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Lui & Lei

99 frustate - Prima parte


di Honeymark
07.05.2012    |    27.628    |    1 9.6
"Volevo chiedere che tipo di frusta avrebbero usato e altri particolari tecnici, ma mi aveva fatto cenno che me lo avrebbe detto senza farsi sentire da lei..."
TITOLO: 99 FRUSTATE
AUTORE: MARCO MIELI
GENERE: SADOMASO (PIU’ MASO CHE SADO)



Eravamo in viaggio verso una capitale degli emirati arabi del quale, per motivi che si capiranno più avanti, non farò il nome.
Io e mia moglie lavoriamo per una grande compagnia aerea europea. Lei fa la hostess, io lo steward. Siamo, se non bellissimi, quantomeno avvenenti. Di corporatura atletica e giovanile, come ci si aspetta da gente che fa il nostro lavoro.
E stavamo andando a un incontro di lavoro, perché una grande finanziaria mediorientale voleva aprire una compagnia aerea e avevano intenzione di assumerci con il ruolo di organizzare un po’ tutto il personale di assistenza al volo.
Non eravamo sicuri di accettare, ma ci avevano ben pagati e l’offerta era così allettante da andare a vedere. Eppoi, volevamo fregare una coppia ci hostess e steward concorrenti, della Lufthansa. Si chiamavano Karola e Helmut Schonsberg, due bastardi. E Sapevamo che avrebbero potuto offrirlo a loro, e loro avrebbero accettato.

Ci avrebbero ospitati per una settimana, perciò avevamo un bagaglio a mano e una valigia a testa.
Giunti al luggage claim, prendemmo le valige e andammo alla dogana. Niente di speciale, ci siamo abituati.
Ci chiesero di aprire i bagagli, come facevano a caso ogni tot persone. Le aprimmo e restammo di sasso.
Nella mia valigia c’erano 12 bottiglie di Whisky, in quella di mia moglie una dozzina di bibbie.

Fummo pregati di attendere in una saletta, dove restammo per una mezzora senza aprir bocca, tanto era stata la nostra sorpresa e, comprensibilmente, la nostra angoscia, perché non avevamo idea né chi fosse stato il bastardo che aveva approfittato della nostra facilità a passare i confini, né tantomeno che cosa ci avrebbero potuto fare adesso.
Prima ancora che potessimo parlare tra noi, giunse un funzionario. Parlava inglese e ci disse che era un dirigente della polizia turistica.
Gli chiedemmo di farci rilasciare, ché non c’entravamo per nulla. Anzi, gli abbiamo detto che entrambi eravamo astemi e agnostici.
«Vi posso credere, – ci disse con tono affabile. – Ma purtroppo dovrete convincere un giudice, perché la tentata introduzione in questo paese di alcolici e di libri di religione non musulmana, è un reato piuttosto grave.»
«Grave quanto?» – Chiesi dopo una lunga pausa di silenzio.
«Oh, suvvia – ci rispose per rincuorarci. – Vedrete che andrà tutto bene. Adesso dovete venire con me alla sede della Polizia Turistica. Vediamo di concludere tutto al più presto.»
«Lei è gentile… – Disse mia moglie, seguendolo insieme a me. – Non può farci rilasciare così, senza troppe difficoltà?»
«Io sono gentile di professione. – Rispose. – La polizia turistica lavora a favore dei turisti. Siete una risorsa importante del nostro paese, per questo hanno inviato me. Ma non c’è nulla da fare. – Sorrise ancora. – Vedrete che non succederà nulla.»
«Pensa che sia il caso di chiamare la nostra ambasciata?» – Domandai.
«L’Italia ha un ambasciatore itinerante. Per esperienza so che potreste perdere qualche giorno prima di conferire con lui. Vi consiglio di provare a risolvere tutto al più presto.»

