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Gay & Bisex

Usato sicuro 2010


di SERSEX
10.06.2025    |    1.936    |    2 9.8
"» Giò si alzò di scatto, come punto da un ago..."
La pioggia di metà ottobre gli era rimasta addosso come un velo di malinconia. Giò scese dalla sua vecchia Puma con un gesto lento, guardandosi intorno. Aveva i capelli un po’ umidi, il volto tirato da notti insonni e troppe sigarette. Aveva deciso, finalmente: avrebbe cambiato macchina. Come se bastasse un’auto nuova a cambiare anche il resto.
La concessionaria era piccola, quasi anonima, nella zona industriale fuori Bologna. Un cartello con scritto “USATO GARANTITO” pendeva storto sopra il portone grigio. Giò fece un respiro profondo ed entrò.
Dietro al bancone c’era lui. Avrà avuto quarant'anni, ma portati con una virilità affaticata che a Giò piacque subito. Spalle larghe, occhi scuri, dita sporche di grasso anche in giacca e cravatta. Si chiamava Ivano. Lo disse con voce roca, offrendogli una stretta di mano calda e ruvida.
«Cosa cerchi?»
«Qualcosa che tenga botta, ma che mi assomigli un po’.»
Ivano lo guardò di traverso, socchiudendo gli occhi. «Allora dobbiamo guardare bene.»
Passarono tra le auto, la pioggia a rigare i vetri e la voce di Ivano che diventava sempre più bassa. Ogni tanto gli sfiorava la schiena per attirare l’attenzione su un modello. Giò sentiva quelle dita sotto la camicia, come un desiderio che non osava confessare neanche a se stesso. Era stanco, stanco fino all’osso. E anche Ivano sembrava stanco, ma di una stanchezza diversa, fatta di abitudini e corpi mai abbastanza.
Quando si trovarono nel piccolo ufficio per firmare il preventivo, Giò si sedette, e si accorse che Ivano lo stava guardando. Non con gli occhi di un venditore. Con quelli di un uomo che non aspettava altro che una scusa per cedere.
«Sai,» disse Ivano, spegnendo il monitor, «non capita spesso che entri uno come te.»
Giò non rispose. Sentiva il sangue pulsargli nelle vene. Quel silenzio fu come una miccia. Ivano si alzò e chiuse la porta con un clic. Poi si fermò, come se aspettasse il permesso.
Giò si alzò lentamente, si tolse la giacca, poi la sciarpa. Lo sguardo fisso. Non aveva ancora detto una parola, ma il suo corpo era già una risposta.
Ivano gli si avvicinò. Le mani sporche presero a slacciargli i jeans, con una lentezza quasi reverente. «Se sbaglio, dimmelo adesso», sussurrò.
«È tutto l’anno che aspetto uno sbaglio così.»
Il sesso fu ruvido, affamato. Sul tavolo dell’ufficio, tra i preventivi e le brochure. Giò si lasciò prendere con gli occhi socchiusi, stringendo i denti per non urlare. Ivano gli mordeva la nuca e gli sussurrava cose che sembravano bestemmie e preghiere allo stesso tempo. L’odore di pioggia e olio motore li avvolgeva come una coperta. Un sesso scomodo, sporco, bellissimo. Come due disperati che cercavano nel corpo dell’altro una tregua, non l’amore.
Dopo, rimasero in silenzio. Giò si rivestì piano, lo sguardo basso.
«Mercoledì vieni a ritirarla, la macchina,» disse Ivano con voce più bassa del solito.
«E tu ci sarai?»
Ivano annuì. Ma il suo sguardo era già altrove.
Giò uscì sotto la pioggia, con le mutande umide e una tristezza nuova nel petto. Una macchina nuova non cambia la vita. Ma a volte basta una scopata fatta con la rabbia giusta per capire cosa manca davvero.

