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Gay & Bisex

Piero: Il mio essere gay Atto 1


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
29.06.2025    |    4.603    |    14 9.3
"E quando lui ha deciso di sparire dalla mia vita, lasciandomi con un messaggio scarno e nessuna spiegazione, il mio mondo si è sgretolato..."
Sono Piero, e questa è una storia vera, accaduta davvero quando avevo 16 anni. È il 1986, una calda sera di fine luglio, l’aria densa di umidità e promesse non dette. Ho diciotto anni, il cuore che batte forte, non solo per l’alcol che mi scorre ancora nelle vene, ma per qualcosa di nuovo, di inaspettato, che sta per travolgermi. Lui si chiama Cristian, il mio amico, poco più grande di me, con un sorriso sfrontato e occhi che sembrano vedere attraverso ogni mia difesa.
Eravamo a una festa, una di quelle serate estive dove la città si accende di luci e desideri. Il locale, a cinque chilometri da casa mia, pulsava di vita: ragazze con abiti leggeri, la pelle lucida di sudore sotto le luci al neon, risate che si mescolavano alla musica sparata dallo stereo. “Tainted Love” dei Soft Cell rimbombava, il ritmo incalzante che faceva vibrare il pavimento, mescolandosi all’odore di birra versata, sudore e profumo dolce di vaniglia che aleggiava nell’aria. Avevamo bevuto, troppo, e l’euforia della notte ci aveva resi audaci, leggeri, come se il mondo fosse nostro per una manciata di ore.
Quando la festa si è spenta, il parcheggio del locale era ormai un deserto di asfalto, illuminato solo da un lampione tremolante che gettava ombre lunghe e incerte. Cristian appena diciottenne, al volante della sua Fiat 127 rossa, aveva deciso che dovevamo smaltire la sbornia prima di rimetterci in strada. L’auto odorava di pelle scaldata dal sole, di sigarette consumate a metà e di quel profumo muschiato che era il suo, un misto di dopobarba e sudore che mi faceva girare la testa più di quanto volessi ammettere.
Eravamo seduti in silenzio, il motore spento, le note di “Careless Whisper” di George Michael che uscivano piano dallo stereo, la voce di George che si intrecciava con il frinire delle cicale fuori. L’aria era densa, appiccicosa, e il mio cuore batteva troppo forte, come se sapesse qualcosa che io ancora ignoravo. Poi, senza preavviso, Cristian ha fatto qualcosa che ha spezzato il silenzio e cambiato tutto. Con un gesto lento, quasi deliberato, si è slacciato i jeans, tirando fuori il suo cazzo. Era grande, più grande di quanto mi aspettassi, e lo ha preso in mano con una naturalezza che mi ha spiazzato. Ha iniziato a masturbarsi, incurante della mia presenza, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Io ero paralizzato. Non riuscivo a distogliere lo sguardo. La sua erezione era imponente, pulsante, e qualcosa dentro di me si è acceso, un misto di sorpresa, imbarazzo e un’eccitazione che non volevo riconoscere. Fino a quel momento, l’idea del sesso tra maschi non mi aveva mai sfiorato. O forse sì, ma l’avevo sempre spinta in un angolo della mia mente, nascosta dietro le fantasie di ragazze e i sogni adolescenziali. Ma ora, lì, in quell’auto, con l’odore di asfalto caldo che entrava dal finestrino socchiuso e il sax di George Michael che mi accarezzava i nervi, non potevo più ignorarlo.
“Hei, perché non ti dai da fare anche tu?” ha detto Cristian, la voce bassa, quasi un sussurro, ma carica di una sfida che mi ha fatto rabbrividire. Ero di ghiaccio, le parole incastrate in gola. Non osavo muovermi. Una parte di me era bloccata dalla vergogna: il mio cazzo era più piccolo del suo, e l’idea di mettermi a nudo mi faceva sentire vulnerabile, esposto. Ma c’era anche qualcos’altro, una riluttanza più profonda, il timore di attraversare una linea che non avevo mai considerato.
