Gay & Bisex
Riposa in me...

11.05.2025 |
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"Giò stava per entrare in Dipartimento quando lo vide: Luca, il cugino di Vito, che si era trasferito a Bologna da adolescente..."
Lui era tornato.Dopo settimane di silenzio, dopo quell’ultima telefonata gelida in cui aveva detto solo: "È fernut", senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo negli occhi. Aveva preso tutto – i vestiti, i vinili, persino quel cazzo di accendino con inciso il loro primo bacio a Posillipo – lasciando solo un letto sfatto e il suo odore nei cuscini.
E ora bussava alla porta.
Giò non sapeva se aprire.
Aveva passato notti a piangere, giorni a convincersi che fosse tutta un’illusione, che quell’amore, quel corpo, quelle notti a gridare contro il mondo fossero solo carne e sudore, niente cuore. Ma il cuore non mente quando pulsa giù nei pantaloni.
Aprì.
Vito era lì. Più bello, più bastardo. Lo guardava con la stessa bocca che una volta lo chiamava "vita mia". Ma ora era solo un muscolo freddo, duro, pronto a fare male.
— "Che vuoi?"
— "Parlare..."
— "Co che? Co l’organo tuo peggiore?"
Lo spinse dentro. Non per dolcezza, ma per vendetta. Lo sbatté al muro. Gli ficcò la lingua in bocca come si ficca un coltello in una ferita che non vuole rimarginarsi. Nessuna carezza, solo mani che strappano, che pretendono, che gridano "nun te perdon chiu" senza fiatare.
I vestiti caddero come cadono le bugie: veloci, senza grazia.
Giò lo fece inginocchiare.
— "Mo mi dimostri che mi volevi. Con la bocca. L’unica cosa che ti funziona bene."
Vito non rispose. Inghiottì tutto. Senza pudore. Senza amore.
Solo per sentirsi ancora dentro a quel rancore, a quella rabbia che bruciava più di qualsiasi sentimento.
La notte fu lunga. Le lenzuola si impregnarono di sudore, saliva, e parole non dette.
Si scambiarono colpi, urla, morsi. Si amarono come ci si odia.
E alla fine, mentre Giò lo stringeva da dietro, spingendo forte e sporco, gli sussurrò all’orecchio:
— "T’aggià rat tutto o tiemp ca è passat. Mo sparisc."
Flashback – Napoli, agosto 2023
Napoli era una fornace. Il Vesuvio fermo, immobile, sembrava guardare in silenzio la città che si scioglieva sotto il sole. I vicoli sapevano di fritto, di mare, di voglia. E Giò era lì da tre giorni, ospite da un amico a Montesanto, cercando di dimenticare l’ultima storia finita a calci nello stomaco e messaggi non letti.
Lo vide alla Sanità, tra i banchi del mercato.Vito portava una maglietta tagliata, le braccia tatuate e un sorriso strafottente da far perdere la testa. Aveva preso un fico, l’aveva aperto con le mani e se l’era portato alle labbra. Lo succhiava lento, sensuale, mentre gli occhi si posavano su Giò con una sfida silenziosa.
Non servì molto.
Due ore dopo erano nella stanza calda di un B&B anonimo dietro Piazza Cavour. Non si erano nemmeno detti i nomi. Si erano solo guardati, poi toccati. Il primo bacio fu ruvido, troppo. Il secondo già bastava per far capire che quella cosa lì non sarebbe finita in un pomeriggio.
Giò era steso sul letto, nudo, mentre Vito gli slacciava i pantaloni col viso tra le gambe. La bocca era brava, esperta, e non aveva nessuna fretta. Lo guardava dal basso, con quella fame negli occhi che si vede solo in chi ha bisogno di sfogare qualcosa di più grande del sesso.
— "T’è piaciuto il fico?", chiese Giò, con un mezzo sorriso.
Vito rispose solo spingendogli le gambe in alto. Gli passò la lingua lungo l’interno coscia, fino a sfiorargli l’anima. Lo fece lentamente, come si esplora una ferita. Come se sapesse già che da lì in poi non ci sarebbe più stato ritorno.
— "Stai zitto", sussurrò, entrando dentro di lui con forza.