Disse che non ci avrebbe fatto ammanettare, ma ci avrebbe fatto accomodare dietro in auto, con le porte che non si potevano aprire dall’interno. La Prassi.
Giungemmo in un palazzo squadrato, ben tenuto, color sabbia, non troppo cupo anche se privo di finestre, con palme all’esterno, ma assolutamente nulla nel cortile.
Ci fece scendere e degli agenti ci accompagnarono al primo piano, poi ci chiusero in una stanza.
«Non so cosa dire. – Dissi a mia moglie, che era bianca in faccia. – Se becco chi ci ha fatto questo scherzo…»
«Diomio! – Disse lei, stringendosi lo stomaco con le braccia. – Pensa se avessero messo droga…» Ma come hanno fatto?»
«Ah, è stato di sicuro allo scalo di Bubay.» – Risposi.
«Come fai a dirlo?»
«Abbiamo fatto solo quello scalo.»
«Anche Roma.»
«Sì, ma li non è possibile.»
Ci interruppe il funzionario, che entrò e ci pregò di seguirlo nel suo ufficio.»
Ci fece accomodare e disse all’agente che ci aveva seguiti di lasciarci soli.
«Dunque, – iniziò. – Sono riuscito a ottenere che veniate processati questo pomeriggio. Come ho detto, i turisti…»
«Sì, – lo interruppi. – Possiamo avere un avvocato che parli inglese?»
Mia moglie continuava a tenersi lo stomaco. Stava vivendo tutto come se fosse un incubo, per cui anch’io cercavo di usare parole giuste per non allarmarla.
«No, non ce ne sono. – Rispose. – Però posso assistervi io.»
«Già, che per voi i turisti…»
«Marco, ti prego.»
Mi girai verso mia moglie e smisi di parlare.
«Quando sarebbe?»
Guardò l’ora.
«Ci chiamano quando viene. Ma credo che potrà essere qui alle 16.»
«Tra pochissimo. – Sottolineò mia moglie, sollevata. – In Italia…»
Poi si fermò, perché in quel momento avrebbe preferito essere mille volte in Italia.

Restò cortesemente con noi fino alle 17, quando ci chiamarono.
«Il giudice è arrivato. – Ci disse traducendo quello ace aveva detto un agente. – Andiamo e vediamo di risolvere tutto.»
Feci per prendere mia moglie sotto braccio, ma lui ci fermò.
«Mi spiace, ma devo portarvi in aula ammanettati.»
«Cosa?»
«Sì, purtroppo questa è la regola.»
Con catene alle mani bloccate davanti, ci fecero scendere nei sotterranei, quindi proseguimmo a piedi lungo un corridoio di un centinaio di metri, quindi ci fecero salire di un piano. Eravamo terrorizzati, schiacciati dal senso del potere di uno Stato che non conoscevamo e che certamente è più duro e rude del nostro.
Entrammo in una sala che sembrava l’aula magna di una scuola media. Eravamo solo noi, cioè io e mia moglie, il funzionario e due agenti. Ci fecero accomodare, ma senza toglierci le manette.
Il giudice entrò quasi subito, accompagnato da una donna con la testa coperta alla musulmana. Una stenografa o qualcosa del genere. Noi facemmo per alzarci, ma ci fecero stare seduti.
Il giudice lesse il verbale, ci guardò, poi parlò in arabo con il funzionario. Dialogarono per cinque minuti senza che noi capissimo nulla, salvo il tono che era teso e aspro. Poi smisero e il funzionario si rivolse a noi in inglese.
«Sentite – ci disse, con un certo imbarazzo. – Il giudice vi chiede se preferite il carcere o una pena corporale…»
«Una cosa?»
«Frustate. La pena corporale significa frustate.»
Restammo entrambi zitti, senza proferir parola, finché il giudice non incalzò in arabo.
«Dovete darmi una risposta.»
«Ma, dico, sta scherzando? – Rispondo. – Siamo esseri civili!»
«Ecco, dica al giudice che siamo incivili e vedrà che…»
«Potrebbe essere più preciso? – Domandò mia moglie, riprendendo la calma. – Quanto carcere o… quante frustate?»
Ci girammo verso di lei.
«Cara… – Dissi – Non esiste, io, tu, noi…»
«Fallo rispondere. Io non intendo restare qui un solo giorno, preferisco mille volte le frustate.»
«Ma non dire stronzate! – Le rispondo – Solleviamo un caso internazionale, piuttosto.»
«Sì – commenta il funzionario. – E magari restate qui per un anno in attesa che i rapporti diplomatici giungano a una decisione?»
Il giudice sollecitò una decisione.
«Le frustate. – Disse mia moglie, sollevando fieramente il mento. – Ho deciso.»
«Ma tu sei pazza! Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo?»
«Senti, – disse con tenerezza. – Caccia il tuo orgoglio e ragiona. Ci faranno un po’ di male, poi torniamo a casa…»
Io rimango a bocca aperta.
«Sua moglie ha ragione – disse, – l’ascolti. Qui le carceri sono un inferno. Non sopravvivreste a una settimana. Altro che quattro colpi di frusta…»
«Voi siete pazzi…»
Il funzionario si girò verso il giudice annuendo.
Il giudice scrisse qualcosa, poi lesse la sentenza e firmò il foglio. Si alzò e se ne andò, seguito dalla segretaria.
Il funzionario andò a prendere il foglio, lo lesse e venne verso di noi,
Restò accigliato per un po’, poi ci guardò in faccia.
«Sono costernato. – Disse. – Siete condannati alla confisca del materiale sequestrato e a… novantanove frustate.»

