tradimenti
Ultimo atto 2

09.05.2025 |
736 |
3
"Dal momento in cui siamo entrati in casa sua, mia madre prese il controllo di ogni cosa..."
Capitolo 2Aldo
Dora entrò senza fretta, posando lo sguardo sui tavoli vuoti.
Scosse la testa.
— Non illuderti, Aldo.
— I bar che hanno chiuso per Covid non riapriranno mai più.
Sara si voltò verso di me, cercando di sostenermi con lo sguardo.
— Il governo ha promesso aiuti,
Risposi quasi con ostinazione.
Dora rise, ironica aveva un'espressione che parlava da sola.
— Ah sì?
— E quando mai il governo ha aiutato chi non fa parte della cerchia degli amici degli amici?
Serrai la mascella.
Avevo paura: sapevo che aveva ragione.
Marzo era arrivato, la stagione turistica si avvicinava, ma l’enoteca continuava a rimanere semi-vuota.
I clienti tornavano sporadicamente, più curiosi che non interessati ad acquisti o consumi.
La folla di un tempo era un ricordo lontano che sbiadiva ogni giorno di più.
Sara osservava il registratore di cassa e sospirò.
— Se continuiamo così, a giugno saremo per sempre chiusi davvero.
Sapevo che aveva ragione.
Ogni sera, quando facevo e ripetevo i conti ma il risultato non cambiava,: la paura mi attanagliava lo stomaco.
Dovevamo assolutamente risparmiare e capimmo che la casa in affitto fu la prima cosa cui, con un po’ di buona volontà, potevamo rinunciare
Ci saremmo trasferiti a casa di Dora
La cosa ci avrebbe dato, economicamente, un certo sollievo.
Devo riconoscerlo: mia suocera ci accolse a braccia aperte. O almeno così ricevette la metà di noi due.
Dopo aver affettuosamente abbracciato la figlia Dora mi si rivolse:
— Beh, non pensavo di riavervi qui così presto!
Esclamò rivolgendosi a me mentre incrociava le braccia.
Io feci un sorriso di circostanza, cercando di evitare il tono di giudizio che riempiva l’aria più di quanto non facesse il profumo del minestrone sul fuoco.
— È solo temporaneo, mamma
Le spiegò Sara, più per convincere se stessa piuttosto che sua madre.
Ma io lo sapevo: temporaneo non significava facile.
Sara
Dopo quel commento di mia madre, l'atmosfera nella stanza si fece ancora più carica di tensione.
Io, con quel sorriso di circostanza forzato sul volto, cercavo di ritrovare un barlume di serenità, pur sapendo che ogni parola echeggiava come un rimprovero silenzioso.
Accanto a me, Aldo cercava di nascondere la sua preoccupazione, sfoggiando un'espressione imperturbabile, anche se qualche sguardo tradiva il suo disagio.
Seduta su quella sedia antica, vicino al tavolo della cucina di mia madre diventata il nostro rifugio obbligato, perché non potevamo più permetterci una casa tutta nostra, assorbivo ogni dettaglio: il delicato tintinnio degli utensili, il calore ovattato del fuoco e quel profumo intenso di minestrone, che, pur cercando di alleviare l'angoscia, faceva da costante richiamo alla dura realtà dei conti serrati e a un futuro incerto.
Dal momento in cui siamo entrati in casa sua, mia madre prese il controllo di ogni cosa.
La disposizione delle stanze, l’orario dei pasti, persino il modo in cui dovevamo gestire la spesa settimanale: tutto passava sotto il suo sguardo attento e giudicante.
Aldo cercava di adattarsi, ma era evidente che la convivenza con mia madre non sarebbe stata semplice.
Le sue regole erano legge, e ogni tentativo di aggirarle veniva stroncato con un’occhiata carica di disapprovazione.
“Qui si cena alle otto in punto”.
“Se non ci sei, mangi freddo”.
“Il bagno si pulisce ogni sera, senza eccezioni”.
“Niente sprechi, niente fronzoli”.
Aldo ascoltava, annuiva ed obbediva.
Io ero abituata a quelle regole cui avevo pur cercato di sottrarmi in gioventù ma vedevo il suo sguardo inquieto e comprendevo il bisogno che avvertiva di uno spazio tutto suo.
I giorni passavano e la tensione cresceva.
Aldo cominciò a trascorrere più tempo fuori casa.
— Vado a prendere qualcosa all’enoteca …
Diceva; ma in realtà non c’era nulla da prendere.
Si trattava solo un pretesto per respirare, per sfuggire alla stretta di mia madre.
A volte tornava più tardi del solito, altre volte si rifugiava nel cortile sul retro, fingendo di controllare il cellulare mentre in realtà fissava il muro, in cerca di soluzioni che non arrivavano.
Io lo osservavo, cercando di capire se avremmo resistito o se lui avrebbe veramente trovato un’uscita da questa prigione domestica.
Aldo iniziò a propormi gite improvvisate con un entusiasmo quasi forzato.
— Perché non andiamo a vedere quella tal caletta che mi avevi mostrato l’estate scorsa?
Io sapevo che non era solo voglia di mare.
Era bisogno di libertà.
Lui era la mia famiglia, il mio mondo e volentieri lo accompagnavo.
Così ci trovammo spesso a camminare lungo i sentieri che portavano a piccole baie nascoste, dove il rumore delle onde cancellava, anche solo per qualche ora, la sensazione di essere intrappolati.
Lui si sedeva sulla roccia, fissando l’orizzonte. Io lo osservavo, cercando di capire se stava solo respirando, o se stava cercando una vera via di fuga.
