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Gay & Bisex

L'ODORE DEL PASSATO 4


di SERSEX
17.06.2025    |    953    |    5 9.1
"Roberto si limitò a posarla e a sorridere, un po’ amaro, un po’ consapevole..."
I giorni che seguirono furono come una lunga notte che non voleva finire. Elena non parlava quasi con nessuno. La casa sembrava vuota anche quando era piena di voci. Ogni gesto quotidiano – versare il caffè, sistemare un maglione piegato male, guardare la televisione distrattamente – portava con sé il peso del non detto, il silenzio che cresceva come un muro tra lei e tutto ciò che era stato.
Aveva sempre pensato che la famiglia potesse bastare, che l’amore per i figli, la forza del “dovere”, potessero tenere insieme tutto. Ma adesso la verità la guardava in faccia: Roberto non era più suo da tempo. E forse non lo era mai stato davvero.
Quando finalmente si decise a parlare con lui, lo fece senza preamboli. Gli chiese di uscire, lontano dai ragazzi, lontano dalle pareti di casa che avevano assorbito troppi segreti.
Si trovarono in un parco, su una panchina che guardava un viale di tigli. Era freddo, ma nessuno dei due sembrava accorgersene.
«Ho parlato con Giò,» disse lei piano, guardando le mani intrecciate nel grembo.
Roberto la fissò, muto. Le sue dita si strinsero nel cappotto, come se cercassero un’àncora.
«Mi ha raccontato tutto,» continuò lei. «O quasi tutto. Non con parole precise, ma... ho capito. Ho visto negli occhi di nostro figlio una ferita aperta. E mi sono resa conto di quanta distruzione sono riuscita a seminare solo per non voler vedere.»
Roberto distolse lo sguardo. Aveva le pupille lucide, ma non una lacrima. Solo il peso dell’ammissione che non sapeva più rimandare.
«Ti sei innamorato di lui, vero?» chiese Elena con voce lieve, senza accusarlo.
Silenzio.
Poi Roberto annuì. Lentamente, come se quel gesto gli costasse l’ultima briciola di resistenza.
«Da tanto tempo. Ma non ho mai voluto ammetterlo, nemmeno con me stesso. Ho provato a spegnere tutto. A restare per i ragazzi, per te. Per l’immagine che avevamo costruito.»
Elena lo ascoltava senza rabbia. C’era, in lei, una dolcezza triste, di quelle che arrivano solo dopo un lungo dolore. La dolcezza di chi ha smesso di lottare contro qualcosa che non può cambiare.
«Io non ti odio, Roberto. Forse ti ho odiato, per un momento, ma adesso no. Sono stanca. Stanca di chiedere amore dove non ce n’è più. E soprattutto... stanca di vedere i nostri figli vivere nel mezzo di questo disastro, fingendo che tutto vada bene.»
Fu in quel momento che la voce di Roberto si incrinò. Parlò con un filo di voce, come se stesse confessando qualcosa a un confessore, non alla donna con cui aveva condiviso trent'anni di vita.
«Mi fanno paura. I miei figli. Perché non so più come guardarli negli occhi. Non so se mi odiano, se mi giudicano. Non so se sapranno mai perdonarmi.»
Elena si alzò, si sedette accanto a lui. Non più davanti, ma al suo fianco. Come madre. Come donna che capisce.
«Parla con loro. Con tutto l’amore che hai. Non chiedere di essere capito, ma offri la tua verità. Sono più forti di quanto pensi. E lo meriti anche tu, Roberto. Meriti di vivere. Di essere vero.»
Roberto scoppiò a piangere. Un pianto muto, disperato, che si portava dietro anni di silenzi, di notti insonni, di desideri nascosti sotto strati di paura e vergogna.

La sera stessa, Roberto radunò i figli in salotto. Nessuna grande cerimonia, nessun discorso preparato. Solo lui, in piedi, davanti a loro. I ragazzi lo guardavano con occhi inquieti, come chi ha intuito tutto ma non sa come reagire.
«Non voglio più mentirvi,» disse. «Non posso più farlo. Ho vissuto una vita intera cercando di essere ciò che dovevo, non ciò che ero. E nel farlo, ho ferito tutti. Voi, vostra madre... me stesso.»
Silenzio.
«Ho conosciuto una persona che ha risvegliato qualcosa in me che credevo morto. Un uomo. E ho capito che... non posso più continuare così. Ma questo non cambia una cosa, la più importante: io vi amo. Vi amerò per sempre. In ogni gesto, in ogni respiro. Non sarò mai lontano, nemmeno se non vivrò più qui. Non voglio che questa verità sia un’ombra su di voi, ma una porta aperta. Non chiedetemi di essere perfetto. Chiedetemi solo di essere sincero.»
Il più grande dei figli, Marco, si alzò. Era alto quasi quanto lui. Lo guardò in silenzio, poi fece un passo avanti. E lo abbracciò.
Roberto trattenne il fiato. Poi sentì anche le braccia del più piccolo stringersi attorno a lui. E infine, in un gesto che li sorprese tutti, anche Elena si avvicinò, posando una mano sulla spalla di quell’uomo che era stato suo marito.
«Vai da lui,» disse. «Non perdere altro tempo.»
La mattina dopo, Roberto riempì una piccola valigia. Non portò molto con sé. Il necessario. Il resto, lo avrebbe lasciato andare.
Quando arrivò davanti alla porta di Giò, il cuore gli batteva così forte che temette di svenire. Ma bussò. E aspettò.
Giò aprì. Era spettinato, in felpa e jeans, come se avesse passato la notte sveglio. Lo guardò negli occhi. E non disse nulla.
Fu Roberto a parlare per primo.
«Se è troppo tardi... te ne prego, dimmelo. Ma io... non voglio più vivere a metà. Se tu mi vuoi, anche solo un po’, se c’è ancora qualcosa che possiamo costruire, allora sono qui. Sono tutto qui.»
Giò lo fissò a lungo. Poi sorrise, piano. Lo tirò dentro casa senza dire una parola, chiuse la porta alle loro spalle. E lo abbracciò forte, come se volesse trattenere anni interi.
Solo dopo, sussurrò all’orecchio:
«Non è tardi. Ma ora devi imparare ad amare anche te stesso. Io ti aiuterò.»