Quello che mancava davvero — Giò lo capì qualche isolato più in là, con le mani fredde sul volante e la bocca ancora sporca di saliva e desiderio — non era il sesso, non era nemmeno il corpo di un altro uomo. Non era neanche l’amore, non nel senso romantico del termine.
Mancava qualcuno che lo guardasse restare.
Che non lo desiderasse solo nell'urgenza di un gesto, ma nella quotidianità di una sigaretta condivisa in silenzio, nei pomeriggi di pioggia passati a non far niente, in una mano che gli sfiora il collo mentre cucina. Mancava una voce che sapesse dirgli “resta” anche senza parole.
Ivano l’aveva guardato come si guarda un vizio. Un’occasione.
Giò voleva essere guardato come una necessità.
Quello che mancava davvero era sentirsi scelto, e non usato.
Essere visto anche dopo, quando il corpo si sveste del desiderio e restano i gesti piccoli, i vuoti da riempire con qualcosa che non si può comprare, nemmeno in una concessionaria.
Mancava una casa, fatta di pelle, odori e tempo.
E Giò, mentre accendeva l’autoradio e cercava di dimenticare, capì che non era solo Ivano a non poter dargliela.
Forse era lui a non saperci più abitare davvero, dentro una casa così.

Il giorno dopo pioveva ancora. Giò non aveva dormito. Aveva il sapore di Ivano addosso come un’ombra. Si era svegliato con il corpo indolenzito e una voglia inspiegabile di tornare lì. Non per la macchina.
Appena entrato nella concessionaria, Ivano alzò lo sguardo dal suo taccuino e gli sorrise, un sorriso asciutto, sincero. Nessuna volgarità, nessun ammiccamento. Solo un silenzio diverso da quello del giorno prima. Quasi gentile.
«Non è pronta.»
«Lo immaginavo,» disse Giò. Ma non si mosse. Restò sulla soglia, guardandolo da lontano, come se avesse paura ad avvicinarsi troppo.
Ivano si passò una mano tra i capelli con qualche filo d'argento di troppo per la sua età. «Ti va un caffè? Ce l’ho brutto, della macchinetta, ma scalda.»
Giò annuì. E quella fu la prima crepa nel muro.
Si sedettero in silenzio, uno di fronte all’altro. La plastica del bicchierino bollente gli bruciava le dita. Eppure non parlava. Ivano lo guardava come si guarda una creatura ferita che ha imparato a mordere. Non lo forzava.
«Non so perché sei tornato,» disse piano, «ma sono contento che l’hai fatto.»
Giò abbassò lo sguardo. «Forse per farmi dire che è stato solo sesso.»
«Se fosse stato solo sesso,» rispose Ivano, «non avresti quegli occhi adesso.»
Silenzio.
«Ti sembrerà assurdo,» continuò l’uomo, «ma stanotte ho pensato solo a te. E non in quel modo. Ho pensato a cosa ti manca. E a come ti guardavi intorno come se nessuno sapesse più vedere chi sei.»
Giò si alzò di scatto, come punto da un ago.
«Non fare così,» disse Ivano. «Non ti sto chiedendo niente. Solo di non scappare.»
Giò si voltò. «È che non ci credo più. Che qualcuno possa… restare. Che non sia solo un bisogno. Sai com'è… mi apri le cosce e poi arrivederci.»
Ivano lo raggiunse piano. Gli mise una mano sulla nuca, forte, calda. «Ti sbagli. Non voglio scoparti. Non adesso. Voglio farti sentire il contrario di uno sfogo. Ma non ho parole giuste. Ho solo gesti.»
E fu allora che Giò cedette un po'. Appena appena. Si lasciò abbracciare, con le braccia lungo i fianchi. Sentiva il cuore battergli troppo forte, e quella stretta era diversa da tutte le altre. Non c’era fame, c’era cura.
«Mi fa paura,» sussurrò.
«Anche a me.»

E quando, un’ora dopo, Ivano lo baciò di nuovo — non con la lingua in gola, ma con la bocca appena aperta, ferma, tremante — Giò capì che quel bacio era peggio di una scopata: era una promessa.
Che lui non sapeva se voleva.
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