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Deborah l'inizio Atto 1


11.05.2025 |
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"Crollai sul materasso, tremante, il corpo dolorante ma vivo, il culo pulsante, pieno, usato..."
Ero Stefano, una volta. Un ragazzo di 14 anni, magro, con i capelli castani un po’ troppo lunghi e un segreto che mi consumava dentro, come una fiamma che non si spegne mai. Vivevo con i miei zii, Franco e Carla, e mio cugino Matteo, in una casa alla periferia di Milano, in una di quelle zone grigie della provincia dove le villette si mescolano ai capannoni e l’aria sa di asfalto e sogni sbiaditi. Era il 1997, e il mondo sembrava fermo, intrappolato tra le canzoni pop alla radio e il ronzio del televisore sempre acceso. Non so quando sia iniziato, ma da sempre sentivo qualcosa di diverso, un bisogno che non riuscivo a spiegare. Non era curiosità: era una fame, un desiderio che mi spingeva a cercare qualcosa di vero, qualcosa che mi facesse sentire vivo.A 14 anni, frugando nel cassetto della zia Carla, trovai un paio di calze nere, velate, con un luccichio che catturava la luce. Le indossai di nascosto, chiuso in bagno, con il cuore che mi batteva così forte da sembrare sul punto di esplodere. Mi guardai allo specchio, le gambe avvolte da quel tessuto morbido, e per la prima volta mi sentii potente, sensuale, come se il mio corpo finalmente parlasse la lingua che avevo sempre represso. Non ero più Stefano: ero qualcosa di più, qualcosa di vero. Ne andai fiero, anche se non lo dissi a nessuno. Quella sensazione mi accompagnò negli anni, crescendo come un’ossessione. Rubavo momenti di libertà quando la casa era vuota: mutandine di pizzo dal cesto della biancheria, un rossetto rosso dalla borsa di Carla, una gonna che indossavo di notte, quando tutti dormivano. Ogni volta che mi trasformavo, sentivo una donna dentro di me che voleva uscire, una donna che non aveva paura di essere desiderata.
Mio cugino Matteo, più grande di me di 14 anni, aveva 30 anni quando io ne avevo 14. Era un uomo fatto, alto, muscoloso, con un sorriso da stronzo che faceva girare la testa alle donne. Lavorava come meccanico, sempre con le mani sporche di grasso, ma aveva un fascino rude, il tipo che non chiede permesso. Mi guardava spesso, con occhi che sembravano vedere attraverso di me, come se sapesse del mio segreto. Non disse mai nulla, non all’inizio, ma il suo sguardo mi faceva tremare, un misto di paura ed eccitazione. Io continuai a sperimentare, a piccoli passi, costruendo il mio mondo nascosto. A 16 anni, vivevo ancora con gli zii, ma ormai avevo un guardaroba segreto: tacchi alti comprati online, una parrucca bionda che mi faceva sentire come una diva, lingerie di seta che accarezzava la mia pelle. Mi chiudevo in camera e diventavo lei, la donna che sognavo di essere. La chiamavo Deborah, un nome che mi faceva vibrare, che sembrava contenere tutto ciò che volevo essere.
Un giorno, però, il mio segreto smise di essere solo mio. Ero in camera, con una gonna corta di pelle nera, calze a rete e la parrucca bionda. Provavo un paio di tacchi rossi, muovendomi davanti allo specchio, quando la porta si aprì senza preavviso. Matteo era lì, fermo sulla soglia, con un ghigno che non prometteva niente di buono. “Che cazzo fai, Stefano?” disse, ma il suo tono non era arrabbiato. Aveva un luccichio negli occhi, qualcosa di predatorio. Mi paralizzai, il cuore in gola, incapace di parlare. Lui chiuse la porta dietro di sé e si avvicinò, lento, come un lupo che ha fiutato la preda. “Ti piace, eh? Vestirti da troia.”
