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Lui & Lei

Esaurita 5


di iltiralatte
27.06.2025    |    501    |    4 9.0
"Solo guardava: quindi confessò piano: — Non ho mai avuto il coraggio di mettere via niente..."

La giornata cominciò senza proclami, senza promesse: solo due persone nella stessa casa, con il tempo che si lasciava attraversare.
Una spesa fatta a metà mattina, senza lista, con scelte semplici: pane fresco, una burrata, due mele, niente fretta.
Marianna si fermò a guardare le verdure sul banco del mercato.
Franco ne scelse una senza chiedere, la mise nel sacchetto.
La cena era silenziosa, ma non fredda.
Un pasto semplice, due piatti scompagnati, il rumore sottile delle posate sul piatto.
Franco spezzò il pane.
Marianna tagliò un pezzo di verdura, lo portò lentamente alla bocca e posò la forchetta.
Si fece un piccolo vuoto nell’aria.
Non un vuoto di parole, ma di quelli che precedono qualcosa che si è pensato a lungo.
Marianna guardò il piatto, poi disse piano ma con una fermezza che non cercava dibattito:
— Io non voglio più fare la moglie.
Franco sollevò lo sguardo.
Non di scatto ma come chi ha già sentito quella voce, una notte in cui lei voleva andare via e poi era rimasta.
Non rispose.
Non obiettò.
Sorrise.
Ma non era un sorriso felice.
Era un sorriso lento, riconoscente, perché le parole di lei non ferivano: rivelavano: che lei voleva esserci, ma non in una forma che toglie e che non era un addio, ma un confine disegnato con mano gentile.

Marianna ritrovò in fondo a un cassetto che non apriva da tempo, il quaderno dalla copertina sbiadita, con l’elastico slabbrato e una macchia d’inchiostro sul bordo.
Posò il cellulare e lo toccò con due dita come si sfiora una cosa viva.
Non era un diario.
Era un contenitore storto: una memoria smozzicata.
Non scritte per raccontare i fatti, ma per restituirsi le sensazioni:
la stretta al petto, l’odore del corridoio, l’urlo che non uscì mai dalla sua gola.
Scritto per ricordare come il dolore le fosse passato attraverso e non cosa lo avesse causato.
A volte una pagina si interrompeva con una frase senza verbo.
Altre volte aveva scritto solo tre parole, poi lasciava venti righe bianche.
Era scrittura che non cercava lettori.
Non una confessione, non una spiegazione.
Solo un modo per tenersi insieme tutti i pezzi della sua vita brandello dopo brandello.
Per giorni Franco non ne seppe nulla.
Una sera, senza preavviso, ella lasciò il quaderno sul comodino.
Non sopra ogni cosa, ma sottilmente velato da un volantino “casualmente” appoggiato come chi non lo mette in mostra … ma neppure lo nasconde.
Franco lo vide.
Non lo aprì subito.
Posò il cellulare e lo toccò con due dita come si sfiora una cosa viva.
Franco aprì il quaderno lentamente, come si aprono le cose che non ci appartengono del tutto, ma che ci chiamano.
Le prime righe lo trattennero già nel respiro: frasi spezzate, frammenti di dolore, ricordi scritti con pudore e voce incrinata.
Non c’erano spiegazioni, solo una sequenza di come era stato sentito il mondo con le vene scoperte.
Sfogliò senza fretta.
Ogni pagina era una stanza: alcune in penombra, altre affacciate sul buio.
Eppure, tra quelle parole non c’era accusa.
Solo verità filtrata dal tempo.
Quando arrivò all’ultima, restò un po’ fermo.
Chiuse il quaderno.
Restò così tenendolo in grembo e cogli occhi bassi.
Non andò da lei.
Non la abbracciò.
Non disse:
È bello.
Prese una penna.
Aprì di nuovo il quaderno.
Andò all’ultima pagina bianca ed aggiunse:
“Non c’è bisogno di spiegare niente. Io ti ho sempre vista come sei: ti amo!”
Poi richiuse il quaderno e lo rimise esattamente dove l’aveva trovato.
Marianna non commentò, ma sorrise appena.
In casa, parlarono dell’acqua che non si scaldava:
— Forse è il termostato.
— O forse è la caldaia che è semplicemente vecchia.
Nessuno propose di aggiustare il guasto.
Il pranzo fu quello che c’era: pasta con il tonno, una zucchina rimasta, un sorso di vino bianco
Mangiarono in cucina, con le sedie un po’ storte e le posate scompagnate.
Non ci fu nulla da annotare, nulla da proclamare ma nel gesto di apparecchiare, nell’offrire un bicchiere, nel raccogliere una briciola con le dita c’era tutta la presenza di entrambi.
Non per farsi notare, ma per esserci e, soprattutto, per restare.
________________________________________