Non fu dolce. Fu preciso, sporco, maledettamente vero.
Si muovevano insieme come due animali che si erano riconosciuti nella giungla di una città bollente. Ogni spinta era un’accusa, ogni respiro un grido di piacere. La stanza si riempì di corpi, fiato, e promesse non dette.
Quando vennero – prima Giò, poi Vito – non c’erano parole. Solo un silenzio carico di tutto quello che sarebbe venuto dopo.
Nel letto sfatto, col sole che bucava le persiane, Vito si girò su un fianco. Finalmente parlò:
— "Io mi chiamo Vito."
Giò rise piano, accarezzandogli il petto ancora bagnato.
— "Giò. E sei già un casino."
L’alba filtrava dalle persiane della casa bolognese di Giò, ora sua di nuovo. anche se il letto portava ancora l’odore di Vito. La notte appena passata era stata un massacro. Sudore, urla, pianto e carne. Si erano scopati come se volessero strapparsi via tutto quello che non avevano avuto il coraggio di dirsi.
Ora Vito si stava rivestendo, in silenzio.
Giò lo guardava dal letto, nudo, le lenzuola appiccicate alle cosce. Non parlava. Non ne aveva la forza. Solo il cuore gli faceva male, in un punto preciso, come se qualcuno lo stesse tenendo premuto con un pugno chiuso.
— "Ce ne dobbiamo andare da questa storia, Giò," disse Vito, mentre si infilava la maglietta.
— "Parla per te," rispose lui, con la voce rotta, "io ci stavo ancora dentro."
— "Appunto. È questo il problema. Tu ci stai dentro, io ci affogo."
Il silenzio riempì la stanza. Le parole galleggiavano tra i vestiti a terra e le bottiglie vuote della notte.
Vito si avvicinò al letto, si chinò su Giò. Lo baciò. Lentamente. Con tutto l’amore che non aveva mai saputo dimostrare.
— "Tu sei la persona giusta, nel momento sbagliato," sussurrò.
— "E tu sei solo sbagliato," disse Giò. Ma lo guardava con gli occhi pieni di lacrime.
Vito fece per andarsene, ma si fermò alla porta.
— "Non chiamarmi. Per favore. Stavolta fammi sparire davvero."
Giò chiuse gli occhi. Quando li riaprì, era solo.
Si alzò, nudo. Si guardò allo specchio del corridoio. Aveva i segni sul collo, i lividi dell’amore disperato che si erano appena fatti. Gli venne da ridere. Poi da piangere. Poi, senza pensarci, si portò una mano tra le gambe. Era ancora duro. Ancora suo. Come se il corpo si rifiutasse di lasciarlo andare.
Lo masturbò pensando a Vito che lo scopava la notte prima. Pensando a come lo guardava quando veniva, a come gli mordeva la spalla, a come lo stringeva da dietro come se volesse restarci per sempre.
Venendo, gridò forte. Forse per lui. Forse per sé.
Poi cadde in ginocchio.
E capì che l’amore, quello vero, a volte non finisce quando finisce. Resta lì, sporco e pulsante, dentro il sangue, dentro la pelle.
E non te lo puoi strappare.
Pioveva da giorni. Giò camminava per via Zamboni con la sciarpa bagnata e i pensieri pieni di crepe. Non aveva più notizie di Vito da oltre tre mesi. Nessun messaggio, nessuna chiamata. Solo un vuoto. L’aveva lasciato, nudo e sanguinante d’amore, e poi basta. Silenzio assoluto.
Giò stava per entrare in Dipartimento quando lo vide: Luca, il cugino di Vito, che si era trasferito a Bologna da adolescente. Non si incrociavano da mesi. Si fermarono, entrambi visibilmente imbarazzati."
— “Giò…”
— “Dimmi solo dove cazzo sta. Non voglio più impazzire.”
Luca lo guardò. Esitò. Poi gli prese un braccio e lo portò sotto il portico. Tirò fuori una sigaretta. Gliela offrì.
— “Non te l’ha detto, vero?”
— “Cosa?”
Luca guardò in basso. Si passò una mano tra i capelli.
