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Benedetta: Il Profumo di Lavanda


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
04.05.2025    |    1.142    |    1 9.1
"Gerardo entrò, e il suo tocco, rapido e professionale, mi fece sobbalzare..."
Mi chiamo Benedetta, ho 28 anni, e vivo ad Avellino, una città incastonata tra le colline verdi dell’Irpinia, dove il tempo sembra scorrere più lento, ma i desideri bruciano con un’intensità che non si può ignorare. Sono sposata con Antonio, un uomo gentile, un commercialista che passa le sue giornate tra numeri e scartoffie. Lo amo, ma la routine del nostro matrimonio, dopo cinque anni, ha spento quella scintilla che un tempo ci faceva vibrare. Lavoro come receptionist in un piccolo Centro Benessere appena fuori Avellino, un’oasi di pace che ho contribuito a creare con il mio capo, Gerardo, un chiropratico di 48 anni, anche lui sposato, con una moglie che non ho mai conosciuto ma che immagino distante, come un’ombra nella sua vita. È con Gerardo che ho scoperto un lato di me che non conoscevo, un desiderio che non posso più reprimere, un fuoco che mi consuma e che, in una mattina di primavera, ha cambiato tutto.
Il Centro Benessere è il mio rifugio. Quando varco la soglia, il profumo di lavanda mi avvolge come un abbraccio. È un aroma che calma, che scioglie le tensioni, che trasforma i volti tesi dei clienti in maschere di serenità. Ho visto persone entrare con il dolore scritto negli occhi e uscire con un sorriso, come se la lavanda, la musica ambientale – un flusso di vibrazioni acquatiche senza melodia – e le luci soffuse delle lampade da terra avessero il potere di cancellare il peso del mondo. I grandi cuscini sul divano di pelle e sulle poltrone invitano a sedersi, a respirare, a lasciare che il corpo e l’anima si rilassino. È un santuario, un luogo dove il caos della vita resta fuori.
Ma quella mattina, il mio corpo non trovava pace. La schiena mi tormentava. Per tre notti avevo dormito sul divano letto del nostro salotto, cedendo la mia camera da letto agli zii di Antonio, venuti da Napoli per una visita. Il materasso era sottile, la barra di metallo mi aveva torturato la schiena, e ogni movimento mi costava una fitta di dolore. Le prime due notti erano state sopportabili, ma dopo la terza mi sentivo distrutta. Mia nonna, con il suo pragmatismo campano, avrebbe citato Ben Franklin, storpiandolo a modo suo: “Gli ospiti so’ come ‘o pesce: dopo tre giorni, puzzano.” E quella mattina, il peso degli ospiti e il dolore alla schiena puzzavano eccome.
Ero dietro il bancone, cercando di muovermi con grazia nonostante le fitte, quando Gerardo entrò. Aveva un fascio di cartelle sotto il braccio, la borsa a tracolla sul petto, e quel suo modo di camminare, deciso ma rilassato, che mi faceva sempre battere il cuore un po’ più forte. Gerardo era un uomo che portava i suoi anni con una sicurezza magnetica: capelli brizzolati, rughe appena accennate intorno agli occhi, un corpo in forma che tradiva ore passate in palestra. Ma erano i suoi occhi a catturarmi, freddi come il marmo, ma con una profondità che sembrava leggermi dentro. Occhi che mi calmavano nei giorni frenetici e mi intrigavano in quelli più tranquilli, quando ci ritrovavamo a chiacchierare, a condividere frammenti delle nostre vite.
“Non sembri in gran forma stamattina, Benedetta,” disse, posando le cartelle sul bancone e guardandomi con un misto di preoccupazione e qualcosa di più, qualcosa che non riuscivo a decifrare. La sua voce era calda, con quell’accento irpino che rendeva ogni parola un po’ più intima.
Feci un sorriso forzato, cercando di nascondere il dolore. “Sopravvivo. Ancora due giorni e gli ospiti se ne vanno.” Presi un respiro profondo, sentendo la schiena protestare. “Due giorni.”
Lui si diresse verso il suo piccolo ufficio, ma si fermò sulla soglia. “Hai bisogno di un massaggio o di un po’ di coppettazione. Non puoi andare avanti così.”
“Ho appena aperto, non posso—” iniziai, ma lui alzò una mano, interrompendomi senza dire una parola. Quei suoi occhi, così intensi, mi fecero tacere. Sapevo che non avrei potuto resistergli. Non volevo resistergli.
“Vai nella stanza laterale e sdraiati. Ti metto le coppette sulla schiena.”
