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Lui & Lei

Esaurita 3


di iltiralatte
25.06.2025    |    172    |    2 8.7
"La sua presenza non fu invadente..."
Franco sentiva tutto.
Non servivano racconti lunghi, né spiegazioni.
Bastava uno sguardo abbassato, un sospiro trattenuto, una parola detta con un tono appena diverso e lui capiva.
Coglieva il dolore nascosto dietro una frase di circostanza, la stanchezza dissimulata in una risposta rapida, l’inquietudine che filtrava anche dal silenzio.
Non era invadenza.
Era presenza silenziosa che sa mettersi al servizio, senza farsi notare.
Non lo faceva per essere ringraziato: era fatto così.
Una generosità naturale, quasi ingenua, che lo portava ad aggiustare cose che non gli appartenevano, solo perché qualcuno ne aveva bisogno.
Con Marianna, tutto questo diventava più netto.
Non era che lui volesse salvarla: la sentiva vibrare anche quando taceva.
Capiva quando restare, quando parlare piano, quando bastava solo esserci.
Quella, l’empatia, era la sua unica arma e forse, anche l’unico modo in cui sapeva amare.
Non fu il desiderio a muovere Franco.
Non il coraggio, né un gesto eroico.
Fu un istinto silenzioso e preciso, quello che nasce solo quando si sa ascoltare il dolore prima ancora che questo abbia voce.
Era abituato a cogliere le crepe negli altri, nei silenzi, negli occhi che non reggono lo sguardo.
In Marianna … avvertì qualcosa che nessun altro sembrava vedere: un orlo sottile, un bordo troppo vicino al vuoto.
Non calcolò il passo.
Non si preparò un ruolo.
Semplicemente, si mosse.
Non per salvarla: non si è mai creduto salvatore di nessuno ma per starle accanto.
Con la sola forza di esserci.
Quella presenza, così nuda, così priva di promesse, era tutto ciò che aveva da dare.
Forse proprio per questo fu esattamente ciò che serviva.
Quando Marianna lo sfiorò con quella carezza leggera non chiese nulla.
Quando Marianna lo sfiorò, posando la mano sul suo viso fu come se una parte di lui, quella che per anni era rimasta immobile, avesse finalmente trovato il coraggio di non temere la perdita, perché forse, per la prima volta per lui, l’intimità non era una stara una conquista da tentare, ma un dono ricevuto.
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Il bar, ormai, non era più solo un luogo.
Era diventato un piccolo rituale muto: sempre lo stesso tavolo, sempre lo stesso orario.
Il caffè che si freddava a metà, le parole che arrivavano solo quando servivano.
Dentro quel ritmo ripetuto, Marianna cominciò a vedere Franco davvero.
Non come figura rassicurante.
Non come interlocutore gentile.
Come un contatto distinto che non chiedeva, ma’era presente.
Una sera, mentre fuori pioveva piano e il locale sembrava scolorare nel buio, Marianna appoggiò la testa sul suo petto
Non fu un gesto carico di intenzioni.
Non cercava seduzione.
Cercava un cospetto diverso da quell’assenza con cui conviveva ogni notte la casa:
Non riempire il buco lasciato da qualcuno che c’era e non c’è più ma un vuoto che si potesse abitare insieme, in due.
Franco rimase immobile.
Il cuore gli batteva forte, ma non mosse un muscolo.
Non per paura.
Non per pudore ma perché sentiva che quell’abbandono silenzioso andava custodito, non contraccambiato.
Ella parlò del marito.
Con voce spenta, lenta, come se ogni parola fosse un oggetto da scartare piano, per capire se faceva ancora male.
Egli ascoltò.
Anche il respiro si fece più sottile e nella postura raccolta di quel corpo appoggiato, qualcosa cambiò.
Ora non erano più due sopravvissuti: erano due persone che si riconoscevano nel vuoto dell’altro.
Fu un gesto imprevisto.
Non era cercato, né atteso.
Accadde mentre Marianna parlava del suo “angelo” con voce bassa, quasi disarmata, come se ogni parola fosse un piede nudo sul ghiaccio.
Parlava, e intanto la mano si alzò.
Lenta, naturale, come se da sempre fosse destinata a posarsi lì, sul volto di Franco.
Lo accarezzò.
Un contatto breve, istintivo, appena un passaggio delle dita sulla guancia.
Non c’era seduzione.
C’era un’urgenza silenziosa di toccare qualcosa che stava fermo e buono, mentre tutto il resto mancava.
Franco si irrigidì.
Il primo impulso fu di arretrare, come se quel gesto gli chiedesse troppo ma non lo fece.
Rimase.
Abbassò gli occhi e accettò quella carezza come si accetta un dolore antico che ritorna e che, talvolta, trova ascolto.
Nessuno dei due disse nulla.
Non c’era niente da spiegare.
Il gesto rimase lì, in sospensione tra un prima e un dopo che non serviva definire.
Un punto di contatto mai richiesto, ma pienamente compreso.
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Era stato un pomeriggio pesante.
Non per eventi eclatanti, ma per quella stanchezza che si deposita piano: parole trattenute, sguardi evitati, silenzi troppo lunghi
Marianna arrivò tesa, disfatta, con un’ombra in più sotto gli occhi.
Franco, come sempre, non domandò.
Le lasciò spazio.
Aprì la porta.
