Gay & Bisex
Amore... amore disperato!

18.05.2025 |
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"Da piccoli ci ritrovavamo solo per le feste comandate e le estati nella grande casa in collina, quando le famiglie si ricomponevano attorno a tavolate di..."
Non avrei mai pensato di piangere tanto per lui.Eppure, quando mi è arrivato il messaggio — freddo, secco, impersonale — ho avuto una reazione che non mi aspettavo. Ho lasciato cadere il telefono sul pavimento, sono rimasto fermo, immobile, e ho sentito il sangue sparire dalle vene. Era morto.
Un incidente stradale, all’estero. Una strada bagnata, una macchina in corsa, una sera come tante. E lui non c’era più.
Lorenzo.
Il mio primo amore. Il mio primo tutto.
Era mio cugino di secondo grado, qualcosa di vago nell’albero genealogico che permetteva comunque alle nonne di dire “ma dai, giocate insieme, vi somigliate anche”. Tre anni più grande, più bello, più spavaldo. Da piccoli ci ritrovavamo solo per le feste comandate e le estati nella grande casa in collina, quando le famiglie si ricomponevano attorno a tavolate di legno e bambini scalzi correvano nei cortili.
Io lo aspettavo come si aspetta qualcosa che si desidera troppo.
A Natale. A Pasqua. E poi, soprattutto, in estate.
Lo aspettavo con una fame che non sapevo nemmeno chiamare.
Avevo dodici anni la prima volta che mi accorsi che qualcosa in lui mi faceva stare male. Mi faceva venire voglia di essere diverso. Avevo quattordici anni la prima volta che mi svegliai nel cuore della notte, duro, sudato, dopo aver sognato di baciarlo. Avevo quindici anni quando cominciai a toccarmi pensando a lui. E avevo sedici anni la prima volta che lui mi sorrise in un modo che mi lasciò sospeso per giorni.
Ogni volta che arrivava, il mio corpo diventava un campo di battaglia. Cercavo di nasconderlo. Cercavo di non fissarlo mentre si spogliava per infilarsi il costume. Ma poi lo guardavo. Sempre. E lui lo sapeva.
Mi chiamava “filosofo”, perché leggevo troppo. E io ridevo, e fingevo di non morire dentro ogni volta che mi toccava una spalla, ogni volta che mi faceva una carezza tra i capelli, ogni volta che mi prendeva in giro davanti agli altri e poi, di notte, mi cercava.
Perché sì.
Mi cercava.
Cominciò piano. Avevo sedici anni. Lui diciannove. Era già un uomo. Aveva la moto. Si fumava le sigarette di nascosto in terrazza. E io lo guardavo da dietro le persiane, seduto sul letto con la bocca secca e il cazzo duro tra le mani.
Quell’estate fu diversa. C’era un silenzio nuovo tra noi. Parlavamo poco, ma quando lo facevamo, c’era qualcosa in più. Un’intimità strana. Come se ci capissimo a mezza frase. Come se, senza dircelo, stessimo cercando qualcosa che nessuno poteva nominarci.
E poi, una sera, successe.
Lo racconto dopo.
Perché prima voglio dire questo: Lorenzo non era mio. Non lo è mai stato. Si è diplomato, si è trasferito al nord, ha convissuto con una donna, ha avuto un figlio. Tornava solo per Natale. A volte per Pasqua. D’estate, raramente. Ma quando tornava, io c’ero. Sempre. E qualcosa, ogni volta, succedeva.
Non lo raccontavo a nessuno.
Avevamo un linguaggio nostro, fatto di tocchi rapidi, sguardi trattenuti, stanze buie, porte chiuse a chiave. Era sesso, sì. Ma era anche amore. Era quello che non poteva essere, e che per questo bruciava di più.
E ora, non c’è più.
Ricordo ogni dettaglio di quella notte.
Era fine luglio. La casa era piena, come sempre: zii, cugini, bambini, sedie di plastica nel giardino, zanzare ovunque e bottiglie di birra dimenticate sotto ai pini. Il giorno era stato lungo, rovente, e la notte portava quell’odore inconfondibile di pelle bruciata dal sole e terra secca.
Io non dormivo.
E nemmeno lui.