È inutile descrivere qui la nostra reazione e la litigata che seguì tra me e mia moglie. Smettemmo di litigare solo quando ci fece accomodare nuovamente nel suo ufficio e ci fece togliere le manette. Però ci ammanettò alle due sedie imbottite e bloccate al pavimento.
«Non posso più lasciarvi liberi. – Spiegò. – Qui da noi lo status del condannato non è più quello di un essere umano, ma un animale, assimilabile allo schiavo dei tempi antichi.»
Mia moglie piangeva, in preda a una crisi isterica.
«Scusami – diceva tra le lacrime. – Io non volevo trascinarti in questo…»
«Scusami tu. – Provai a calmarla con le parole. – Chissà quanto ci avrebbero dato di carcere!»
«Due anni. – disse il funzionario. – Vi siete risparmiati due anni di carcere. La condanna era di quattro anni, ridotta della metà perché avete deciso di patteggiare, anche perché il massimo delle frustate che possono essere somministrate sono 99, una meno di cento, quindi ha adattato il carcere alle frustate. Ha avuto buonsenso, alla fin dei conti.»
Guardai il funzionario.
«Cosa accadrà adesso? – Chiesi a testa bassa, annientato. – Quando ci… ci frusteranno? E come avverrà la somministrazione della pena?»
In pochissimo tempo ho perso la mia sicurezza, la mia capacità di trascinare la gente, di sapere sempre cosa dire ai miei passeggeri, di dominare anche quando faccio sesso…
«Verrete denudati. – Rispose con un certo pudore. Nessuno di noi alza la testa. – Verrete portati in una sala dove saranno posti due piccoli tavoli, o due grandi sgabelli, come si vuol dire. Verrete legati così, a carponi, seguendo le gambe dello sgabellone.»
Poi andò avanti con i dettagli. Sperai che mia moglie non realizzasse ciò che stava dicendo.
«Chi verrà frustato per primo?» – Chiesi poi con un fil di voce. Non so cosa sia meglio per mia moglie.
«Non ve l’ho detto, ma il giudice ha disposto che siate frustati insieme…»
Entrambi alzammo la testa.
«Che senso ha?» – Chiesi.
«Lo ha stabilito il giudice. Forse perché siete stati beccati insieme.»
«Quando?»
«Oggi, alle 21.»
Gridiamo tutti due.
«Cosa? Nooo!»
«Cristo, almeno lasciarci sedimentare per una notte…»
«Ma perché? Cosa vi abbiamo fatto!»
Mia moglie stava per avere una crisi di nervi.
«Cara, Anna cara, vedrai che è meglio così.»
Il funzionario si avvicina.
«È così, signora, è meglio subito, – dice. – Come le ho detto, un condannato è a totale disposizione dei carcerieri e dei carnefici finché non ha scontato la condanna. Sapendo che sono stati condannati due occidentali come voi, sono certo che vi stanno giocando ai dadi, magari per vendervi ai migliori offerenti.»
Mia moglie caccia un grido isterico. Entrambi proviamo a tranquillizzarla, ma lei è in preda a una crisi. Allora lui le dà uno sberlone e lei si calma, anche se respira col fiatone.
Volevo chiedere che tipo di frusta avrebbero usato e altri particolari tecnici, ma mi aveva fatto cenno che me lo avrebbe detto senza farsi sentire da lei..
Uscì e restammo da soli.
Mia moglie mi chiede di essere forte…
«Mi spiace averti trascinato in questa situazione…»
«Non dire cazzate.»
«Sai, sono certa che quelli desiderano violare me, che sono una donna. E forse per me, che sono una donna, è più facile da sopportare. Me te… Te che sei un uomo… Essere sottomesso e assistere a tua moglie che viene violata…»
«Ripeto: non dire cazzate. In tutto questo, non so cosa darei per tenerti fuori.»
«Ti amo…»
«Anch’io.»

