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Amore senza limiti 3


di iltiralatte
30.06.2025    |    335    |    2 9.2
"Non una dichiarazione:sembrava una constatazione arrivata con ritardo … o forse con il tempo giusto..."
Capitolo 3

All’inizio era solo un’eco.
Una musica di fondo che divenne un rumore costante, una pressione sorda nel petto.
La nostalgia non bussava più: entrava. senza chiedere permesso.
Si accomodava nei suoi pensieri di giorno, e decideva lei i sogni, la notte.
Luca si trovava a cercare volto di Anna tra gli sconosciuti.
A sorridere a battute che avrebbero fatto ridere solo lei.
A parlarle anche senza parole: solo con la mente.
Provava a resistere ma era come cercare di trattenere la marea con le mani nude.
Capì che non era solo assenza quella di Anna.
Era presenza mancata e quella era la forma più feroce di tutte.
Non fu un ricordo a farglielo capire né una foto oppure un sogno.
Fu una frase, detta per caso da un collega:
— L’amore passa.
Luca sorrise ma dentro di lui qualcosa si contrasse, perché con Anna non era mai stato “solo” amore.
Era stato caos e riparo, rabbia e tenerezza, dipendenza e salvezza.
Era stata una casa costruita male ma dove voleva tornare sempre.
Ripensò a tutte le volte in cui aveva trattato quella storia come un fuoco: qualcosa che sì scaldava ma che era destinato a spegnersi.
Invece, si rese conto solo ora, quello non era fuoco: era radice e le radici … non si vedono ma sopravvivono.
Stanno ferme, immobili anche dopo che tutto il resto è caduto.
Luca si rese conto di non aver mai davvero riflettuto sull’amore.
L’aveva vissuto, subìto., cercato. ma mai pensato.
Cos’era, per lui?
Un’intesa?
Un bisogno?
Un luogo dove perdersi o dove riconoscersi?
Cominciò a rileggere i momenti vissuti con Anna, non per nostalgia ma per capire cosa lo aveva davvero toccato.
Era lo sguardo che le vedeva anche nei giorni storti?
Il silenzio che non chiedeva spiegazioni?
O solo la certezza che, con lei, non doveva fingere niente?
Forse l’amore, pensava ora, non era fatto di grandi promesse o parole giuste.
Era ciò che restava quando tutto il resto smetteva di funzionare.
A quel pensiero, non sorrise.
Non si rattristò.
Si fermò, soltanto come se la risposta fosse giunta e fosse necessario lasciarla decantare.
Aveva provato a sostituirla.
Aveva provato a dimenticarla.
Aveva persino provato a capirla, per svuotarne il magnetismo ma nulla aveva funzionato.
La distanza non guariva.
Il tempo non cancellava.
Le parole degli altri non bastavano.
Una sera, tornando a casa, si fermò davanti allo specchio.
Osservò il suo volto stanco, indurito e lì, senza preavviso, sentì farsi chiara una certezza:
Se davvero voleva stare meglio, doveva cercarla.
Non per riavere ciò che era stato.
Non per costringerla a tornare ma per dirle, almeno una volta, quello che non era mai riuscito neppure a sussurrarle: che non si trattava di bisogno né di mancanza ma di qualcosa che aveva avuto un nome preciso prima ancora che lui capisse di averlo chiamato amore.
Forse, solo parlandole, avrebbe potuto lasciarla andare o trattenerla.
Oppure semplicemente stare meglio, comunque andasse a finire.
________________________________________
Per settimane aveva vissuto in bilico.
Non era paralisi, ma nemmeno libertà assoluta: si trovava in quella terra di mezzo dove ogni giorno sembrava definitivo e nessuno lo era davvero.
Si svegliava con l’idea di chiamarla, si addormentava con il sollievo di non averlo fatto.
Di giorno immaginava i suoi silenzi,di notte riscriveva dialoghi mai detti.
Aveva cercato consiglio; qualche amico gli aveva raccomandato di lasciar perdere, qualcun altro gli aveva suggerito di provare, tanto “peggio di così ... ma non era per gli altri, e nemmeno per Anna.
Era per sé, perché da settimane ogni cosa in lui sembrava trattenere il fiato e adesso, all’improvviso, le sue difese cedettero.
Non fu un’illuminazione.
Non fu una rivelazione.
Unicamente un punto che si spostò.
Un peso che cambiò posto, come un sassolino tolto da una scarpa.
Era seduto al tavolo della cucina, una tazza davanti, le mani ferme.
Fu lì che pensò senza riserve: la devo cercare.
Non con il desiderio di recuperare.
Non con il rimorso addosso.