Le prime settimane insieme non furono facili. Non c’era più l’urgenza segreta degli incontri rubati, né la tensione morbosa del proibito. Ma nemmeno la serenità piena delle coppie che si sono amate da sempre. C’era un uomo che aveva imparato troppo tardi a respirare con il proprio cuore, e un altro che aveva aspettato così a lungo da avere quasi smesso di sperare.
La casa di Giò sembrava assorbirli in una nuova dimensione. Piccola, calda, piena di libri e fotografie di viaggi. Roberto camminava piano per le stanze, come se temesse di rompere qualcosa. Una sera trovò una vecchia Polaroid di Giò da ragazzo, con un altro uomo. Giò lo guardò e non disse nulla. Roberto si limitò a posarla e a sorridere, un po’ amaro, un po’ consapevole.
«Hai vissuto una vita che io non ho avuto il coraggio di vivere,» mormorò. «Ora non so nemmeno da dove cominciare.»
Giò si avvicinò, lo accarezzò sul volto.
«Da me. Comincia da me. Ma non aspettarti che io sia un’ancora. Io non ti salverò, Roberto. Però ti starò accanto. Ogni giorno. Anche se a volte fa male.»
E faceva male, sì. Le prime notti non furono d’amore, ma di pianto e silenzi. Roberto si svegliava con il peso dei figli, di Elena, del passato che non si cancella. Una sera, nel letto, sussurrò:
«Ho paura di non saperti bastare.»
Giò si voltò verso di lui, nudo sotto le lenzuola, gli occhi lucidi ma fermi.
«Non devi bastarmi. Devi esserci. Devi lasciarti toccare, guardare, desiderare. E se un giorno te ne andrai, io lo accetterò. Ma fino ad allora, resta. Resta davvero.»
Lo fece salire a cavallo, lo baciò piano, come la prima volta. E fecero l’amore — non più come due corpi affamati, ma come due uomini pieni di ferite, che si scoprono piano. Roberto tremava, ma si lasciava guidare. La sua voce rotta, quando venne dentro di lui, fu come un singhiozzo liberatorio. Non era sesso, solo: era casa.
Ma c’erano giorni in cui l’ombra di Elena ricompariva. O quando uno dei figli mandava un messaggio e Roberto si chiudeva in bagno per rispondere. A volte stava in silenzio per ore, seduto sul balcone a guardare il cielo. E Giò imparava a non forzarlo.
Una sera, però, dopo una telefonata con il figlio più piccolo, Roberto rientrò in casa con un’aria diversa. Aveva gli occhi lucidi, ma non spenti.
«Mi ha detto una cosa che non dimenticherò mai,» disse, poggiando la testa sul petto di Giò. «Ha detto: “Papà, non voglio che tu sia felice per noi. Voglio che tu sia felice anche senza di noi. Io ti amerò lo stesso.”»
Giò gli accarezzò i capelli, in silenzio. Lo sentiva sciogliersi lentamente, giorno dopo giorno, come neve che finalmente trova primavera.
Una mattina d’inizio marzo, Roberto gli preparò il caffè e lo servì a letto. Era nudo sotto la vestaglia, con una cicatrice nuova sulla spalla — quella del tatuaggio che si era fatto a vent’anni, un simbolo che non riconosceva più. Se l’era fatto coprire. Ora c’era scritto solo: “Per essere veri”.
«Perché l’hai fatto?» chiese Giò, toccandogli piano la pelle.
«Per ricordarmi chi sono diventato. E che ci ho messo troppo, ma ora non torno indietro.»
Quella sera, uscirono insieme, mano nella mano, lungo i viali di Bologna. Non importava più chi li vedeva. La città che per anni era stata testimone silenziosa di notti segrete, ora li accompagnava nei gesti quotidiani. Un bacio sul collo, un sorriso, una carezza in pubblico.
Alla fine della passeggiata, ai Giardini Margherita, lo stesso posto dove Roberto aveva parlato con Elena, lui si fermò. Guardò Giò negli occhi.
«È qui che ho capito che non volevo più perderti. E che dovevo avere il coraggio di dire ai miei figli che il loro padre amava un uomo. Qui ho cominciato a vivere. E se vuoi... vorrei che fosse qui anche il nostro inizio.»

Giò lo abbracciò forte, sentendolo fremere come un ragazzo.
«È già cominciato. Ma adesso possiamo viverlo davvero.»
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