Il funzionario venne a prenderci una decina di minuti dopo e ci tolse le manette. Ci fece uscire e ci accompagnò nuovamente nei piani interrati. Ci fece entrare in una cella, la chiuse.
«Vi devo chiedere di spogliarvi.»
Ci alziamo e lo guardiamo.
«Vi prego, – quasi ci implora. – Fatelo da soli…»
Io e mie moglie ci alziamo, stirandoci un po’ per la costrizione delle manette. Poi ci guardiamo e io le faccio cenno di sì. Per una donna è sempre più facile spogliarsi che per un uomo. Ma Anna è con suo marito e prova un’intensa vergogna.
«Spogliati! – Le ordino, sforzandomi di sorridere. – È inevitabile, ma non ci sono problemi.»
Lei si gira di schiena e comincia sbottonandosi la camicia. Io rimango un attimo guardarla, provando una certa attrazione per quello che sta facendo. Il funzionario ha gli occhi su di lei. Quando si sfila la camicia, vedo quanto è bella. Ha un reggiseno nero che sostiene una terza misura abbondante. Immagino che il maiale si ecciti, ma lui mi fa segno di cominciare a spogliarmi anch’io.
In un attimo tolgo camicia e pantaloni, restando in mutande.
Poi guardo lei, che lascia cadere la gonna. Ha un paio di mutandine a coulotte, una specie si fascia orizzontale che lascia scoperta la parte bassa del culo. È davvero eccitante. Se io fossi un carnefice, sono certo che la violenterei e il solo pensiero mi raggela.
«Per favore – dice il funzionario – datemi la biancheria.»
Lei rimane di schiena e slaccia il reggiseno. Le tette reggono bene anche senza, ne vedo una parte. Belle, tonde, invitanti. Poi sfila rapidamente le mutandine, che è una cosa che non le va proprio. Mi ha sempre chiesto di sfilargliele io…
Alza un piede, poi l’altro, le getta. Ora è nuda.
È bellissima e mi accorgo di non averla mai guardata così, se non per scoparla. Ha solo un filo del costume, ma l’abbronzatura è uniforme e la sua pelle deliziosa. Il suo culo è ovale, perfetto. Sembra l’immagine della femminilità occidentale.
Si gira rossa in viso fiera verso il funzionario che le sta di fronte. Lui la guarda, cerca di restare indifferente, ma vedo che anche lui rimane affascinato dalla sua bellezza. So che vorrebbe chiavarla.
Mia moglie non ha un solo pelo, salvo un triangolino vezzoso che parte da sopra il sesso e sale per qualche centimetro. La vulva si esprime con due labbra armonicamente socchiuse, femminilmente arricciate come se non gradissero essere osservate.
Devo togliermi le muntande anch’io, ma ho l’uccello che dà segno di una iniziale vergognosa erezione.
«Forza!» – Insiste l’altro.
Le tolgo e lascio che l’uccello brandeggi libero nell’aria.
Mia moglie è bellissima e la situazione mi arrapa. Lui allora prende un elastico e me lo infila fino alla base del cazzo.
«È normale, non si preoccupi. – Mi dice sottovoce. – L’erezione è nella natura delle cose. Certamente sua moglie, mi perdoni, si starà bagnando anche se è l’ultima cosa che vuole.»
L’elastico fa il suo lavoro. Stringendo un po’, l’erezione si placa. Non perché blocca il flusso sanguineo, ma per il fastidio che dà.
«Signora, è bellissima. – Dice a mia moglie, che arrossisce. Poi si rivolge a me. – Lei è un uomo fortunato.»
Trattengo a malapena una grossolana risata. Fortunato? Ha ha!
«Siete belli tutti due… – Osserva il funzionario. – Temo che sarete oggetto di attenzioni morbose da parte dei carnefici…»
Non so cosa dire, sto solo provando un principio di formicolio dovuto alla tensione, che immagino salirà fino al momento in cui cominceranno a… Scacciai il pensiero.
«Devo prepararvi. – Continua il funzionario. – Preferisco farlo io. Meno hanno da fare loro e meno sarete molestati.»
Fa girare mia moglie e le fa mettere le mani dietro la schiena. Le unisce i polsi e li lega con due manette di cuoio. Vedo che non le stringe e ne sono grado. Poi si inginocchia e le fa allargare le gambe. Anche questa operazione provoca una leggera erezione al mio pene. Mi vergogno, perché invece dovrai essere disperato. Io non sono geloso, anzi sono fiero che tutti la guardino, ma da vestita, che diamine!
