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Tecla e la Matrona


di ringo00
30.10.2022    |    9.111    |    4 8.8
"Ottavia sorrise, spingendo due dita in profondità all’interno di quella carne giovane e tenera: “Hai fatto un buon lavoro, Tecla..."
Ho voluto cimentarmi con un racconto simil storico. Spero che vi piaccia, ogni suggerimento o commento è ben accetto. Buona lettura

Il sole al tramonto tingeva di un colore sanguigno i marmi della città eterna. Nella ricca domus del potente patrizio Antonio Gaio Prisco un esercito di schiavi e servitori si affaccendava nei propri compiti. La giovane schiava Tecla era intenta a pulire con cura un mosaico nella fontana del grande giardino, un complesso disegno rappresentante Nettuno, il dio del mare che impugna il tridente. L’acqua limpida restituiva il suo riflesso come in uno specchio: una ragazza sui vent’anni, dai folti capelli scuri legati in una coda che incorniciavano un viso dai tratti orientali illuminato da due vivissimi occhi castani. Tecla veniva da molto lontano; Tecla neppure era il suo nome, la sua vera identità era ormai persa nel tempo… Il ricordo del terribile viaggio dall’oriente fino a Roma, il mercato degli schiavi…
“Tecla!” una voce risuonó, imperiosa. La ragazza sobbalzó, e voltatasi vide stagliata sulla soglia di una porta Ottavia Giulia Prisca, la sua padrona. Tecla scattò in piedi, chinando con deferenza il capo: “Sí, matrona… Cosa comandi?”
Con un elegante fruscio della ricca veste con fili dorati, Ottavia si voltò: “È ora che tu faccia il tuo dovere, Tecla. “ Senza aggiungere altro si incamminó lungo un corridoio, seguita a pochi passi dalla serva, che occhieggiava incantata l’ipnotico movimento del sontuoso fondoschiena della padrona sotto il sottile tessuto semitrasparente; ad un’occhiata più attenta, poteva quasi scorgere il corpo nudo di Ottavia alla luce delle lanterne disposte lungo le pareti. Giunti in una bellissima camera, Ottavia sedette su di un basso sgabello, in attesa. Tecla si avvicinó, e con delicatezza prese a sciogliere la elaborata chioma della matrona, districando le perle e gli ornamenti d’oro dalle chiome corvine, passandovi poi un pettine d’avorio. Nel mentre, Ottavia si guardava vanitosa in uno specchio di bronzo lucidissimo, tenendo d’occhio l’operato della giovane schiava. Dopo che Tecla ebbe tolto gli splendidi gioielli dai lobi, collo e polsi della matrona si preparò a prendere silenziosamente congedo, ma questa le disse: “Stanotte giecerai nel mio letto, Tecla. “
La giovane ebbe un fremito: nuovamente, come ogni volta che il padrone era assente, la consorte sfogava la propria voglia sessuale su di lei. Tecla sapeva bene cosa fare: con un inchino uscì rapidamente dalla camera recandosi in un locale attiguo, dagli arredi non inferiori per bellezza e maestosità. Sopra una elegante cassapanca di legno d’ebano africano c’era un contenitore più piccolo; Tecla lo apri, e sul velluto cremisi all’interno faceva bella mostra di sé una perfetta, minuziosa riproduzione di un enorme fallo eretto, realizzata in marmo candido. Lo prese tra le mani, portandolo alle labbra: queste si schiusero, accogliendo la grossa testa del membro, la lingua ne cercava la liscia superficie. Tecla teneva ben stretto in una mano l’oggetto, mentre l’altra scivolò rapida sotto la veste, trovando il suo sesso dalla delicata peluria. Le dita lo sfiorarono, accarezzando le labbra vaginali vogliose, umide di desiderio. Tecla sollevò la veste, tenendone un lembo tra i denti, per avere le mani libere: allargate le gambe, la schiava prese un lungo respiro e infilò lentamente il fallo nella sua cavità femminile, emettendo gemiti trattenuti dal tessuto che mordeva. Dopo il lungo inserimento, Tecla godette per un attimo di quella confortante presenza dentro di sé: sembrava quando giaceva con Hamud, lo schiavo etiope dal membro di stazza equina…