La strada era impervia e il sentiero stretto e sassoso ma la voglia di allontanarci dalla casa e da mia madre ci spingeva a continuare.
— Sei sicura che sia da questa parte?
Domandò Aldo, notando che il terreno si faceva sempre più accidentato.
— Sì, ci sono già stata,
Risposi, pur senza però nascondere la fatica.
Arrivati a metà percorso, posai un piede su una roccia instabile e sentii il terreno franarmi sotto i piedi.
Un attimo dopo, la caduta.
Un dolore acuto mi attraversò la caviglia, e mentre cercavo di rialzarmi, mi resi conto di non riuscivo ad appoggiare il piede.
Aldo si chinò subito su di me col viso teso.
— Sara! Sei ferita?
Non volevo ammetterlo, ma sapevo di non riuscire più a camminare.
Lo avvertii sentendo il respiro farsi irregolare.
— Credo di essermi slogata una caviglia.
Il mare era lì, così vicino ma così irraggiungibile: io non potevo muovermi.
Dovevamo tornare a casa.
Ogni passo era una prova.
Aldo mi teneva stretta, cercando di bilanciare il mio peso mentre avanzavamo lungo il sentiero.
A volte mi sorreggeva per aiutarmi a zoppicare, altre volte mi sollevava di peso, stringendo i denti per lo sforzo.
— Riusciremo a farcela,
Affermava con un tono che convinceva lui stesso più di me.
Il sudore gli imperlava la fronte, le braccia tese sotto il mio peso, ma non si fermava.
Sentivo i suoi respiri farsi più irregolari ogni volta che mi sollevava per superare un tratto più difficile.
Quando finalmente giungemmo a casa, mia madre non perse un secondo.
— Siedila subito!
Ordinò, già con il telefono in mano.
Chiamò un ortopedico, impartendo anche a lui ordini con la solita determinazione.
— Ha bisogno di una visita immediata.
— No, non domani.
— Ora.
Aldo si lasciò cadere su una sedia, esausto, ancora col fiatone per lo sforzo. Io lo guardavo e percepivo tutta la fatica nei suoi occhi.
Aveva portato il peso della mia caviglia dolorante, ma anche quello della situazione, della convivenza, della tensione costante.
Quando mia madre finì la telefonata, si voltò verso di me con il suo sguardo severo.
— Ora aspettiamo. E tu non muoverti.
Io annuii, ma dentro di me sentivo che questo era solo un altro capitolo della nostra prigionia domestica.
L’ortopedico arrivò una mezz’oretta più tardi.
Era un bel ragazzo di circa trent’anni, moro con uno sguardo acuto che, stranamente, sembrò piacere subito a mia madre.
Egli aveva un’aria sicura; quella di chi ha già visto centinaia di caviglie gonfie e non si lascia sorprendere facilmente.
Aveva gesti rapidi, precisi, quasi automatici e si concentrò su di me ma percepivo che Aldo non perdeva di vista ogni suo movimento.
Quando il medico mi sfiorò la pelle per controllare l’articolazione, il suo tocco fu freddo, distante, professionale: eppure, Aldo irrigidì leggermente le spalle.
Forse solo per stanchezza.
O forse no.
Con mani esperte avvolse la mia caviglia nella benda elastica; i suoi polpastrelli si muovevano con naturalezza, senza esitazioni.
Aldo abbassò lo sguardo per un istante, poi si avvicinò di qualche centimetro, quasi a ribadire la sua presenza, il suo ruolo.
Il medico terminò il lavoro e stabilì la sentenza:
— Quindici giorni di riposo assoluto.
E fu allora che Aldo tornò pienamente in scena.
Non c’era più bisogno del medico: era lui a sorreggermi adesso, lui a prendersi carico del mio peso.
Il mio braccio si strinse intorno al suo avambraccio.
Un attimo di esitazione, poi il suo respiro cambiò appena.
In quell’istante, non ero più soltanto la persona da aiutare, ma qualcosa di più, sua moglie, la sua donna.
Il silenzio nella stanza era denso, intriso di qualcosa che non si poteva esprimere ad alta voce.
Io avvertivo la stretta di Aldo attorno al mio braccio, lui il peso delle mie dita sulla pelle.
Non era soltanto la fatica della giornata, né semplicemente il dolore alla mia caviglia.
C'era altro, qualcosa che era cambiato.
Aldo sciolse lentamente la presa, ma non si allontanò.
Sembrava riflettere su qualcosa che non riusciva ancora a formulare chiaramente.
— Devo uscire un attimo.
La frase parve casuale.
Io sapevo che non lo era.
Lui aveva bisogno di aria, di spazio, di pensiero.
Quando rientrò più tardi, il suo passo era più deciso, lo sguardo acceso di una nuova determinazione.
— L’enoteca di Matteo a Livorno è in vendita.
Mi sollevai appena contro lo schienale della poltrona.
Livorno.
Quel bel locale.
— Il proprietario è un nostro amico e sta cedendo l’attività.
La sua voce era carica di aspettativa, di speranza.
Non era una semplice informazione, era un progetto.
— Se la prendiamo noi, se ci investiamo i nostri risparmi…
Le parole rimasero sospese nell’aria.
Io non potevo muovermi, ma lui sì.
Ci scambiammo uno sguardo lungo e carico di significato.
Il peso di mia madre, la monotonia di questa casa, la sensazione di essere intrappolati in una vita che non ci apparteneva davvero tutto si concentrava in questa scelta.
Io annuii:
— Vai.
— Comprala.
— Organizza tutto.
— Ci sentiremo ogni giorno per telefono.
Non c’era bisogno di ulteriori spiegazioni.
CONTINUA ????
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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