosamente non appena discesi le sue scale di tufo chiaro un corvo nero mi passò sopra la testa gracchiando rumorosamente. Meno male che Don Grico aveva di meglio da fare che preoccuparsi di un corvo che avrebbe potuto entrargli in casa al pari di me.

“Sciò! Sciò! E va al diavolo! Sciò”

Mi sentivo abbastanza impotente dato che gesticolavo per mandarlo via sussurrando onde non farmi scoprire. Nel frattempo, allontanatosi finalmente il corvo, alle mie orecchie giunsero delle voci come rantoli, respiri, sospiri; tutti dal tono femminile. Anche quella voce mi era - ahimé! - molto, molto familiare accampagnata da rumori inequivocabili.
In punta di piedi finalmente entrai in casa, e vidi la madre mia con la pancia appoggiata al letto, e la gonna rimboccata sulla vita, aspettare a culo scoperto che al mio precettore venisse l’uccello grosso e duro . Erano nella seconda stanza di quella umile casa in cui abitava il mio aio. Era la camera da letto. Don Grico amava dormire comodo. Il letto era ampio. La stanza era troppo di lato rispetto al giardino, anche se da un lucernaio che dava sulla strada entrava un po’ di luce. Don Grico però aveva un certo gusto. Doveva aver acceso lo stesso due candelabri che di luce ne facevano poca tuttavia “scaldavano” l’ambiente. Era il suo modo di far capire all’ospite che era contento della sua presenza. Un umile ritratto in cornice di legno povero della Vergine Maria sembrava proteggere altrochè quella spoglia stanza, ma avrebbe dovuto ignorare i due presenti: una madre adultera, ed un prete che troppo casto non era. Mah da quello che potei vedere facendo capolino dalla porta con passo leggerissimo il soggetto di quel ritratto non guardava verso i due trescanti; io invece sì: Don Grico metteva le mani un po’ dappertutto tra le cosce, la fessa, e le natiche di mia madre. Sapevo di quelle esplorazioni: lo sapevo perché da bambino nelle stalle del Barone usavo spiare il padre mio nudo sotto la camicia mentre si congiungeva con una di quelle magnifiche negre alte che il Barone comprava di anno in anno; giovani e ben piazzate sotto i trent’anni te le vendevano a 120-150 ducati … quelle sveltine durante le pause di lavoro erano una sorta di plus che il Barone consentiva al padre mio ogni tanto, purché non lo dicesse in giro. Ovvio che se erano vergini, cosa non rara tra le schiave catturate in Affrica o in Oriente, “passavano prima dal nostro signor Barone” che doveva averne ingravidate almeno quattro durante i miei verdi anni dato che Cristiano, Matteo, Pedro, e Barnabito, miei coetanei e compagni di giochi, erano di carnagione abbastanza scura. Il mio amico Pedro era per metà indio, perché sua madre era un’india del Brasile … e ora vedevo per la primiera volta mia madre nella posizione cui usavano mettersi le schiave che non portando mutande sotto la gonna si limitavano ad alzarla a richiesta del maschio che le dominava … pochi convenevoli, e dentro subito. Ad alcune credo non dispiacesse ricavare in mezzo a tanta monotonia qualche chiavata spontanea, come una sorta di piacere inaspettato. In fondo qui da noi erano ben nutrite e protette … era raro doverle battere per punizione. Mia madre in quella posizione mi faceva uno strano effetto: lo strano era che … sì … non vedevo l’ora che Don Grico se la prendesse. A ripensare alle negre, a mio padre, e al Barone che se le facevano, mi si era drizzato di brutto. Facevo peccato a star lì, ma volevo assistere. Ebbi la visione che la mente mia chiedeva: Don Grico che assaggiava da cagnolino la fica pelosa della madre mia da dietro, e poi staccata la bocca da quella sua carnale apertura usava strusciare il pisello che si ingrossava ad ogni struscio di più. Continui sfregamenti con mia madre che socchiudeva le palpebre ad ogni contatto dei bacini oppure quando presa decisamente per i fianchi. Da fuori la loro porta avevo preso a farmi sega, ma poco. Di lì a poco avrebbero di sicuro iniziato. Don Grico si muoveva. Anche io, in fondo desideravo penetrarla, ma non potevo. La mia mano destra scappellò per esaltazione decisa il glande, ma nessuna femmina me l’avrebbe preso in bocca o comunque dentro. Solo il “casto” Don Grico stava bene in quel momento.


- continua -





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