Mette in terra una specie di distanziatore con cavigliere, che poi fissa appena sopra i piedi. In questa maniera mia moglie è obbligata a tenere sempre allargate le gambe. Lei lascia fare, obbedisce docilmente e sono contento che abbia assunto questa decisione. Immagino che anche lei stia provando quel senso di farfalle nello stomaco che provo io, ma non so cosa dirle per aiutarla.
Dopo aver sistemato le pastoie, il funzionario si alza e fa girare nuovamente di fronte. Con le mani legate e le caviglie allargate, sembra pronta per il mercato degli schiavi.
L’uomo prende un grosso collare di cuoio, con l’interno ammorbidito dal feltro. Non lo stringe.
Poi viene da me e lega anche le mie mani dietro la schiena, forse un po’ più stretto che a mia moglie, quindi sistema anche a me le pastoie e conclude mettendomi il collare. Io e mia moglie siamo l’uno davanti all’altra e ci guardiamo. Siamo ridicoli o erotici? In realtà siamo solo terrorizzati dal senso di impotenza che dà la sottomissione dovuta per legge ad altri uomini.
«Un’ultima cosa. – Ci dice il funzionario. – È per il vostro bene…»
Lo vediamo mentre si infila nel dito medio una specie di preservativo di lattice. Sgraniamo gli occhi e proviamo a sottrarci, ma non siamo in grado di offrire resistenza.
«Sentite… – ci dice affabilmente. – È possibile che i carnefici decidano di… Di abusare di voi. La legge glielo consente, ve l’ho detto. Dal momento della condanna alla sua completa esecuzione non sarete soggetti di diritto… Vi prego, inginocchiatevi e poggiate il ventre su quello sgabello.»
Io rimango impietrito, ma mia moglie, dopo un attimo di paralisi, obbedisce. Si sposta goffamente per via delle pastoie e si porta allo sgabello. Fa fatica a inginocchiarsi e lui l’aiuta. Una volta in ginocchio, il suo culo è spalancato. Mi domandai chi potrebbe voler rinunciare ad approfittarne e vengo assalito dall’angoscia. Ma non mi riesce di dire nulla.
L’uomo intinge il medio in un barattolo, quindi si porta al culo di mia moglie. Con una mano si tiene alla natica sinistra e con l’altra si porta al buco del culo. Si avvicina col viso per vedere da vicino, le appoggia il dito e poi, con lenta determinazione, le infila il dito e le lubrifica lo sfintere. Mia moglie, dopo un primo senso di ribrezzo, lascia fare. Forse per una donna è più facile.
Lui l’aiuta ad alzarsi e lei si espone involontariamente come in uno spettacolo osceno. Stupidamente mi viene da abbassare gli occhi per pudore.
Poi tocca a me. Il funzionario si toglie il ditale e ne infila un altro. Mentre sono in ginocchio, lui mi tiene la natica sinistra e con l’altra mi infila il medio nel culo. È bravo perché spinge piano, dando tempo allo sfintere di rilassarsi. Una volta dentro, muove il dito per bene, facendomi sentire nelle sue mani. Mi sento umiliato, e suo.
Non faccio tempo ad alzarmi, che entrano tre uomini. Indossano un caffetano bianco e uno strano piccolo copricapo dello stesso colore. Sono i boia.
Il funzionario ci consegna a loro e i due più giovani allacciano il loro guinzagli al nostro collare. Poi, quello che la tiene con il collare prende mia moglie per la figa e la tira fuori malamente, impacciata per le pastoie. Lei geme, io provo a reagire, ma mi tengono fermo.
Un altro tira me per il guinzaglio e con l’altra mano mi prende l’uccello strattonandomi fuori dalla cella. Esco anch’io impacciato, ma già brutalizzato dentro di me.
Appena fuori, uno davanti ci fa camminare con quelle maledette gambe divaricate e le mani legate dietro la schiena. Il loro capo sta di lato, mentre un altro giovane ci sta dietro e viene a infilare la mano tra le natiche sino a toccare il buco del culo. Non so se lo fa per piacere suo o per molestare noi, certo è che così ci tengono docili docili, cercando di ridurre le loro sevizie con il nostro comportamento ubbidiente.
Mia moglie è del tutto a loro disposizione, figa, tette e buco del culo. Il capo ogni tanto dà delle manate alle tette di lei, così, tanto per tenersi in allenamento. Mia moglie sobbalza, ma non dice nulla. Le dà più fastidio la mano che da dietro la fruga nell’intimità.
Io, poi, ho quell’elastico stretto alla base dell’uccello… È come se fossi temporaneamente castrato. Quel dito che viene e contatto con il buco del culo mi rende isterico. Ma cerco di dominarmi, immaginando che sia meglio assecondarli.