Un richiamo seccato della matrona la riportò alla realtà: Tecla lasciò ricadere la veste, e tenendo una mano all’inguine per non fare scivolare fuori il fallo tornò nella stanza di Ottavia. La trovò sdraiata sul letto triclinare, nella sua completa nudità: Tecla studiò attentamente quel corpo voluttuoso che già aveva più e più volte esplorato come fosse la prima volta: la pelle candida e liscia, i seni pieni e abbondanti dalle areole e capezzoli scuri, le cosce che mostravano il folto pelo nero che spiccava prepotente in quel candore. Ottavia fece un cenno, e senza indugi, Tecla sfilò la veste, denudandosi a sua volta. Sentí su di sé lo sguardo compiaciuto della matrona, che scorreva dal suo volto arrossato ai piccoli seni, fermandosi poi alla sua fica, dove la mano ancora stringeva l’estremità del fallo. Ottavia si mise comoda, allargando oscenamente le cosce; Tecla si inginocchiò fra di esse, e con la lingua descrisse piccoli cerchi sull’interno coscia, lentamente, mentre muoveva a tempo il fallo dentro di lei. La lingua di Tecla abbandonò le cosce per dirigersi verso il sesso di Ottavia: le mani fermamente poste sulle gambe, sentiva la morbida carezza del pube sul viso mentre con le dita allargava i petali del fiore della padrona. Quando la punta della lingua si insinuó nel pertugio, Ottavia si mordicchió lascivamente le labbra, chiudendo gli occhi. La schiava lavorava abilmente di lingua, stuzzicando i ben noti punti sensibili della matrona, che gemeva, mormorando sconcezze. Ad un tratto Ottavia esclamò “Dammelo ora, Tecla!”
Obbediente, Tecla si sfilò il grosso membro, e puntatolo sulla fica affamata della padrona lo inserí in un solo colpo, strappandole un osceno gemito. La schiava muoveva a avanti e indietro l’oggetto ben saldo nella mano, mentre metteva sdraiata Ottavia, che godeva strizzandosi forte i seni. Tecla sapeva che a quel punto la padrona desiderava essere presa, eccola infatti mettersi supina, con il giunonico deretano bene in vista. Tecla fece scivolare alcuni centimetri del grosso fallo dalla fica di Ottavia, abbastanza da poter stringere fra le cosce la base di quest’ultimo. Il marmo liscio era piacevolmente fresco sul suo sesso rovente, tanto da strapparle un gridolino; Ottavia agitó impaziente il fondoschiena, lanciando sguardi lussuriosi a Tecla, che non si fece pregare: afferrati i morbidi fianchi di Ottavia cominciò a possederla come il più eccitato degli uomini. La matrona gridava, mugolava come una meretrice, preda della più sfrenata passione. Tecla gemeva discreta, senza esagerare, anche se nel profondo avrebbe volentieri urlato la sua goduria a pieni polmoni. Dopo diversi minuti di furiosa penetrazione Ottavia raggiunse l’apice del piacere, con un urlo liberatorio, scossa dagli ultimi spasmi dell’orgasmo. Tecla rallentó gradualmente fino ad arrestare il movimento dei suoi fianchi; molto lentamente fece uscire il fallo dalla fica della padrona, umido e lucido del suo nettare. Ottavia si sdraió sul letto, ansimando; la schiava si coricó accanto a lei, accarezzandola languidamente, massaggiando i grossi seni dai capezzoli ancora duri. La mano della matrona scese sul gluteo si Tecla, stringendolo con desiderio, insinuando le dita fra le gambe.
“Aahhh~ Padrona…” mormorò.
Ottavia sorrise, spingendo due dita in profondità all’interno di quella carne giovane e tenera: “Hai fatto un buon lavoro, Tecla. Hai diritto ad una congrua ricompensa: questa notte potrai passarla con Hamud. “
“Grazie, mia signora…” disse Tecla riverente. Si alzò, rimettendosi addosso la veste.
Ottavia la osservava, comodamente sdraiata su dei cuscini di seta: “Sai bene come devi presentarti, vero Tecla?” Disse con tono malizioso, porgendole il fallo.
Senza obiettare, la schiava riprese dentro di sé il fallo, che penetró la sua carne senza incontrare resistenza.
“Buona notte, matrona “ disse con un ultimo inchino prima di prendere congedo.
Lungo il tragitto verso la cella dello schiavo etiope, Tecla era così bagnata che dovette trattenere fermamente il fallo per non perderlo camminando. Giunta a destinazione, un piacevole fremito di desiderio percorse il suo corpo, e mentre bussava alla porta di legno, Tecla si pregustó una lunga, rovente nottata.

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