tradimenti
Il giorno che presi Lidia per dispetto


19.05.2025 |
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"Ma certe volte la vita ti stuzzica senza che tu l’abbia chiesto..."
Non l’avevo mai guardata davvero, Lidia. Troppo giovane, troppo moderna, troppo “TikTok” per uno come me. Ma certe volte la vita ti stuzzica senza che tu l’abbia chiesto. Era estate, caldo bastardo, e lei usciva sul balcone con quei pantaloncini minuscoli e le canottiere senza reggiseno. Ogni giorno. Come se fosse una sfida. Come se sapesse che io la guardavo.E io la guardavo, eccome se la guardavo.
Il marito? Un idiota, uno di quelli che salutano con la mano molle e la testa già nel telefono. Mai una parola, mai un’occhiata. Me lo immaginavo mentre Lidia si spogliava davanti allo specchio e lui neanche la sfiorava. Bastava quello per farmi arrabbiare. Non per gelosia. Per principio.
Una mattina, la becco sull’ascensore. Solo noi due. Vestita da jogging, ma senza mutande: si capiva subito da come camminava. Le faccio un complimento, grezzo, diretto:
— Sei un peccato ambulante, lo sai?
Mi guarda, ride. Ma non dice di no. Non si scandalizza. Mi guarda ancora. E quello sguardo mi dice tutto.
Quella sera suonò lei. Un pretesto: chiese zucchero. Sorriso storto, occhi bassi, ma mani ferme. La feci entrare. Era scalza. Pantaloncini di nuovo, questa volta ancora più corti. Le offrii un bicchiere. Non lo finì. Si voltò verso di me. E io non aspettai.
La presi. La piegai sul tavolo della cucina. Niente parole dolci, niente lentezze. Solo pelle, fiato, sguardi e dita che stringevano forte. Lei ansimava, ma non implorava. Non era una vittima, era complice. Lì, nuda contro il legno del mio tavolo, mentre fuori le cicale facevano casino e suo marito guardava il telegiornale di là dal muro.
Lo feci per me, ma anche per lui. Perché certe cose non si perdonano. Una ragazza così non si lascia affamata.
E io, Andrea, gliel’ho fatta pagare. Fino all’ultima spinta.
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Lidia – Secondo round: il dispetto diventa ossessione
Non tornò il giorno dopo, né quello dopo ancora. Ma io lo sapevo che sarebbe tornata. Quelle come lei non si accontentano di una scopata improvvisa sul tavolo. Quelle come lei, quando le sblocchi, non tornano più indietro.
Arrivò il venerdì sera. Senza scuse, senza zucchero da chiedere.
— Posso entrare?
Non risposi. Le presi il polso e la trascinai dentro. Chiusi la porta con una spinta e le strappai la felpa di dosso. Niente reggiseno, di nuovo. Ma stavolta neanche pantaloncini. Solo una maglietta lunga e… basta. Nuda sotto. Mi stava provocando. Anzi, no: voleva essere presa. Dritta. Forte. Sporco. Bestiale.
La buttai sul divano. Le aprii le gambe come se fossero mie. E lo erano. La mia lingua ci finì dentro come una lama calda nel burro. Si contorceva, gemeva, mi diceva “sì, sì” come se stesse perdendo il controllo. E io? Godevo. Le tirai i capelli, glieli infilai in bocca mentre la prendevo con due dita e poi con tre, finché non mi implorò di fermarmi, ma il suo corpo diceva l’opposto.
Me la rigirai, faccia in giù. Presi l’olio da cucina – era lì, sul tavolo – e glielo versai lungo la schiena, tra le chiappe, lentamente. Lei ansimava, si mordeva il cuscino. Sapeva cosa stava per succedere. Lo voleva. Aprii quel varco con le dita, prima una, poi due, mentre il mio respiro si faceva più grosso.
E quando entrai dentro di lei, da dietro, nel posto proibito, la sentii tremare. Ma non si oppose. Mi strinse forte, il suo corpo si apriva mentre io la invadevo, senza pietà. Ogni colpo era più profondo, più sporco, più mio. Le dicevo porcherie all’orecchio, le ordinavo di non muoversi, di star ferma, e lei lo faceva. Obbediva, gemendo come se stesse impazzendo.
La venni addosso, dentro, ovunque. Sul sedere, sulla schiena, sul viso mentre mi guardava con gli occhi lucidi, ma fieri. Era sua la scelta. Era sua la dannazione.
La lasciai lì, nuda e sfinita sul divano, col corpo segnato e la pelle che odorava di sesso e olio.
— Tu non sei venuta qui per me — le dissi prima che uscisse — sei venuta perché lui non è uomo. Ma io sì.
Lei non rispose. Ma tornò anche la settimana dopo.
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Il giorno che Lidia si superò
Quella volta arrivò con un’aria diversa. Sicura, quasi arrogante. Mi guardò negli occhi e mi disse:
— Mio marito vale meno di niente, Andrea. Con te… con te è tutta un’altra cosa.
Non era una frase detta per piacere o per gioco. Era una confessione. Un’ammissione che mi fece sentire padrone non solo del suo corpo, ma anche della sua mente.
La feci entrare senza chiedere nulla. Si tolse la giacca, la maglietta, e rimase lì, davanti a me, completamente nuda. Aveva preparato tutto, anche quella volta. Il profumo, la pelle morbida, il modo in cui mi sfidava senza paura.
La presi subito, con forza, senza attendere. Sapevo che non si sarebbe tirata indietro. Ogni volta era un’esplosione diversa. Quel giorno però… quel giorno andammo oltre.
La portai in camera da letto. La buttai sul letto, la legai ai quattro angoli con la sciarpa di seta che tenevo nella mia scrivania. Lei rise, eccitata, lo sguardo feroce.
— Voglio che tu perda il controllo — le dissi.
E lo persi. La usai in tutti i modi possibili: le mani, la bocca, i giochi più sporchi che potessi immaginare. Lei era un fuoco, un incendio che non volevo spegnere. Gridava, gemeva, implorava, ma non si fermava.
Alla fine, quando ci sdraiammo entrambi sudati, lei mi guardò e mi disse:
— Andrea, con te sono viva. Mio marito? Non esiste.
La strinsi a me, sapendo che quel legame non era solo fisico. Era qualcosa di più. Di pericoloso. Di proibito.
E io, Andrea, avevo vinto.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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