Non so per quanto ci abbiano fatti camminare, ma mi sembrò un’eternità. Così conciato, avrei preferito finire nelle mani del boia al più presto.
Prima di entrare in sala punizioni, il capo carnefice ci tiene un discorso in arabo. Il funzionario ci tradusse in inglese, dicendo con comprensibile durezza che ci avrebbero somministrato 99 frustate. A testa. Lo sapevamo, ma il sentirlo ripetere ci raggelò.
Ci fecero dunque entrare in una grande sala che sembrava a tutti gli effetti il palcoscenico di un piccolo teatro. Più in là c’era anche una specie di sipario, che mi augurai non venisse aperto, perché la presenza di un qualsiasi tipo pubblico era l’ultima cosa che ci mancava.
Ma quando ci portarono davanti al sipario così, nudi, in piedi, gambe allargate, mani legate dietro la schiena, compresi che ci avrebbero messo in mostra.
E difatti si abbassarono le luci e sentii che il sipario veniva tirato ai lati. Poi si alzò la luce solo sul palcoscenico, viva, molto forte, accecante. Abituando gli occhi, riuscii a vedere che c’erano quattro o cinque file di poltroncine, la metà delle quali occupate da persone indistinguibili. Dato che alcune avevano il velo integrale, capii che c’erano anche delle donne. Un fruscio sommesso palesava i sussurri che quei misteriosi spettatori si scambiavano commentando la nostra nudità. Eravamo esposti a loro nel più plateale dei modi.
Compresi che nessuno avrebbe avuto pietà di noi, anzi avrebbero provato anche loro una gioia malvagia a vedere degli occidentali sottoposti alle sferze dei loro carnefici. Per loro avevamo violato leggi e principi religiosi. Certamente io al loro posto avrei provato l’insana eccitazione sadomaso; la frusta porta con se aspetti oscuri e ancestrali. Il poter dare dolore a un essere umano ha sempre eccitato la mente dell’uomo.
Io avevo più volte sognato situazioni ludiche così, ma non ero certo io il condannato. Né tantomeno mia moglie… Anzi, da quello che avevo capito parlandone con lei, sarebbe piaciuto anche lei dominare.
E invece eravamo lì noi. Assurdo.