Con l’urgenza pulita di chi ha capito che ciò che non si dice pesa più di ciò che si sbaglia.
Avrebbe trovato il modo.
Un messaggio, una voce, un’occasione.
Non importava come: importava farlo, perché il non sapere era diventato più difficile del perdere.
Dapprima pensò di telefonarle
Se desiderava riprendere i contatti questo era indubbiamente il modo più veloce.
Non aveva scritto, non aveva chiesto, non aveva bussato a nessuna porta ma qualcosa in lui era già in moto.
Non aveva ancora preso in mano la cornetta quando Luca si rese conto che cercarla non significava solo digitare un numero o varcare un ingresso.
Significava prepararsi; non al rifiuto, non all’accoglienza ma alla verità.
La verità era che non sapeva cosa attendersi.
Non sapeva se lei avrebbe risposto.
Non sapeva se avrebbe accettato di rivederlo o se, al contrario, avrebbe guardato altrove con occhi fermi e distanti.
Però, in quella incertezza, non c’era più paura.
C’era solo la tensione pura del possibile.
Passò giorni a immaginare.
Lei che apriva la porta senza dire nulla.
Lei che rideva, stupita.
Lei che chiudeva piano, come chi ha già detto tutto una volta per tutte.
Provò a immaginare anche se stesso.
Come sarebbe stato ritrovarsi davanti ad Anna?
Sapeva di non portare con se una richiesta ma un’urgenza nuda e spoglia che non chiede nulla se non di essere ascoltata.
Si domandò anche cosa dire.
Se servisse parlarle, spiegare, giustificarsi ma ogni parola che gli veniva in mente sembrava più piccola di ciò che sentiva nel suo cuore.
Forse doveva solo arrivare da lei: starle davanti, senza pretese, senza certezze.
Essere presente, tutto qui, perché a volte il coraggio non è dire: è reggere l’attesa del responso.
Qualunque esso sia.
Non aveva pianificato nulla.
Era uscito senza sapere dove stesse andando.
O meglio: lo sapeva, ma faceva finta di no.
I piedi si muovevano da soli, portandolo attraverso strade familiari, curve di città che non guardava da mesi ed alla fine, inevitabilmente, finì lì: il bar dove l’aveva incontrata la prima volta.
Il locale non era cambiato molto.
Stesse luci calde e basse.
Stesso odore lieve di caffè e dolci appena scaldati.
Stessi tavolini spaiati, alcuni occupati da volti distratti, altri vuoti come piccole attese ancora senza nome.
Entrò quasi in punta di piedi, come se il passato avesse orecchie.
Scelse un tavolo d’angolo.
Lo stesso.
Quello in cui una volta, tempo prima, aveva rimproverato un cameriere suo complice.
Era cominciata così.
Un piccolo inciampo che li aveva fatti incontrare a metà strada.
Si sedette.
Ordinò un caffè.
Guardò fuori.
Guardò il telefono.
Guardò il fondo vuoto della tazza.
Quindi non guardò più nulla.
Unicamente attese!
Non sapeva bene cosa.
Non si aspettava davvero che accadesse qualcosa ma dentro di se percepiva delle vibrazioni.
Era una di quelle attese che non si sa spiegare, ma che svegliano anche durante il sonno.
La porta si aprì.
Un suono familiare, lieve.
Qualcuno entrò.
Due passi.
Una figura.
Un’ombra.
Quindi, nitida: Anna.
Era lì.
Non in sogno.
Non in un ricordo.
Era presente!
In piedi guardava il locale, come se cercasse un punto preciso da dove ricominciare.
Il loro sguardo si incrociò.
Un attimo, nulla di più ma bastò.
Non ci furono sorrisi come non ci fu imbarazzo.
Solo quel tempo sospeso in cui ci si riconosce, senza sapere se si è ancora gli stessi.
Lei non fece grandi gesti.
Fece tre passi quindi, con voce semplice, come se non lo avesse visto da ieri:
— Sei tornato!
Luca si limitò ad annuire.
Non trovò parole.
Non cercò giustificazioni.
Dentro di lui, tutto taceva ma la ragione diceva una cosa chiara:
— Era qui che dovevo arrivare.
Anna si sedette.
Nessuno chiese nulla.
Nessuno spiegò.
Solo due corpi fermi, una tazzina vuota ed il rumore leggero di qualcosa che , forse stava per cominciare di nuovo senza assomigliare ad ieri.
________________________________________
Anna non si aspettava di vederlo.
Luca lo capì subito dal modo in cui ella sgranò gli occhi per un istante appena come se avesse scorto un riflesso non una presenza reale.
Tornò velocemente neutra.