Accese la luce più tenue.
Mise sul tavolo una tazza: la sua.
Parlarono poco.
Mentre il giorno calava, in quella penombra densa e familiare, lei si avvicinò e lo baciò sulla guancia.
Fu un bacio lieve, pulito, senza calore carnale
Non c’era promessa.
C’era piuttosto una resa dolce, come se quel contatto servisse a dire:
— Grazie di esistere.
— Fammi restare qui un momento, senza dover spiegare nulla.
Franco trattenne il respiro.
Non si voltò a cercare, non si irrigidì: restò immobile.
In quel restare, capì che qualcosa stava iniziando a scivolare, non verso il desiderio, ma verso una soglia che non aveva ancora nome.
Uno spazio nuovo, fragile, in cui l’abbandono cominciava a confondersi con un altro tipo di vicinanza.
Nessuno dei due commentò il gesto.
Lo lasciarono lì, come si lascia una piuma sul tavolo e, come spesso accade con le cose leggere, fu proprio quella la più pesante da dimenticare.
Marianna iniziò a vestirsi meglio.
Piccole cose, all’inizio: un filo di trucco, una maglia meno neutra, un paio di orecchini che da tempo non toccava più.
Non lo faceva per Franco.
Lo faceva per sé stessa, perché a furia di sentirsi viva solo nei ricordi, aveva bisogno di ricordarsi presente.
Franco lo notò.
Con quella lucidità gentile che gli apparteneva, registrò il cambiamento senza dargli un nome.
Non fece commenti ma i suoi occhi si posarono un po’ più a lungo su di lei, quel giorno.
Marianna se ne accorse.
Non fu imbarazzo, né gioco.
Fu uno slittamento impercettibile, come quando due persone che si conoscono da sempre si rendono conto di guardarsi da un’angolazione nuova.
Iniziava a muoversi tra loro una luce ambigua, che non era ancora desiderio ma non era più solo vicinanza.
Nel non dire nulla, entrambi confermarono tutto.
Fu un attimo, come succedono certe fratture: silenziose, ma definitive.
Le mani si incontrarono per caso, nel passaggio di una tazza, un libro, un biglietto: poco importa.
La pelle toccò la pelle, e nessuno si ritrasse.
Rimasero così, per un secondo appena ma in quel secondo la distanza che avevano custodito fino ad allora scomparve,
Non fu un gesto voluto.
Non fu attesa.
Fu presenza pura.
Una sospensione.
Uno scivolamento.
Marianna si riscosse per prima, ma non del tutto.
Franco abbassò lo sguardo, senza colpa.
Da quel giorno, qualcosa cambiò anche fuori scena.
Nel diario, accanto al disordine del dolore, comparve il nome di Franco.
All’inizio appena accennato.
Poi via via più centrale.
Non come conforto.
Non come ancora.
Come presenza nuova che s’infilava tra le righe, senza chiedere permessi.
Il bambino restava sempre al centro, sempre amato. ma dentro Marianna si muoveva qualcosa che lei stessa non riusciva a definire.
Non era un tradimento.
Era il principio di una traslazione emotiva, come quando il cuore comincia a cercare una forma nuova per potersi reggere ancora.
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Il marito di Marianna tornò senza preavviso.
Qualche giorno di ferie, disse.
Una pausa dal lavoro, senza spiegazioni.
La sua presenza non fu invadente.
Fu silenziosa.
Gentile, perfino affettuosa ma qualcosa nel suo sguardo: troppo attento, troppo quieto diceva che aveva notato.
Non qualcosa di preciso.
Non un gesto ma un’aria diversa, una tensione sottile che aleggiava nella casa come profumo portato da lontano.
Marianna lo accolse senza esitazioni con quella calma che si impara solo quando si è abituati a convivere col vuoto.
Parlarono del tempo e delle spese
Non parlarono mai direttamente del bambino ma ogni pausa ne indicava l’assenza.
Egli era dappertutto: in ciò che non si diceva, nel tono trattenuto, nella distanza cortese che li teneva seduti troppo composti.
Non si rinfacciarono nulla ma sapevano entrambi cosa aveva spezzato tutto.
Lui la guardava un po’ più a lungo, ogni tanto, come se cercasse in lei un nome da non pronunciare.
Non domandava nulla ma il non detto cominciava a pesare.
Successe una sera, senza preavviso, come le verità che premono troppo a lungo.
Marianna esplose
Non urlò subito, ma ogni parola aveva il peso di un’accusa trattenuta per anni.
Gli rinfacciò la fuga, l’assenza, il modo in cui mentre loro figlio moriva. Egli era rimasto vivo: non di corpo ma dentro.
Egli ascoltava.
Non si difendeva.
Ribatté unicamente:
— Mi sono perso.
— Non sapevo come restare.
Quella frase non era sufficiente.
Era vera, sì ma non risarciva nulla.
Parlarono come non avevano mai fatto.
Si dissero cose che avevano covato in silenzio troppo a lungo.
Verità scomode.
Taglienti.
Tutte rimaste sospese tra piatti da lavare, lenzuola stirate e giorni senza voce.
Alla fine, il silenzio tornò.
Ma era diverso.
Qualcosa si era spezzato ed entrambi ne erano consci.
Non per ciò che si erano detti ma per il troppo tempo che avevano lasciato trascorrere prima di parlarsi.
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