Marianna e Franco non decisero mai di “mettersi insieme”
Non ci fu un discorso tra loro.
Non ci fu una sera in cui decisero.
Semplicemente, Franco cominciò a restare.
Una notte, poi due.
Cominciò a lasciare la camicia sulla sedia.
A portarsi un libro.
Ad usare una tazza qualunque.
Le sue chiavi, inizialmente infilate nella giacca, cominciarono a comparire sul mobile dell’ingresso.
Una volta, Marianna le spostò appena più in là, per far spazio alle sue e le lasciò lì.
Le tazze iniziarono a confondersi.
Quella col bordo scheggiato era di Franco o di Marianna?
Non importava.
Nel bagno apparvero due spazzolini, ma nessuno li aveva messi lì con qualche intenzione..
Solo accadde ed, ad un certo punto: apparvero. come certi respiri che si abituano a dividersi lo spazio.
Fu così che, senza dichiarazioni né proclami, Franco non se ne andò più.

Il pomeriggio scivolava lentamente verso la sera.
Il sole filtrava tra le piante nei vasi, lasciando macchie d’ombra sulle ginocchia.
Marianna leggeva, gli occhiali un po’ storti, la mano che ogni tanto sistemava una ciocca ribelle.
Franco la guardava.
Non in cerca di qualcosa ma unicamente voleva assaporare il piacere della sua presenza.
Il silenzio era buono.
Quello che non pesa.
Quello che, a volte, basta esso solo a riempire una giornata.
Franco parlò, quasi a bassa voce come se stesse chiedendo qualcosa al tempo, non a lei.
— Secondo te … se non fosse successo … noi due …
La frase non si chiuse.
Restò lì, a mezz’aria come la scia di un aereo che nessuno ha visto partire.
Marianna non rispose.
Sfogliò la pagina.
Continuò a leggere ma sorrise.
Quel sorriso, piccolo, storto, appena visibile era già una risposta più vera di qualsiasi parola.
— Cosa siamo diventati, Marianna?
La domanda restò sospesa nell’aria del balcone, tra un sorso di tè raffreddato e il fischio stanco di un merlo in lontananza.
Marianna non rispose.
Non subito.
Chiuse il libro con un gesto lento.
Lo posò sul bracciolo della sedia, senza segnalibro.
Si voltò appena.
Appoggiò la testa sulla sua spalla.
Restò lì.
Franco sentì il peso leggero di quel gesto.
Non disse altro.
Neppure lei.
Il silenzio tornò ma non aveva bisogno di essere riempito.
Era pieno di loro.

La stanza, intanto, continuava ad appartenere solo a loro.
La stanza aveva l’aria sospesa di chi non ha ancora deciso se restare o partire.
Sulle mensole, tra i libri e qualche soprammobile senza nome, c’erano tracce.
Non fantasmi: presenze ferme nel tempo.
Franco si guardò attorno.
Una foto: il bambino rideva, gli occhi chiusi, le mani tese verso qualcosa fuori campo.
Un paio di scarpette blu, con la suola appena consumata, ancora sullo scaffale basso.
Una tazza col nome scritto in stampatello, messa lì come fosse stata usata ieri.
Non c’era disordine.
Non c’era ostinazione.
Solo qualcosa che non si era voluto sciogliere.
Marianna, accanto a lui, non toccava nulla.
Solo guardava: quindi confessò piano:
— Non ho mai avuto il coraggio di mettere via niente.
Franco non rispose ma il suo sguardo si posò sulle scarpette.
Restò lì, come si resta davanti a un altare che non si è scelto, ma che si onora.
Sistemarono un vecchio mobile, che cigolava come se anche lui volesse dire la sua.
Discussero a lungo su dove appendere il quadro quello del bambino.
Troppo centrale?
Troppo in ombra?
Alla fine restò appoggiato a terra, contro il muro come una cosa viva che voleva ancora scegliere il momento giusto per muoversi.
La giornata, senza pretese, sembrava bastare a se stessa.
Non curava.
Ma teneva uniti.
________________________________________

Il vialetto era umido di pioggia recente, ma il cielo si era schiarito, come per fare spazio al sole..
Marianna e Franco camminavano piano, uno accanto all’altra, senza parlare.
Le mani vuote, lo sguardo attento a dove mettevano i piedi.
Non portavano fiori.
Portavano sé stessi.
Bastava.
Marianna si inginocchiò davanti alla lapide, posando una mano sulla pietra con una delicatezza che non chiedeva risposte.
Restò immobile, la testa china, le spalle ferme: un corpo che ascolta con tutto il silenzio che ha dentro.
Franco rimase tre passi dietro di lei.
Non li contò, ma li sentiva.
Tre come un confine, non una distanza.
Marianna si voltò.
Lo guardò.
Si alzò con lentezza, come chi torna da un luogo profondo e lontano.
Gli si avvicinò e senza una parola, gli prese il polso.
Non era un appiglio.
Era un gesto per dire:
— Tu sei qui.
E :
— Ora possiamo andare.
Franco rimase immobile, il polso tra le dita di Marianna.
Non lo stringeva.
Non lo tirava.
Solo lo teneva, come si tiene qualcosa che non si deve spiegare, ma solo riconoscere.
Il vialetto era immobile, alla luce incerta ma in quel gesto c’era già il passo successivo, c’era il ritorno, c’era il mondo intero. quello che può ancora accadere dopo il lutto, dopo la colpa, dopo il silenzio.
Era un gesto semplice.
Li raccontava.
Li conteneva.
________________________________________