“Se non lo tiri fuori tu, lo faccio io,” ha aggiunto, con un sorriso che era metà scherzo, metà minaccia. Il suo tono era giocoso, ma i suoi occhi bruciavano di qualcosa di più intenso, qualcosa che mi attirava e mi spaventava allo stesso tempo. Per evitare che mi toccasse, ho ceduto. Con le mani che tremavano, ho sollevato il culo dal sedile, facendo scivolare i jeans stretti e le mutande fino alle caviglie. L’aria calda della notte mi ha sfiorato la pelle, e mi sono reso conto troppo tardi di quanto quel gesto fosse stato… femminile. Non era stata mia intenzione, ma il modo in cui mi ero mosso, sinuoso, quasi provocatorio, aveva qualcosa di vulnerabile, di invitante. Mi sono sentito nudo, non solo nel corpo, ma nell’anima.
“Segati con me,” ha detto Cristian, la voce ora più morbida, quasi un invito. Ho iniziato, timido, il cuore che mi martellava nel petto. Ma non è durata nemmeno un minuto. La sua mano ha preso la mia, quella che stringeva il mio cazzo, e l’ha guidata verso il suo. Il contatto è stato come una scossa elettrica. La sua pelle era calda, dura, pulsante sotto le mie dita. Non avrei mai pensato di toccare un altro uomo così, eppure, dopo un istante di esitazione, ho iniziato a muovere la mano, lentamente, seguendo il ritmo del suo respiro.
È stato strano, all’inizio, ma poi… Dio, è stato meraviglioso. La sensazione del suo cazzo nella mia mano, la sua durezza, la sua forza, mi ha travolto. Era come se ogni mia resistenza si stesse sciogliendo, come se quel contatto stesse risvegliando qualcosa di profondo, di primordiale. Non ho resistito. Mi sono piegato su un fianco, il sedile di pelle che scricchiolava sotto di me, e ho avvicinato la bocca al suo cazzo. Il primo tocco delle mie labbra sulla sua cappella è stato un’esplosione di sensazioni: il sapore salato, la consistenza liscia, il calore che mi riempiva la bocca. Ho chiuso gli occhi, lasciando che l’istinto prendesse il sopravvento. Non era più una questione di pensare, ma di sentire.
Cristian ha emesso un gemito basso, e la sua mano destra si è posata sul mio culo. Le sue dita, calde e decise, hanno iniziato a esplorare, accarezzando la mia pelle sensibile. Poi, ho sentito un dito, umido di saliva, premere contro il mio buco vergine. È entrato con una decisione che mi ha fatto sobbalzare, ma il dolore si è trasformato subito in un piacere così intenso che mi ha tolto il fiato. Ho spalancato la bocca, spingendo il suo cazzo ancora più a fondo nella mia gola, come se quel gesto fosse l’unico modo per contenere l’ondata di sensazioni che mi stava travolgendo.
Siamo andati avanti così, persi l’uno nell’altro, il mondo fuori dall’auto ridotto a un’eco lontana. La musica dallo stereo, ora “Purple Rain” di Prince, ci avvolgeva, la voce di Prince che cantava di amore e desiderio, il suono della chitarra che si intrecciava con i nostri respiri affannosi. L’odore del suo corpo, un misto di sudore e desiderio, si mescolava con il profumo dell’estate, dell’asfalto caldo, del cuoio dell’auto. Ogni tocco, ogni movimento, era amplificato dalla notte, dalla nostra vulnerabilità, dalla nostra fame.
Poi, Cristian ha spezzato il silenzio. “Voglio scoparti,” ha detto, la voce roca, carica di urgenza. Ho avuto paura. Le sue dimensioni erano impressionanti, troppo per me, che non avevo mai fatto nulla del genere. Non riuscivo nemmeno a prenderlo tutto in bocca, come potevo pensare di accoglierlo dentro di me? Ma l’eccitazione, il calore, la sua insistenza, mi hanno travolto. Ho ceduto. “Va bene,” ho sussurrato, il cuore che mi esplodeva nel petto.