Lo trovai in terrazza, seduto per terra con la schiena contro il muro e una sigaretta tra le dita. A torso nudo. I pantaloni del pigiama bassi sui fianchi, i piedi nudi. Era bellissimo. Lo era sempre stato. Ma quella notte, sotto la luna, sembrava irreale.
«Non riesci a dormire?» mi chiese.
Scossi la testa. Mi sedetti accanto a lui, sentendo il cuore martellarmi nelle tempie.
Per qualche minuto non parlammo. Solo il suono dei grilli e del fuoco della sigaretta che crepitava piano.
Poi, senza guardarmi, disse:
«Hai mai baciato qualcuno?»
Rimasi in silenzio.
Era una trappola? Uno scherzo?
Ma lui non rideva. Si voltò verso di me, gli occhi seri. Dolci.
«Io sì» continuò. «Una ragazza. Ma non è come pensavo. Non sentivo niente.»
Mi mancava il fiato.
Non osavo muovermi.
Sentivo la pelle bollente, il cazzo che cominciava a svegliarsi dentro i boxer.
«E tu?» chiese.
Feci solo un cenno con la testa. No.
Lui sorrise appena, spense la sigaretta con le dita e poi si chinò verso di me. Lentamente.
Mi sfiorò le labbra.
Appena.
E io mi sentii impazzire.
Il bacio vero arrivò subito dopo. Un bacio pieno, caldo, profondo. Con la lingua che cercava, che spingeva. Mi presi la sua nuca con una mano, tremando. Il cuore che batteva ovunque. Sulle labbra, sul cazzo, nel petto, nelle mani.
Ci baciammo a lungo, senza dire una parola. Poi lui si alzò e mi fece un cenno con la testa. Entrammo in casa in silenzio. Tutti dormivano. La porta della sua stanza si chiuse piano. E io ero lì. Dentro. Da solo con lui. Con il corpo che mi scoppiava.
Mi spogliò piano, come se avesse paura di svegliarmi da un sogno. Le mani sulle mie spalle, poi sul petto, poi sui fianchi. I suoi occhi nei miei. Io tremavo. Avevo il cazzo duro, teso, che mi faceva male da quanto era in erezione.
Lo toccò.
Piano.
Come se fosse un oggetto sacro.
Poi si abbassò. Me lo prese in bocca.
Gemetti, forte.
Lui mi zittì con la mano sulle labbra.
«Zitto, Giò… zittissimo…»
E continuò a succhiarmelo, a ingoiarmi, con una dolcezza feroce che non avevo mai immaginato.
Io non durai molto. E venni. Forte. Nei suoi capelli, sul suo viso, gemendo tra i denti. Avevo l’anima che si sbriciolava e il cuore in gola.
Ma non era finita.
Si alzò. Si spogliò del tutto. Aveva un cazzo bellissimo, lungo, teso, pulsante.
Mi prese la mano.
«Lo vuoi?» sussurrò.
E io non risposi.
Mi inginocchiai. Lo presi in bocca. Lo succhiai con una fame che non avevo mai provato per niente, né per nessuno.
Lui mi teneva per i capelli. Mi guidava. Gemeva piano. Diceva il mio nome.
«Giò…»
Come se stesse per perdersi.
Poi mi tirò su, mi fece salire sul letto, mi baciò a lungo.
Mi aprì le gambe.
Mi penetrò.
Senza forzare. Con calma. Ma entrò tutto. E io lo sentii dentro come una verità nuova, come qualcosa che era mio e non lo sarebbe mai stato davvero.
Scopammo piano all’inizio. Poi più forte. Le mani sui fianchi, le bocche umide, le labbra ovunque. Venimmo insieme, stringendoci come se il mondo potesse esplodere.
Quella notte dormimmo abbracciati, nudi, sudati.
E io capii che sarei stato segnato per sempre.
Negli anni seguenti, le cose cambiarono.
Ma solo in apparenza.
Io partii per l’università, lui iniziò a lavorare in un’officina meccanica al nord. Non ci scrivevamo mai, nemmeno un messaggio. Era tutto affidato al tempo, al corpo, agli incontri rubati durante le festività o le estati in famiglia. Era come se i nostri corpi sapessero già tutto, mentre le parole tacevano.
