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Anni 80: Ombre dietro la porta


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
12.05.2025    |    1.669    |    2 8.8
"Era ben dotato, e lei, dopo un grido iniziale, cominciò a mugolare, a dire parole che non avevo mai sentito uscire dalla sua bocca: “Sì, sono la tua..."
Era la fine degli anni ’80, un’epoca di capelli cotonati, cassette dei Duran Duran che giravano nel mio walkman e pubblicità di gelati Algida che passavano alla TV. La mia vita, però, non aveva niente di colorato come le copertine delle riviste o i video di MTV. Vivevo in una villetta a schiera in un quartiere tranquillo, con i miei genitori, due figure che sembravano usciti da un film di cui non capivo ancora la trama. Mia madre era una donna che attirava gli sguardi ovunque andasse: capelli neri come la pece, un corpo che i vestiti attillati mettevano in mostra senza pudore, e un carattere aperto, quasi sfacciato, che la rendeva il centro di ogni stanza. Mio padre, invece, era un lavoratore instancabile, un bonaccione che sembrava sottomesso al carisma di lei, anche se a volte cercava di fare la voce grossa, senza mai convincere davvero nessuno. Io avevo sedici anni, un groviglio di ormoni e pensieri confusi, e un segreto che mi bruciava dentro: ero ossessionato da mia madre.
Non so quando fosse iniziato, forse quando avevo notato come gli uomini la guardavano, o forse era colpa di quei vestiti che indossava, sempre un po’ troppo corti, un po’ troppo provocanti. Ma era diventata una fissazione. La spiavo. Quando andava in bagno, trovavo scuse per passare davanti alla porta socchiusa, sperando di intravedere qualcosa. Nei fine settimana, quando lei e mio padre si chiudevano in camera, mi avvicinavo al buco della serratura, il cuore che mi batteva all’impazzata. Ma vedevo poco: mio padre, puritano com’era, spegneva sempre la luce, lasciandomi solo con frammenti di ombre e il suono attutito dei loro respiri. Era frustrante, ma quella frustrazione alimentava ancora di più il mio desiderio.
La nostra casa era spesso piena di ospiti, ma c’era una coppia di amici che veniva più di frequente. Lui era un tipo che non mi piaceva: aveva un modo di guardare mia madre che mi faceva ribollire il sangue. Lo notavo mentre eravamo seduti a tavola, i loro piedi che si sfioravano sotto il tavolo, movimenti che pensavano nessuno vedesse. Io vedevo tutto. Quando arrivavano, mi chiudevo in camera, non perché volessi studiare, ma perché non sopportavo il modo in cui quell’uomo si comportava, come se mia madre fosse sua. Non sapevo quanto fossi vicino alla verità.
Un giorno, tutto cambiò. Era un pomeriggio di primavera, il cielo grigio come il cemento del nostro vialetto. La scuola ci aveva mandati a casa prima per un allarme bomba, una di quelle cose che negli anni ’80 sembravano succedere ogni tanto. Tornai a casa senza avvisare, con la chiave che girava nella serratura come al solito. Ma appena entrai, sentii qualcosa che mi gelò: gemiti, che venivano dalla camera da letto. Mi avvicinai piano, il cuore che mi martellava nel petto. La porta era socchiusa. Dentro, mia madre era a carponi sul letto, il viso affondato nel cuscino, e lui, l’amico, era dietro di lei, che la scopava con una foga che non avevo mai immaginato. Rimasi fermo, paralizzato. Poi lui si girò e i nostri occhi si incrociarono. Fu un istante che sembrò durare un’eternità. Non dissi nulla, non feci nulla. Mi voltai e uscii di casa, i piedi che si muovevano da soli.
Camminai senza meta, finendo su una panchina in una villetta poco lontano, con le lacrime che mi rigavano il viso. Non so quanto tempo passò prima che lui mi trovasse. Si sedette accanto a me, la sua voce calma, quasi paterna. “Mi dispiace,” disse. “Non volevo che lo scoprissi così.” Mi raccontò tutto: che mia madre e mio padre non facevano più sesso, che lui non la soddisfaceva, che la loro storia era nata per salvare il matrimonio, o almeno così dicevano. Disse che mia madre non mi aveva visto, che non avrebbe mai saputo nulla, e che voleva essere mio amico. Mi parlò con una sincerità che mi disarmò, e io, confuso, accettai il suo segreto. Promisi di non dire nulla.