Non so cosa mi prese. Forse la vergogna, forse il desiderio di non nascondermi più. Mormorai solo: “Sì.” Matteo si slacciò i jeans, il suono della zip che tagliava il silenzio. “Se vuoi fare la femmina, fallo bene.” Il suo cazzo era già duro, grosso, pulsante. Mi inginocchiai, tremando, senza sapere bene cosa stessi facendo. Era la prima volta, ma qualcosa dentro di me lo voleva, lo desiderava. Lo presi in bocca, goffamente all’inizio, il sapore salato che mi invadeva i sensi. Matteo mi teneva la testa, guidandomi con mani ferme. “Brava, succhia, puttana,” grugnì, spingendosi più a fondo. Venni nei miei slip di pizzo senza nemmeno toccarmi, l’eccitazione di essere finalmente Deborah che mi travolgeva.
Da quel giorno, Matteo non mi lasciò più in pace. Ogni sera, quando gli zii dormivano, veniva in camera mia. Mi faceva vestire da Deborah: tacchi, lingerie, trucco pesante. Mi scopava la bocca, mi chiamava “la sua troia”, e io mi perdevo in quel ruolo, in quel piacere che era dolore e liberazione insieme. Ma la vera svolta arrivò qualche settimana dopo, quando Matteo decise che era ora di andare oltre.
Era una sera d’estate, l’aria calda e appiccicosa. Mi aveva fatto indossare un completino rosso, reggiseno e perizoma, con calze autoreggenti e tacchi a spillo. Mi guardava come se fossi un trofeo. “Stasera diventi donna sul serio,” disse, spingendomi sul letto. Ero nervoso, eccitato, spaventato. Sapevo cosa voleva, e lo volevo anch’io, ma il pensiero mi terrorizzava. Si spogliò, il suo corpo muscoloso che torreggiava su di me. Prese un tubetto di lubrificante dal comodino e me lo spalmò sul culo, le sue dita che scivolavano dentro, preparandomi. “Rilassati, troia, o farà più male,” mormorò. Mi fece mettere a pecorina, le mani aggrappate alle lenzuola. Sentii la punta del suo cazzo premere contro di me, e poi un dolore acuto, come se mi stessero spezzando in due. Gridai, ma Matteo non si fermò. “Zitta, prendilo tutto,” ringhiò, spingendosi dentro con un colpo deciso. Il dolore era insopportabile, ma sotto di esso c’era qualcos’altro: un piacere oscuro, primordiale, che cresceva a ogni affondo. Mi teneva per i fianchi, scopandomi con forza, il suono dei nostri corpi che sbattevano che riempiva la stanza. “Ti piace, eh, puttana? Sei nata per questo,” ansimava. E aveva ragione. Nonostante le lacrime, nonostante il bruciore, venni, un orgasmo che mi fece tremare, il mio cazzo che schizzava sul letto mentre Matteo mi riempiva, il suo calore che mi invadeva. Rimasi lì, ansimante, distrutta, ma viva come non mai. Ero Deborah, finalmente.
Matteo non si accontentava mai, e presto anche lo zio Franco scoprì il mio segreto. Una sera, tornando a casa prima del previsto, mi trovò in salotto, con un vestito attillato e tacchi alti, mentre provavo una nuova parrucca. “Porca puttana, Stefano, sei una femmina vera,” disse, ma non c’era disgusto nella sua voce, solo desiderio. Franco era un uomo sulla cinquantina, robusto, con i capelli brizzolati e un’aria da padrone. Mi fece inginocchiare senza dire una parola, slacciandosi i pantaloni. “Succhiamelo” ordinò. Obbedii, la sua mano che mi guidava mentre lo prendevo in bocca, il suo sapore diverso da quello di Matteo, più acre, più vissuto. Dopo qualche minuto, mi fece alzare, mi spinse contro il tavolo della cucina e mi sollevò il vestito. Non usò lubrificante, solo la sua saliva, e quando mi penetrò il dolore fu ancora più intenso, ma anche il piacere lo era. “Da oggi ti chiamo Deborah,” grugnì mentre mi scopava, il tavolo che scricchiolava sotto i suoi colpi. “Sei la mia Deborah, la mia puttana.” Venni di nuovo, il mio corpo che si arrendeva a lui, e quando Franco finì, lasciandomi piena e tremante, quel nome mi si incise dentro. Ero Deborah, e non sarei mai tornata indietro.