O almeno, ci provò.
Si sedette senza fretta, senza esitazione ma neppure con sicurezza come se avesse imparato a camminare in equilibrio tra il trattenere e il lasciarsi andare.
Lui la osservava.
Non per decifrarla.
Per registrarla, semplicemente.
Quel gesto mentre spostava la sedia.
Le mani che si intrecciavano.
Lo sguardo che non fuggiva ma cercava un punto alle sue spalle.
— Non pensavo …
Disse lei, piano, rivolta più a se stessa che non a lui.
— Nemmeno io, rispose Luca.
Non era vero ma era l’unico modo per avvicinarsi senza sfrontatezza.
Anna si sistemò i capelli dietro l’orecchio.
Un gesto semplice ma, nel farlo, qualcosa mutò nel suo viso.
Non lo sguardo: quello era sempre lì anche se adesso sembrava meno armato.
Dentro c’era qualcosa.
Non tenerezza.
Neppure freddezza.
Era qualcosa di indefinibile, come un ricordo che non fa più male ma non ha ancora deciso se può fare bene.
— Perché adesso?
Domandò senza accusa, solo con stanchezza sincera.
Ora Luca capì che non sarebbe bastato esserci: che lo spazio tra due persone non si colma con la presenza ma con ciò che si riesce a dire, o almeno a portare.
Aprì le mani sul tavolo.
Non un gesto simbolico, solo un modo per mostrarsi pieno e vuoto allo stesso tempo.
— Perché adesso: perché prima avevo solo paura.
— Ora ho ancora timore ma è tutto ciò che avverto e con quello sono venuto.
Anna non rispose ma il suo sguardo, pian piano, smise di cercare un altrove.
Ci fu un momento di silenzio ma non era imbarazzo.
Era solo quel tempo necessario perché le cose vere potessero emergere, come il respiro dopo un lungo trattenersi.
Luca si umettò le labbra, guardò il bordo della tazzina.
Alzò gli occhi su di lei.
— Non sono più lo stesso.
Affermò:
— Non da quando non ci sei.
Anna lo guardò.
Non c’erano lacrime.
Nemmeno stupore.
Solo attenzione piena, quella che si concede a una confessione che non domanda sconti.
— Io vivo, rido, lavoro, dormo ma faccio tutto a metà, come se una parte di me restasse inchiodata lì, dove sei rimasta tu.
Non era preparato a dirlo.
Non l’aveva nemmeno pensato così, fino a quel momento ma mentre parlava, le parole si disponevano da sole come quelle verità che si riconoscono solo quando prendono voce.
— Non ti sto dicendo “torna”.
— Non ti sto dicendo “mi manchi” nel modo in cui si dice agli amici o ai ricordi.
— Sto solo dicendo che da quando non ci sei non sono più io.
— O meglio: sono io ma senza il mio baricentro.
Anna continuava a guardare Luca senza interromperlo e senza correggerlo.
Forse non sapeva ancora cosa pensare ma non scappava e quello a Luca bastava.
In quel momento sarebbe stato sufficiente tutto ciò che non era andato perso.
Anna non replicò subito.
Non per imbarazzo.
Nemmeno per cautela.
Sembrava cercare dentro di sé una frase che non fosse solo una reazione.
Guardava Luca, e qualcosa si muoveva nei suoi occhi.
Non un tremore.
Qualcosa di più sottile: un disarmo che faticava a mostrarsi.
Replicò quasi sottovoce:
— Anch’io provo la stessa cosa.
Non fu un annuncio.
Non una dichiarazione:sembrava una constatazione arrivata con ritardo … o forse con il tempo giusto.
Luca la guardò senza capire all’inizio.
— In che senso?
Lei si passò una mano sulla fronte lasciando uscire il resto come se non potesse più trattenerlo.
— Non sono più me stessa.
— Non da quando non ci sei.
Lo disse senza enfasi, quasi con fatica ma ogni parola era precisa come se ci avesse lottato per mesi.
— Faccio tutto.
— Vivo, parlo, decido ma è come se ogni gesto avesse un’eco che non mi appartiene più.
Luca non parlava.
Non perché non avesse nulla da dire ma perché in quel momento bisognava solo ascoltare.
— Non ho mai saputo se ti odiavo o se ti volevo ancora ma ogni volta che pensavo ad un giorno qualsiasi era con te che lo immaginavo.
Si guardarono.
Stavolta a fondo: non c’era più distanza.
Solo due assenze che si riconoscevano.
Anna esalò un lungo respiro, poi abbassò lo sguardo.
— Non ti sto dicendo che ricomincerà.
— Ti sto solo dicendo che non è mai davvero finita


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