Il primo fu secco e inaspettato.
Marianna aprì il cassetto con troppa forza e il bordo le colpì il dito medio.
Un’imprecazione uscì spontanea non in italiano, ma nel suo dialetto d’infanzia, quello delle madri e delle zie.
Franco si voltò, stupito.
Lei strinse le labbra … e sorrise.
Un sorriso corto, trattenuto ma era lì: resisteva.
La seconda volta arrivò nel pomeriggio.
Franco stava preparando il caffè, mise il barattolo dello zucchero sul tavolo, si distrasse.
Un gesto sbagliato, e lo zucchero si rovesciò in una piccola valanga bianca sul pavimento.
Egli si mise le mani nei capelli, teatrale:
— Basta. Mi arrendo alla vita.
Marianna lo guardò.
Non disse niente: rise piano.
Quella risata che si muove appena, ma resta per qualche secondo in più del necessario.
Due sorrisi, due piccoli cedimenti della sua tristezza,
Non fragili : reali.
Marianna si svegliò senza fretta.
La luce filtrava dalla finestra, impastando le tende di quiete.
Nessun rumore urgente, nessuna sveglia.
Solo il profumo del caffè.
Franco era in cucina
Si muoveva piano, con quella attenzione che si ha solo quando si vuole restare invisibili ma presenti.
Aveva già apparecchiato: due tazze, due cucchiaini, un piccolo bricco che ancora fumava.
Ella entrò, scalza.
Egli si voltò appena, accennò un sorriso, poi tornò a curare il caffè.
Non le domandò come stava.
Non serviva.
Marianna si sedette.
Bevve.
Franco si sedette a sua volta.
Nessuna parola ma tra quel sorso e quel silenzio c’era tutto ciò che ancora … poteva essere detto.
Non con la voce, non con spiegazioni, ma con la sola presenza
Nessuna luce scenica.
Solo quella del tardo pomeriggio, che filtra obliqua dalla finestra e disegna sagome morbide sul tappeto.
Franco e Marianna sono lì, seduti a terra.
Davanti a loro: una pianta da rinvasare, con le radici esposte, fragile e viva.
Nessuna parola.
Le mani affondano nella terra.
La smuovono, la stringono, la spostano con cura.
Non come si fa un lavoro ma come si tiene qualcosa che cresce.
In sottofondo, un vecchio disco jazz graffiato un sax che arriva a onde, ogni tanto salta, ma non disturba.
Anzi: accompagna.
Non si guardano.
Non si baciano.
Non si promettono.
Stanno.
Una vita accanto all’altra.
Non fuse, non confuse.
Solo raggiunte.
Non si sa per quanto ma basta così, perché in quel momento, è tutto.
Successe in silenzio.
Marianna se ne accorse per piccole cose: un odore che la infastidiva, una stanchezza nuova che non sapeva dove appoggiare.
Non disse nulla.
Per giorni continuò a vivere come sempre, ma le mani finivano spesso lì sul ventre, come a chiedere conferma, come a domandare:
— Ci sei?
— Ci sei davvero?
Non era paura.
Era stupore.
Di quello muto, che ti tiene ferma a metà il respiro.
Ella custodì il suo segreto in solitudine, come si fa con le notizie fragili finché una sera, in cucina, mentre la moka borbottava piano e Franco sistemava le posate Marianna si avvicinò:
Non lo guardò negli occhi.
Non cercò effetto.
Disse solo come si lasciano cadere tre sassi in acqua:
— Ho un cuore nuovo.
Franco si fermò.
Non disse nulla.
Allungò una mano, non per toccare, ma per esserci anche lui.
Il silenzio successivo non era più vuoto:era abitato.
Marianna lo disse senza preamboli come si dicono le cose vere, quando il momento non le chiama, ma le accoglie:
— Aspetto un bambino.
— Aspettiamo un bambino
La frase restò lì, sospesa nell’aria della stanza che odorava ancora di caffè e terra bagnata.
Franco la guardò a lungo senza stupore, né paura.
Con qualcosa di più raro: con presenza intera.
Poi si avvicinò.
Le prese il viso fra le mani.
Non con urgenza, ma con la delicatezza che si usa con ciò che si credeva perduto.
Sussurrò, senza un tremito:
Allora non siamo più ombre.
Niente baci, niente scelte pronunciate a voce alta.
Nessuna promessa a lungo termine.
Tutto era già detto.
Se la luce non era ancora piena, non importava: quel seme di futuro bastava adesso per rischiarare il presente.


FINE .👍



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