La mia vita cambiò. Matteo e Franco mi usavano quando volevano, e io mi abbandonavo, la mia fame che cresceva con ogni incontro. Ma il momento in cui Deborah sbocciò davvero fu qualche mese dopo, quando Matteo decise di portarmi oltre ogni limite. Avevo 16 anni, e lui 32. Mi disse di prepararmi, di vestirmi “come una vera zoccola”. Indossai un miniabito di latex nero, calze a rete, tacchi altissimi e trucco pesante: eyeliner, rossetto rosso fuoco, ciglia finte. Mi guardai allo specchio e vidi una venere, una donna pronta a tutto. Matteo mi fece salire sulla sua macchina e guidò fino a una cascina abbandonata in campagna, fuori Milano, dove l’odore di erba secca si mescolava a quello di benzina. “Stasera ti diverti,” disse con un ghigno. Ero nervosa, ma eccitata. Sapevo cosa mi aspettava, e lo volevo.
Quando entrammo nella cascina, l’aria era densa di polvere e desiderio. La luce fioca di una lampadina nuda pendeva dal soffitto, illuminando a malapena il salone abbandonato, con il suo materasso lurido buttato per terra e le pareti screpolate che odoravano di muffa. Due uomini ci aspettavano, amici di Matteo, i loro sguardi affamati che mi divoravano già. Luca era un colosso sulla trentina, con una barba corta e ispida e spalle che sembravano scolpite nel marmo. Davide, più giovane, magro e nervoso, aveva tatuaggi che gli serpeggiavano sulle braccia come promesse oscure. Mi guardarono come lupi, e io, Deborah, mi sentii nuda, desiderata, potente. Il mio miniabito di latex nero aderiva alla pelle, le calze a rete mi stringevano le cosce, e i tacchi altissimi mi facevano ondeggiare come una venere pronta a essere sacrificata. Sapevo cosa volevano, e lo volevo anch’io.
Matteo mi spinse al centro della stanza, le sue mani ruvide che mi afferravano i fianchi. “Fagli vedere chi sei, Deborah,” disse, la voce bassa e carica di comando, mentre si slacciava i jeans con un gesto lento, deliberato. Il suo cazzo era già duro, grosso, pulsante, e io mi inginocchiai senza esitare, il pavimento freddo che mi mordeva le gambe attraverso le calze. Lo presi in bocca, il sapore salato che mi invadeva, la sua mano dietro la mia testa che mi guidava, spingendomi a prenderlo più a fondo. “Succhialo bene, troia,” ringhiò, scopandomi la gola con affondi decisi, il suo cazzo che mi soffocava mentre io gemevo, eccitata, il mio corpo che rispondeva come quello di una donna, il mio cazzo che pulsava sotto il perizoma. Luca e Davide si avvicinarono, i pantaloni abbassati, i loro cazzi in mano, pronti a reclamarmi. Passai a Luca, il suo sapore più muschiato, più selvaggio, mentre lui mi teneva per la parrucca bionda, mormorando: “Brava, puttana, continua così.” Davide mi accarezzava la testa, il suo tocco più gentile ma ugualmente possessivo, e io mi alternavo tra loro, succhiandoli uno dopo l’altro, le loro voci che mi chiamavano troia, zoccola, vacca. Mi sentivo al centro del mondo, il loro desiderio che mi consumava, il mio corpo che si arrendeva alla fame di essere usata, di essere donna.