Ci siamo spostati sul sedile posteriore. Mi sono messo in posizione, con il culo che sporgeva fuori dalla portiera aperta, l’aria calda della notte che mi accarezzava la pelle. Ero vulnerabile, esposto, ma anche eccitato oltre ogni misura. Cristian si è posizionato dietro di me, e ho sentito la pressione della sua cappella contro di me. Ma il dolore è stato immediato, acuto, insopportabile. Ho gridato, ritraendomi d’istinto. “Non ce la faccio,” ho balbettato, il respiro corto.
La sua reazione è stata come un fulmine. La dolcezza che aveva mostrato fino a quel momento si è trasformata in rabbia. “Puttana frigida,” ha ringhiato, le parole che mi colpivano come schiaffi. Prima che potessi rispondere, mi ha spinto fuori dall’auto, lasciandomi lì, mezzo nudo, nel parcheggio deserto. Il motore è ruggito, e l’auto è sparita nella notte, lasciandomi solo con il suono delle cicale e il peso di quello che era appena successo.

Il parcheggio era silenzioso, troppo silenzioso. L’asfalto sotto i miei piedi era ancora caldo, nonostante fosse quasi l’alba. Mi sono tirato su i pantaloni, le mani che tremavano, il cuore che batteva all’impazzata. Non riuscivo a capire cosa provavo: vergogna, rabbia, desiderio, paura. Tutto si mescolava in un groviglio che mi stringeva lo stomaco. L’odore di benzina e polvere mi pizzicava il naso, e il sapore di Cristian era ancora sulla mia lingua, un ricordo che mi faceva rabbrividire.
Ho iniziato a camminare verso casa, i cinque chilometri che mi separavano dal mio letto sembravano un’eternità. La città dormiva, le strade deserte illuminate solo dai lampioni e dal bagliore rosato dell’alba che iniziava a colorare l’orizzonte. Ogni passo era un’occasione per rivivere quella notte, ogni istante, ogni tocco. Non riuscivo a smettere di pensare a lui, al modo in cui il suo cazzo si era sentito nella mia mano, nella mia bocca. Era stato come scoprire una parte di me che non conoscevo, una parte che mi spaventava e mi attirava allo stesso tempo.
Quando sono arrivato a casa, il sole stava sorgendo. Mi sono buttato sul letto senza nemmeno spogliarmi, il corpo esausto ma la mente in tumulto. Non riuscivo a dormire. Ogni volta che chiudevo gli occhi, vedevo il suo sorriso, sentivo la sua voce, il suo tocco. Mi chiedevo se fosse stato un errore, se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Ma più ci pensavo, più mi rendevo conto che non era solo il desiderio fisico a tormentarmi. Era qualcosa di più profondo, qualcosa che aveva a che fare con il modo in cui mi ero sentito vivo, desiderato, vulnerabile.
Il giorno dopo, non ho avuto il coraggio di chiamarlo. Non sapevo cosa dire, come affrontare quello che era successo. Ma il destino, o forse il caso, ha deciso per me. Due sere dopo, l’ho incontrato di nuovo, a un’altra festa. Era lì, con la sua camicia aperta sul petto, i capelli leggermente mossi dal vento caldo dell’estate, un bicchiere di birra in mano. Quando mi ha visto, il suo sorriso si è allargato, ma c’era qualcosa di diverso nei suoi occhi, un misto di sfida e curiosità.
“Piero,” ha detto, avvicinandosi. “Non pensavo di rivederti così presto.”
Ho sentito il viso avvampare. “Già,” ho balbettato, cercando di sembrare disinvolto. “Neanch’io.”