Da quel momento, qualcosa in me cambiò. Non era solo rabbia o gelosia; c’era anche un desiderio, un’ossessione che si faceva più forte. Qualche settimana dopo, lui mi chiamò. Aveva bisogno di un favore: fare da guardia mentre incontrava mia madre. Il mio viso si incupì, ma poi un’idea mi balenò in mente. Gli dissi che avrei accettato, ma a una condizione: la porta della stanza doveva restare socchiusa, e la luce accesa. Volevo guardare. Lui rise, un riso da mascalzone. “Sei più vizioso di tua madre,” disse, ma accettò.
Quel giorno non andai a scuola. Aspettai che lui entrasse in casa, poi mi avvicinai alla porta della camera. Mia madre era già senza camicia, senza reggiseno, inginocchiata davanti a lui, che aveva i pantaloni abbassati. Con una mano le guidava la testa, spingendola a prenderlo più a fondo in bocca. Io guardavo, ipnotizzato, il sangue che mi pulsava nelle tempie. Dopo un po’, lui la fece alzare, le tolse gonna e mutande, la fece sdraiare sul letto e cominciò a leccarla. Poi le mise le gambe sulle spalle e iniziò a scoparla. Era ben dotato, e lei, dopo un grido iniziale, cominciò a mugolare, a dire parole che non avevo mai sentito uscire dalla sua bocca: “Sì, sono la tua troia, riempimi di cazzo.” Io, dietro la porta, non resistetti. Mi toccai, e venni mentre loro continuavano, lui che la insultava, lei che rispondeva con gemiti. Quando finirono, uscii di casa in silenzio e tornai alla panchina.
Lui mi raggiunse dopo un po’. Mi vide triste, forse confuso, e cercò di tirarmi su. “Devi pensare al piacere di tua madre,” disse. Da quel giorno, diventammo complici. Io lo coprivo, trovavo scuse per lasciare loro spazio, anche quando era con sua moglie. In cambio, lui mi raccontava tutto, ogni dettaglio delle loro scopate. Una volta mi disse che aveva incontrato mia madre per caso al supermercato, l’aveva accompagnata in macchina e si erano fermati dietro un casolare abbandonato. Lei gli aveva fatto un pompino, ingoiando tutto. “A tua madre piace bere,” disse, ridendo. “Tuo padre non glielo permette, dice che queste cose le fanno le donnacce.”
La nostra complicità si fece più stretta, ma anche più pericolosa. Lui non mi avvisava sempre quando si vedevano, perché a volte gli incontri erano improvvisati. Però dopo mi raccontava tutto, e sembrava che gli piacesse quasi più parlarmene che farlo. “Oggi mi sono scopato tua madre,” diceva, e poi descriveva ogni dettaglio, come se fosse un trofeo. Io ascoltavo, eccitato ma anche turbato, senza sapere come gestire quel groviglio di emozioni.
Intanto, mia madre cominciò a guardarmi in modo diverso. Una sera, mentre lavavo i piatti, mi chiese se avevo una ragazza. “Alla tua età è normale,” disse, ma c’era qualcosa di sospettoso nel suo tono. Cercava di capire cosa mi passava per la testa, ma io ero evasivo. Ne parlai con lui, l’amante, e mi confermò che lei sospettava qualcosa. “Non vuole più che ci vediamo a casa,” disse. “Pensa che tu abbia visto qualcosa.” Decisero di incontrarsi in macchina, e lui mi indicò il posto: un angolo isolato, dietro un vecchio muro pieno di fessure. Feci un sopralluogo e capii che, se si fossero parcheggiati lì, avrei potuto vedere e sentire tutto. Glielo dissi, e lui promise di avvisarmi.
Il sabato mattina seguente, ero già nascosto dietro il muro alle dieci. Lui arrivò per primo, parcheggiò esattamente dove gli avevo detto. Dieci minuti dopo, mia madre accostò, scese dalla sua macchina e salì sulla sua. Il mio cuore batteva così forte che temevo mi sentissero. Si abbracciarono, si baciarono, poi lei gli disse che aveva paura, che dovevano trovare un posto più sicuro. “L’ultima volta ho visto un’ombra dietro la porta,” confessò. “Mio marito era a 200 chilometri, doveva essere lui. Ma non capisco perché non mi abbia detto nulla.” Lui la rassicurò, ma mentre parlavano si toccavano, e lei disse che avrebbe cercato di capire meglio la mia sessualità. Poi si abbassò e lo prese in bocca. Lui, spingendole la testa, guardò verso di me, nascosto dietro il muro, e mi fece l’occhiolino, un sorriso compiaciuto sul volto.