— “Vito ha il fegato fottuto. Una roba genetica, rara. Ha scoperto tutto quest’estate. Ha fatto finta di niente per un po’, ma poi… ha iniziato a peggiorare. E quando vi siete rivisti a Bologna… be’, aveva già deciso.”
— “Deciso cosa?”
— “Di andarsene prima che lo vedessi spegnersi.”
Giò non disse niente. Si voltò. Guardava la pioggia colare dal cornicione. Le mani gli tremavano.
— “Ti ama, Giò. È per questo che se n’è andato. Non voleva diventare un peso. Non voleva che tu lo vedessi cambiare, diventare altro.”
— “Stronzo.”
— “Sì. Ma innamorato.”
Giò si voltò verso Luca. Lo fissò a lungo.
Poi corse. Non prese nemmeno l’ombrello.
Quella notte, a casa.
Si versò un bicchiere di vino. Non riusciva a smettere di pensare a lui. Alla verità. Alla malattia. A quell’ultima scopata in cui Vito aveva dentro tutto: rabbia, dolore, addio.
Si spogliò lentamente. Rimase nudo davanti allo specchio. Si sfiorò il petto, come se cercasse ancora le mani di Vito. Lo sentiva, ovunque. Nelle vertebre, nella saliva secca, nel respiro che non bastava più.
Si stese sul letto. Si toccò. Lentamente. Ma non venne. Non ci riusciva. Senza di lui il corpo era solo carne.
Chiuse gli occhi. Sentì la voce di Vito
— "Stavolta fammi sparire davvero."
E capì. Che lo aveva amato come si ama quando si sa di non avere tempo.
E lì, sotto le lenzuola fredde, Giò pianse. Pianse senza pudore, senza tregua, con i muscoli tesi e la bocca aperta, come quando veniva.
Ma questa volta non c’era piacere. Solo amore che fa male.
Salerno, aprile 2025.
Il cielo era bianco, senza colore. Il mare sembrava trattenere il fiato.
Giò scese dal treno con le gambe che tremavano. Aveva in tasca solo un biglietto scarabocchiato da Luca: “Via dei Gelsi, 14. Ultimi giorni.” Nessuna spiegazione. Nessuna promessa.
Aveva dormito male. Sognava Vito che rideva, poi vomitava sangue, poi gli sussurrava: “Non venire.” Ma lui era venuto lo stesso.
Camminò per più di mezz’ora, salendo per stradine strette tra muretti pieni di muschio e silenzio.
Arrivò davanti al cancello. La casa era piccola, chiusa, con i vasi secchi e il portico disabitato.
Suonò.
Una donna anziana aprì la porta. Lo guardò negli occhi. E capì.
— “Sei tu. Sei Giò.”
Lui non parlò. Le lacrime cominciarono a scendere senza controllo.
Lei fece un passo indietro. Poi disse, piano:
— “È morto questa notte.”
Giò vacillò. Il mondo si strinse. Si appoggiò al muro. Sentiva solo un ronzio nella testa.
— “Ha chiesto di te. Ha detto… digli che ho fatto tutto per amore.”
Lo fecero entrare. Lo accompagnarono in una stanzetta fredda, piena di fotografie e odore di camomilla. Il corpo era disteso sotto un lenzuolo bianco.
Giò si inginocchiò. Scoprì il viso. Vito era pallido, scavato. Ma sembrava sereno. Le labbra chiuse come se stesse dormendo.
Lo accarezzò. Le dita tremavano.
— “Stronzo,” sussurrò, “stronzo di merda… avrei voluto essere con te, ogni istante, tenerti accanto mentre ti spegnevi, perché non mi hai lasciato morire con te?"
Appoggiò la fronte sul petto freddo. Non piangeva più. Gli usciva solo un rumore strano dalla gola, come un lamento animale, come un dolore antico che non conosce parola.
Restò lì ore.
Poi scrisse un biglietto. Lo piegò in due. Lo infilò nella tasca della camicia che gli avevano messo addosso.
“Ti ho cercato. Anche se mi avevi detto di no. Ti ho trovato. Ma non basta. E non basterà mai. Riposa in pace, amore mio. Portami via nei sogni, almeno.”
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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