Ci siamo messi a chiacchierare, come se nulla fosse successo, ma l’aria tra noi era carica di tensione. La musica, questa volta “Sweet Dreams” degli Eurythmics, ci avvolgeva, e l’odore di fumo e sudore della festa mi riportava a quella notte nell’auto. Dopo un po’, mi ha preso per un braccio e mi ha portato fuori, in un angolo del giardino dove la luce delle lanterne non arrivava.
“Mi dispiace per l’altra sera,” ha detto, la voce bassa. “Sono stato uno stronzo.”
Ho annuito, non sapendo cosa dire. Ma poi ha fatto un passo verso di me, e il suo profumo mi ha avvolto di nuovo. “Non volevo spaventarti,” ha continuato. “È solo che… non so, c’è qualcosa in te che mi fa perdere la testa.”
Quelle parole mi hanno colpito come un pugno. Nessuno mi aveva mai detto niente del genere. Mi sono sentito desiderato, voluto, in un modo che non avevo mai conosciuto. Senza pensarci, ho fatto un passo verso di lui, e le nostre labbra si sono incontrate. È stato un bacio lento, dolce, ma carico di una fame che non riuscivo a controllare. Le sue mani mi hanno stretto i fianchi, e ho sentito il suo corpo premere contro il mio, caldo, solido.
Siamo finiti di nuovo nella sua auto, ma questa volta era diverso. Non c’era fretta, non c’era rabbia. Mi ha accarezzato, mi ha baciato, mi ha fatto sentire desiderato in un modo che non avevo mai immaginato. Quando le sue mani sono scivolate sotto la mia maglietta, ho sentito la sua pelle contro la mia, e ogni tocco era come una scintilla. “Relax,” ha sussurrato, la sua voce che mi accarezzava come una carezza. “Andiamo piano.”
E lo abbiamo fatto. Abbiamo passato ore in quell’auto, esplorandoci, scoprendoci. Ogni tocco, ogni bacio, era una scoperta. Non c’era più paura, solo desiderio, solo il bisogno di essere vicini, di sentirci. La musica dallo stereo, “Every Breath You Take” dei Police, sembrava scritta per noi, ogni nota un’eco dei nostri respiri, dei nostri cuori che battevano all’unisono.

Quella notte ha cambiato tutto. Io e Cristian abbiamo iniziato a vederci di nascosto, rubando momenti nelle sere d’estate, nei parcheggi deserti, nei vicoli silenziosi della città. Ogni incontro era un’esplosione di sensazioni: il suo odore, il sapore della sua pelle, il suono dei suoi gemiti. Era come se il mondo si fosse ridotto a noi due, come se nient’altro contasse.
Non era solo sesso. C’era qualcosa di più, qualcosa che non riuscivo a definire. Quando mi guardava, mi sentivo visto, capito. Quando mi toccava, mi sentivo vivo. Ma c’era anche la paura, la consapevolezza che quello che stavamo facendo era pericoloso, non solo per il giudizio degli altri, ma per quello che stava facendo a me, al mio cuore.
L’estate del 1986 è stata un sogno, un vortice di emozioni e scoperte. Ma con l’arrivo dell’autunno, le cose sono cambiate. Cristian ha iniziato a essere più distante, più freddo. Non so se fosse la paura, la vergogna, o semplicemente il fatto che per lui non fosse mai stato più di un gioco. Io, però, mi ero innamorato. E quando lui ha deciso di sparire dalla mia vita, lasciandomi con un messaggio scarno e nessuna spiegazione, il mio mondo si è sgretolato.
Ma quella notte, quella prima notte, resterà sempre con me. L’odore dell’asfalto caldo, la musica che ci avvolgeva, il sapore di lui sulla mia lingua. È stata la notte in cui ho scoperto chi ero, chi potevo essere. E anche se il dolore è arrivato dopo, non cambierei nulla. Perché quella notte, per la prima volta, mi sono sentito vivo.

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