Dopo un po’, lei si alzò la gonna, si tolse il perizoma e gli salì sopra. Nella scomodità della macchina, riuscì a prenderlo tutto, muovendosi finché non urlò, venendo con un grido che mi fece tremare. Io, dietro il muro, non resistetti e venni contro le pietre, il respiro corto. Quando lei scese, si pulì con delle salviette, si rimise le mutande, e parlarono ancora un po’ prima di andarsene. Rimasi solo. Trovai le salviette che aveva usato, le raccolsi, le annusai. Quella sera, nella mia stanza, le usai per masturbarmi, il profumo di lei che mi mandava fuori di testa.
Le cose si complicarono quando mia madre ci vide insieme, seduti sulla solita panchina. Quando tornai a casa, mi chiese di cosa parlavamo. “Calcio,” mentii, ma il cuore mi batteva forte. Quel giorno, lui mi aveva raccontato che voleva farle il culo, che ci avevano provato ma era troppo scomodo, e che lei aveva avuto male. “Ma ci riproverò,” aveva detto, ridendo. Mentre pensavo a quelle parole, mi chiusi in bagno e mi toccai. Non sapevo che mia madre mi stava spiando dal buco della serratura. Più tardi, parlò con lui, chiedendogli di cosa discutessimo. Lui le disse che ero curioso di sesso, che gli raccontava storie della sua giovinezza. Lei non ci credette del tutto.
Cominciò a comportarsi in modo strano. Girava per casa mezza nuda, con una camicia trasparente e un perizoma, come se volesse provocarmi, testarmi. Io lo raccontavo a lui, e ci eccitavamo parlando di quanto fosse porca. Una volta mi disse che l’aveva scopata in un parcheggio, descrivendo ogni dettaglio, e io pendevo dalle sue labbra, eccitato e disgustato allo stesso tempo.
Poi arrivò il giorno in cui tutto esplose. Mia madre mi chiamò, si sedette accanto a me sul divano. Aveva un’aria seria, ma dolce. “Puoi confidarti con me,” disse. “Sono tua madre, nessuno ti ama quanto me. Anche se fossi gay, saresti sempre mio figlio. Parlami, rimarrà un segreto.” Io la guardai, il cuore che mi scoppiava. “Non sono gay,” dissi, e poi, spinto dalla sua promessa, le raccontai tutto. Tutto. Dall’inizio, da quando la spiavo, fino alla complicità con il suo amante. Lei sbiancò, il viso come cera. Capii che avevo fatto un casino, ma cercai di rimediare. “Se mi vuoi bene, non deve cambiare nulla,” dissi. “Voglio solo guardare, quando posso.” Lei non riusciva a parlare, ma promise che nulla sarebbe cambiato, che aveva solo bisogno di tempo.
Subito dopo, affrontò lui. Litigarono, ma lui le spiegò che ero stato io a minacciarlo, dicendo che avrei spifferato tutto a mio padre e a sua moglie. Decisero di tenermi buono, per evitare guai. Quando mia madre tornò a casa, mi trovò in camera. “Mi sono calmata,” disse. “Voglio il tuo bene. L’importante è che nessuno sappia nulla. Ma sarebbe meglio se lui venisse qui, e ne parlassimo tutti e tre.”
Quel giorno, ci sedemmo nel salone. Mia madre cercò di convincermi a trovarmi una ragazza, a smettere di guardare. “Non è giusto,” disse. Io stavo zitto, lo sguardo basso, vergognandomi. Lei si alzò, andò in cucina, e lui la seguì. Non sentendo più voci, mi avvicinai. Li trovai che si baciavano. Lei mi vide, fece per staccarsi, ma lui la trattenne. “Lascialo guardare,” sussurrò. “Facciamolo felice.” Lei, nervosa, acconsentì. Lui la girò, la fece appoggiare al tavolo, le alzò il vestito, le abbassò le mutande e la penetrò. Lei, dopo un po’, si lasciò andare, gemendo. Io entrai in cucina, accanto a lei. Lei mi guardò, gli occhi socchiusi, e disse: “Cazzo, sto godendo come mai.” Quando lui stava per venire, si ritirò e le sborrò sulla schiena. Io corsi in bagno, mi toccai. Lei mi seguì, temendo che fossi pentito, ma quando aprì la porta e mi vide sorrise e mi prese il cazzo tra le mani e mi finì di segare e poi si fece sborrare in bocca.
Ci sedemmo di nuovo, tutti e tre. Ci guardammo negli occhi, e capimmo che era nata una complicità unica, perversa ma reale. Da allora, non ero sempre presente, ma sapevo quando lui andava da lei. A volte, quando mio padre era a casa, mia madre mi chiedeva di inventare una scusa per farlo uscire. “Ho voglia,” diceva, e io obbedivo, parte di un gioco che non capivo più, ma che non riuscivo a fermare. Ma questa è un'altra storia che vi racconterò.

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