Provai a protestare, ma il suo sguardo, fermo e deciso, mi fece cedere. Mi avviai verso la stanza, il cuore che batteva forte, non solo per il dolore, ma per l’elettricità che sentivo crescere tra noi. La stanza era avvolta da un bagliore arancione, le luci soffuse che creavano un’atmosfera intima, quasi sacra. Mi sdraiai a pancia in giù sul lettino, il profumo di lavanda che mi avvolgeva, ma il mio primo pensiero, dopo il dolore, fu il mio corpo.
Sono bassa, formosa, con curve che non posso nascondere. Le mie guance, sempre rosse come fragole, mi danno un’aria perennemente allegra, ma i miei seni, grandi e impossibili da ignorare, e il mio sedere, tondo e prominente, sono sempre stati un’arma a doppio taglio. Da ragazza, al liceo, erano stati pizzicati, afferrati, commentati. Da adulta, nei bar di Avellino, attiravano sguardi e mani indesiderate. Sdraiata lì, con i pantaloni attillati che evidenziavano ogni curva, mi maledissi per non aver scelto qualcosa di più comodo. Sapevo che Gerardo avrebbe visto tutto, e l’idea mi faceva tremare di imbarazzo e, allo stesso tempo, di un desiderio che non volevo ammettere.
Gerardo entrò, e il suo tocco, rapido e professionale, mi fece sobbalzare. Posò le mani sui miei fianchi, e io mi irrigidii, il cuore che mi martellava nel petto. Sollevò la mia camicetta nera, ma il tessuto non cedeva. “Sbottona la camicia, Benedetta, così possiamo mettere le coppette,” disse, la voce ferma, da medico, ma con una sfumatura che mi fece rabbrividire.
“Cosa?” Lo guardai, sorpresa, ma lui era lì, con le braccia incrociate, in attesa. Non c’era spazio per discussioni.
“Okay,” mormorai, sdraiandomi di nuovo. Provai a slacciare il primo bottone, ma una fitta alla schiena mi fece gemere. Con un sospiro, mi sedetti sul lettino, il dolore che mi ricordava perché ero lì. Slacciai i bottoni uno a uno, sentendo i suoi occhi su di me. Gli porsi la camicia, temendo che vedesse il mio reggiseno nero, semplice, coppa D, e la cintura dei pantaloni che mi stringeva lo stomaco, evidenziando ogni imperfezione.
“Metto qui,” disse, prendendo la camicia e posandola sulla sedia. Ma quando i nostri occhi si incontrarono, qualcosa cambiò. Per un istante, i suoi occhi da medico si trasformarono in quelli di un uomo. Un uomo che desiderava ciò che vedeva. Le mie guance, già rosse, divennero lampone, e mi sdraiai di nuovo, stringendo gli occhi, il cuore che batteva all’impazzata.
Le sue mani, forti e calde, si posarono sulla mia schiena, premendo profondamente sulla carne. Iniziarono dalla parte bassa, a pochi centimetri dal mio sedere, e si mossero verso l’alto, come ragni che esploravano ogni curva. Sussultai quando toccò il punto dolente, ma il suo tocco, fermo e sicuro, dissipò il dolore. Continuò, arrivando al reggiseno. “Ti dispiace?” chiese, la voce bassa, quasi un sussurro.
“Vai pure,” risposi, senza pensare, il desiderio che sovrastava ogni razionalità. Sganciò il reggiseno con una facilità che tradiva esperienza, e i miei seni, liberati dalla stretta del ferretto, si rilassarono. Premette le mani più forte, spingendo il palmo contro una costola appena sotto la fascia del reggiseno. Sentii uno scricchiolio e un sollievo immediato. “Sì, proprio lì,” sussurrai, la voce che tremava. “Fallo ancora.”
Le mie labbra carnose vibravano mentre parlavo, e mi resi conto che il suono era lo stesso che emettevo durante il sesso, quando il piacere mi travolgeva. Mi irrigidii, e Gerardo lo percepì. “Ho toccato un punto dolente?” chiese, le sue mani che si fermavano, lasciando la mia pelle formicolante.
“Solo un po’,” mentii, il cuore che batteva forte.
Prese alcune coppette e le dispose sulla mia schiena, concentrandosi sulla parte inferiore. “Slaccia i pantaloni, così posso mettere due coppette più in basso,” disse, la voce di nuovo professionale, ma con una nota che mi faceva tremare. Raggiunsi la cintura, allentandola, e sentii un altro sollievo dagli abiti stretti. Lui tirò indietro il tessuto, e sapevo che le mie mutandine rosa, semplici e forse troppo infantili, erano in bella vista. Cosa avrebbe pensato? Mi avrebbe trovata ridicola?