Matteo mi fece alzare di scatto, le sue mani che mi strappavano il perizoma con un gesto secco, lasciandomi esposta. “Apri le gambe, Deborah,” ordinò, spingendomi sul materasso. Obbedii, il latex che scricchiolava mentre mi sdraiavo, le gambe spalancate, vulnerabile e potente al tempo stesso. Si inginocchiò tra le mie cosce e mi penetrò senza preavviso, il suo cazzo che mi apriva il culo con un colpo deciso, facendomi gridare. “Ti rompo il culo, troia,” ansimava, scopandomi con affondi violenti, ogni spinta un’esplosione di dolore e piacere che mi faceva tremare. Il suo cazzo mi riempiva, ogni affondo più profondo, più brutale, come se volesse spezzarmi, e io lo volevo, lo desideravo, il mio corpo che si inarcava per prenderlo tutto, la mia voce che gemeva come quella di una donna, rotta dal piacere. Luca si inginocchiò davanti a me, il suo cazzo che mi scivolava in bocca, soffocandomi mentre Matteo continuava a sbattermi, i loro ritmi che si intrecciavano, trasformandomi in un oggetto di desiderio. “Succhia, zoccola,” grugnì Luca, spingendosi in gola, il suo sapore che mi inondava mentre il mio corpo si arrendeva, il mio cazzo che schizzava sotto di me senza che lo toccassi, l’eccitazione di essere usata che mi mandava in estasi.
Davide, dietro, iniziò a lubrificarmi, le sue dita che scivolavano dentro il mio culo già aperto da Matteo, spalancandolo ulteriormente. “Preparati, zoccola, ora ti prendiamo in due,” disse, la voce carica di promessa. Sentii la punta del suo cazzo premere contro di me, accanto a quello di Matteo, e poi entrare, lento, implacabile, il dolore che mi spezzava in due. Gridai, il mio corpo che si ribellava, ma loro non si fermarono. “Prendili, troia, sei nata per questo,” ringhiò Matteo, i suoi affondi che si sincronizzavano con quelli di Davide, i loro cazzi che mi riempivano, mi aprivano, mi devastavano. Ogni spinta era un coltello, un fuoco, ma sotto il dolore c’era un piacere oscuro, travolgente, che mi faceva sentire donna, viva, desiderata. Il mio culo si adattava, si arrendeva, accogliendo ogni affondo con un misto di agonia ed estasi, il mio corpo che tremava mentre loro mi scopavano, i loro grugniti che si mescolavano ai miei gemiti. “Ti spacchiamo, puttana,” ansimava Davide, il suo cazzo che affondava più profondo, più veloce, mentre Matteo mi teneva per i fianchi, il suo ritmo implacabile. Venni, un orgasmo che mi squarciò, il mio cazzo che schizzava sul materasso, il mio corpo che si contraeva intorno a loro, stringendoli, implorandoli di non fermarsi. Ero una donna, la loro donna, e il piacere mi consumava.
Luca mi afferrò il viso, venendomi in bocca con un ruggito, il suo sapore caldo e salato che mi riempiva, scivolandomi lungo la gola mentre io deglutivo, affamata. Matteo e Davide continuarono, i loro affondi sempre più frenetici, i loro insulti che mi eccitavano ancora di più. “Sei la nostra vacca, Deborah,” ringhiò Matteo, e poi venne, il suo calore che mi inondava il culo, seguito da Davide, il loro seme che mi segnava, che mi reclamava. Crollai sul materasso, tremante, il corpo dolorante ma vivo, il culo pulsante, pieno, usato. Mi toccai, ancora eccitata, le dita che scivolavano sul mio cazzo, e venni di nuovo, sola, un orgasmo che mi fece gridare, il mio corpo che si inarcava come quello di una donna, il piacere che mi consumava mentre loro mi guardavano, ridendo. “Sei una vera zoccola, Deborah,” disse Matteo, accendendosi una sigaretta, il fumo che si mescolava all’odore di sesso e sudore. Ero sbocciata, finalmente. Ero Deborah, la troia, la venere, la schiava che amava essere usata. E non avrei mai voluto essere altro.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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