Non so quanto rimanemmo a disposizione dei loro occhi, ci fecero girare, mostrando così nostri culi. Il simbolo della nostra appartenenza a loro. Vennero quattro boia per sistemarci su quei due trespoli che il funzionario aveva chiamato sgabelloni, ma che sembravano più tecnologici del previsto.
Erano imbottiti, quasi per far sì che i condannati non soffrissero inutilmente per la scomoda posizione. Ridicolo, visto che erano stati costruiti per destinati alla frusta. Ovviamente c’erano delle cinghie per tenere fermi i condannati. Ma la cosa più strana era che stavano su due settori circolari, come se quegli sgabelloni potessero essere ruotati in modo da esporre i frustandi dalle varie angolature. Insomma, sembrava che la parte spettacolare del supplizio fosse più importante della pena stessa. Il che però rendeva il tutto ancora più spaventoso, perché essere puniti per far godere degli altri esseri umani era proprio umiliante.
Con attenzione ci fecero inginocchiare, facendoci esporre (com’era prevedibile) sesso e orifizio anale al pubblico. Quindi regolarono l’apparecchio alle nostre corporature. Chi ci aveva preceduti era meno grande di noi. Le mani, da dietro la schiena ce le spostarono lungo il trespolo, bloccandocele con cinghie di cuoio foderate di feltro. A quel punto eravamo comodamente bloccati a quattro zampe. Ultimo tocco di genio, mi sistemarono l’uccello aggiustando quell’elastico che avevo alla base, in modo che i coglioni restassero strizzati, ma non raggiungibili dalle scudisciate. Il funzionario ci aveva spiegato che sarebbero stati attenti all’incolumità permanente. Così, quei bastardi di spettatori potevano vedere lo scroto dell’infedele stretto dall’elastico. La posizione divenne più infastidente, e lo divenne ancora di più quando alzarono una mensolina imbottita sotto il mento che ci obbligava a tenere la testa diritta, per guardare in avanti.
Una voce in arabo diede degli ordini ad alta voce ed avvertimmo che il terribile supplizio sarebbe cominciato.

Il funzionario aveva spiegato che 99 frustate erano tante, tantissime. Ma non per il condannato, sia ben chiaro, quanto per il carnefice.
«È faticoso. – Mi aveva confidato pragmaticamente. – Dopo venti frustate bisogna dargli il cambio, perché dovendo usare sempre il massimo della forza, dopo un po’ diventerebbero imprecisi. Quindi pericolosi per l’incolumità dei condannati.»
Per questo si sarebbero alternati per due volte cinque carnefici con me e cinque con mia moglie. La metà era mancina, apposta per distribuire con equilibrio il tormento. Insomma, dieci boia ci avrebbero dato dieci frustate a testa, a parte l’ultimo che ce ne avrebbe date solo nove.
Una descrizione logistica matematica stupefacente e terribilmente reale...

Fine della prima parte
(Continua)
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