“Carine,” disse, toccando l’elastico con un dito. La parola, così semplice, mi fece arrossire ancora di più. Non capivo se fosse un complimento o una presa in giro. Posizionò le coppette, stringendole per creare il vuoto che avrebbe alleviato il dolore, e mi coprì con una coperta. “Torno tra qualche minuto,” disse, uscendo.
Sotto la coperta, il calore mi avvolgeva, il profumo di lavanda mi calmava, ma la mia mente era in tumulto. Quel lampo nei suoi occhi, quel momento in cui era stato un uomo, non un medico, mi ossessionava. Gli piacevo? O era solo la mia immaginazione? Mi vedeva come una donna desiderabile o come una ragazza goffa, con mutandine da adolescente e un corpo troppo formoso? La mia mente era una guerra di pensieri contrastanti: Pensa che sono grassa, con troppa pancetta. No, gli piace vedermi così, quasi nuda. Mi desidera. Non posso credere che mi trovi attraente. Sei pazza, con queste mutandine ridicole!
Poi riaffiorò un ricordo. Era un giorno tranquillo, stavamo chiacchierando, rilassati, seduti al bancone. Gerardo si era appoggiato alla stampante, le sue scarpe Oxford in rete che catturavano la mia attenzione. Aveva iniziato a parlare di sé, con una calma che mi aveva incantata. Amava il bourbon, lo sci d’acqua, aveva fatto un’escursione nello Yukon per vedere l’Aurora Boreale. Il suo prossimo sogno era navigare in Polinesia Francese. “Voglio vedere il mondo con i miei occhi, non fidarmi di quello che mi raccontano,” aveva detto, e io avevo sorriso.
“Quindi vuoi scoprire se esiste davvero, non solo crederci sulla parola?”
“E se fosse tutto un complotto? Bugie antiche. Magari svelerò la verità!”
Avevamo riso insieme, e in quel momento mi ero innamorata di lui. Non solo per le sue parole, ma per la sua risata, sicura, profonda, la risata di un uomo che aveva vissuto, che sapeva. “Fammi sapere quando partirai per il Pacifico,” avevo detto, scherzando. “Per il bene del lavoro, ovviamente.”
“Chiuderò il centro per un po’.”
“Voglio dire, verrei anch’io.”
“Oh?” aveva detto, inarcando un sopracciglio.
“Se scopri che il mondo è una bugia, voglio esserci.”
“Affare fatto,” aveva risposto, stringendomi la mano. Quel tocco, caldo e deciso, era stato uno dei momenti più intensi che avessi mai vissuto con lui. Fino a quella mattina, quando le sue mani avevano premuto sulla mia schiena, scavando nella mia carne, risvegliando non solo il mio corpo, ma qualcosa di più profondo.
La porta si aprì, un soffio d’aria fresca fece svolazzare la coperta. Rabbrividii. “Per ora dovrebbe bastare,” disse Gerardo, togliendo le coppette. “Posso farlo quando vuoi.”
“Farlo?” chiesi, la voce incerta.
“Quando ne hai bisogno,” rispose, sfiorando l’elastico delle mie mutandine. Il suo telefono vibrò, e uscì, lasciandomi sola con i miei pensieri. Non aveva detto nulla delle mutandine. Era un bene? O un male? Mi chiesi cosa indossare per primo, la camicia o i pantaloni. Poteva tornare da un momento all’altro.
Gettai le gambe fuori dal lettino, ma i piedi non toccavano il pavimento. Tenevo il reggiseno al posto con un braccio, scivolai giù, i pantaloni leggermente allentati dal suo tocco. Poi lui entrò.
“Oh, mio Dio!” esclamammo all’unisono.
Mi strinsi le braccia contro i seni, il reggiseno slacciato che minacciava di cadere. Lui si batté una mano sul petto, ancora aggrappato alla maniglia. Chiuse la porta, e restammo soli. Ero vulnerabile, i pantaloni slacciati, il reggiseno che pendeva, il cuore che batteva all’impazzata.
Prese la mia camicetta dalla sedia, ma i suoi occhi erano diversi. Non erano più quelli del medico. Erano gli occhi di un uomo, pieni di desiderio. “Hai una scelta da fare,” disse, la voce roca, facendo dondolare la camicetta tra le dita. “Pantaloni o reggiseno.”
Riconobbi il cambiamento nel suo respiro, nella sua postura. Deglutì, il suo pomo d’Adamo che si muoveva, e capii che mi desiderava. Era ovvio, e la consapevolezza mi eccitò. Eravamo entrambi sposati, eppure quel momento sembrava inevitabile, un tradimento che entrambi volevamo, che avevamo desiderato per mesi senza mai ammetterlo.