A Natale, il pranzo con venti parenti rumorosi si trasformava sempre in una specie di attesa. Bastava uno sguardo. Un gesto.
E poi lo seguivo.
Nelle camere degli ospiti. Nella rimessa degli attrezzi. Dietro un casolare. Bastavano dieci minuti.
Mi prendeva con furia.
Mi faceva inginocchiare tra le balle di fieno.
Me lo ficcava in bocca senza dire nulla, guardando verso la porta.
Mi si apriva dentro mentre fuori c’erano i brindisi e i regali, le risate e le chiacchiere dei nostri genitori.
E poi spariva.
Tornava a tavola, prendeva in braccio il nipotino, rideva. Io no. Io non ridevo mai.
Un’estate ci ritrovammo nella casa al mare, la solita.
Io avevo ventidue anni, lui venticinque.
Era cambiato. Più muscoloso, più maschio. E non dormiva più da solo: era venuto con lei, la sua nuova compagna. Una ragazza dolce, gentile. La guardavo come si guarda un vetro: trasparente, ma intoccabile.
Ogni notte, mentre lei dormiva, lui usciva.
Veniva nel mio letto.
Mi svegliava con un bacio dietro l’orecchio e mi scopava lentamente, dentro quel silenzio interrotto solo dal rumore del mare.
Mi prendeva da dietro, mordendomi la schiena.
Mi sussurrava cose che il giorno dopo avrebbe finto di non aver mai detto.
«Sei mio, Giò… lo sei sempre stato…»
Oppure:
«Mi manchi anche quando ti sto dentro…»
E io lo credevo. Sempre.
Mi lasciavo penetrare, scopare, dominare. Con amore, con disperazione.
Mi faceva venire senza nemmeno toccarmi. Bastava lui. Il suo odore. Il suo peso. La sua voce.
Ma poi nacque il bambino.
E tutto si ruppe.
Non venne più alle estati al mare.
A Natale restava su, al Nord, con i suoi nuovi suoceri.
Le notizie mi arrivavano tramite gli zii: aveva aperto una piccola officina sua, il bambino cresceva bene, avevano preso casa in affitto vicino al fiume.
Io lo sognavo la notte.
Mi svegliavo duro, bagnato, con la bocca piena del suo nome.
Nessun altro uomo mi dava quello che mi dava lui. Nessun altro mi faceva urlare dentro. Nessuno mi prendeva così: con rabbia, con dolcezza, con paura.
Poi, ricevetti la telefonata.
«Giò… hai saputo?»
No.
«Lorenzo… ha avuto un incidente. In Spagna. Era là in vacnza. È morto sul colpo.»
Il mondo si è svuotato.
Mi sono seduto sul pavimento. Nudo.
E ho pianto per ore.
Il primo amore. Il primo corpo. La prima penetrazione. Il primo orgasmo condiviso. Tutto finito. Tutto sepolto sotto l’asfalto, in una strada che non conoscevo nemmeno.
Non andai al funerale.
Lo fecero nel suo paese, il sabato dopo. Io ero a lezione, avevo un convegno a Firenze. Ma non era per quello.
Non ce la facevo.
Non volevo vederlo in una bara.
Io lo volevo nudo, sudato, con la bocca sul mio cazzo, con le mani sporche di grasso meccanico e desiderio.
Lo volevo vivo.
E invece non c’era più.
Mi chiusi in casa per giorni.
Guardai le foto di famiglia, i vecchi VHS degli anni ’90, le estati da bambini in costume, le feste con la tombola, i panettoni, le risate finte.
E poi mi masturbai pensando a lui.
Per ore.
Venni urlando il suo nome. Piangendo. Con una rabbia che ancora oggi mi lacera.
Non ho mai detto niente a nessuno.
Nemmeno a lui, davvero.
Forse lui sapeva.
O forse no.
Ma io sì.
E questo basta.
Lorenzo è il mio fantasma.
Il mio primo amore.
Il mio primo cazzo.
Il mio primo dolore.
E ancora oggi, ogni tanto, di notte, sento una mano sulla schiena. Un sussurro.
«Zitto, Giò… zittissimo…»
E allora chiudo gli occhi.
E lo lascio entrare.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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