Gettò la camicetta sul tavolo e si avvicinò. Prese la cintura dei miei pantaloni, fece scorrere le dita intorno alla mia vita, poi si abbassò, afferrandomi il sedere. Le sue mani forti strinsero la mia carne, esponendo di più le mutandine rosa. “Carine,” ripeté, con un sorriso che mi fece tremare. Sistemò i pantaloni, ma i suoi occhi non si staccavano da me.
“Hai un corpo meraviglioso,” disse, e quelle parole sciolsero ogni mia insicurezza. Rilassai le braccia, e il reggiseno scivolò lentamente, rivelando i miei seni. I capezzoli, già duri, si ersero sotto il suo sguardo. Mi liberai del reggiseno, studiando la sua reazione. Era famelica.
Fece un passo avanti, le sue mani che si posavano sui miei seni, sollevandoli, alleviando il peso dalla mia schiena. Lo attirai a me, afferrandogli il collo, e lui si chinò, prendendo un capezzolo in bocca. Succhiava con una fame che mi faceva gemere, la sua lingua che danzava, inviando scariche di piacere in tutto il mio corpo. “Così bello,” sussurrai, gli occhi chiusi, persa nel profumo di lavanda e nella sensazione della sua bocca. “Non fermarti.”
Le mie mani scivolarono sulla sua patta, sentendo la sua erezione, dura e pronta. “Abbiamo tempo?” chiese, la voce spezzata dal desiderio.
Conoscevo il programma. “Sì, ma fai in fretta.”
Slacciai i suoi pantaloni, abbassandoli insieme ai boxer sportivi. Il suo cazzo, grosso e pulsante, si ergeva davanti a me. Mi inginocchiai, il desiderio che sovrastava ogni pensiero di colpa. Lo presi in mano, accarezzandolo, poi lo leccai, la lingua che scivolava lungo l’asta, assaporando il suo sapore salato. Lo presi in bocca, succhiando con avidità, i suoi gemiti che mi incitavano a continuare. Le sue mani erano nei miei capelli, guidandomi, mentre io lo portavo al confine del piacere.
Ma lui mi fermò, sollevandomi con decisione. “Voglio assaggiarti,” disse, la voce roca. Mi fece girare, spingendomi a pancia in giù sul lettino. Abbassò i miei pantaloni e le mutandine, lasciandomi esposta. Sentii il suo respiro caldo tra le mie cosce, poi la sua lingua, che scivolava sulla mia fica da dietro, leccando con una passione che mi faceva tremare. Succhiava il clitoride, esplorava ogni piega, mentre le sue mani stringevano il mio sedere, aprendomi a lui. Gemevo, il piacere che cresceva, un’onda che minacciava di travolgermi.
“Gerardo,” ansimai, il corpo che si inarcava verso di lui. Mi girò di nuovo, sdraiandomi sulla schiena, e si chinò tra le mie gambe, la sua lingua che tornava a leccarmi, questa volta con più intensità. Le sue dita si unirono, penetrandomi, trovando quel punto dentro di me che mi faceva perdere il controllo. Il piacere era insopportabile, un fuoco che mi consumava. “Non fermarti,” gridai, e lui non lo fece. La sua lingua danzava sul clitoride, le dita che si muovevano più veloci, più profonde, fino a che un orgasmo devastante mi travolse. Urlai, il mio corpo che si contorceva, e sentii un’esplosione di piacere liquido, uno squirting che mi lasciò tremante, vulnerabile, ma incredibilmente viva.
Ma Gerardo non aveva finito. Mi fece girare di nuovo, posizionandomi a quattro zampe. “Voglio il tuo culo,” sussurrò, e la sua voce, carica di desiderio, mi fece tremare. Sentii la punta del suo cazzo premere contro di me, lubrificato dal mio stesso piacere. Entrò lentamente, con una dolcezza che contrastava con la sua fame, e io gemetti, il mix di dolore e piacere che mi faceva girare la testa. Si mosse, prima piano, poi con più forza, le sue mani che stringevano i miei fianchi. Ogni spinta mi portava più vicina al confine, il piacere che cresceva di nuovo, un’onda ancora più potente. “Sto per venire,” ansimai, e lui accelerò, il suo cazzo che mi riempiva completamente. Un secondo orgasmo mi travolse, uno squirting che mi fece gridare, mentre Gerardo, con un grugnito, esplodeva dentro di me, riempiendomi il culo con il suo calore.
Crollammo sul lettino, ansimando, i nostri corpi intrecciati, il profumo di lavanda che si mescolava all’odore del sesso. “Se stasera vuoi una pausa dai tuoi ospiti, vieni da me,” sussurrò, e io sorrisi, sapendo che quel tradimento, così voluto, così necessario, aveva cambiato tutto.

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