Lui & Lei
Esaurita 2

24.06.2025 |
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"Se avesse oltrepassato quella soglia proponendosi e fosse stato rifiutato … avrebbe perso tutto..."
Il giorno seguente, Marianna si sentiva stranamente leggera.
La conversazione con Franco le aveva dato una nuova prospettiva e, per la prima volta da molto tempo, si sentiva meno oppressa dalle sue preoccupazioni.
Quando arrivò al bar, Franco era già lì, seduto al solito tavolino.
La salutò con un sorriso caloroso.
— Buongiorno, Marianna.
— Come stai oggi?
— Buongiorno, Franco.
— Mi sento meglio, grazie a te. .
Rispose lei, sedendosi accanto a lui.
Franco le porse un piccolo pacchetto.
— Ho pensato che questo potesse farti piacere.
Marianna aprì la confezione e trovò un piccolo diario con una copertina di pelle.
— È bellissimo, Franco.
— Grazie mille.
— Ho pensato che potresti usarlo per scrivere i tuoi pensieri e le tue emozioni.
— A volte, mettere le cose nero su bianco aiuta a vedere tutto con maggiore chiarezza.
Marianna annuì, toccata dal gesto.
— Lo farò.
— Grazie ancora.
Passarono il pomeriggio a chiacchierare, e Marianna si sentiva sempre più a suo agio con Franco.
La sua presenza era diventata un punto fermo nella sua vita, un’ancora di salvezza in mezzo alla tempesta.
Un giorno, mentre Marianna era al parco con il bambino, questi ebbe un attacco d’asma particolarmente grave.
Nonostante i suoi sforzi per calmarlo e somministrargli i medicinali, il bambino non riuscì a riprendersi.
Marianna, disperata, lo portò di corsa all’ospedale, ma era troppo tardi.
Il bambino non ce la fece morì tra le sue braccia.
La perdita fu devastante per Marianna. Il dolore e il senso di colpa la travolsero, portandola sull’orlo di un esaurimento nervoso.
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Non c’era più bisogno di parole, nel bar.
I rumori metallici della macchina del caffè, il chiacchiericcio distante dei tavolini, lo sfregare pigro delle tazzine contro il piattino: tutto si fondeva in una sospensione che a tratti somigliava alla quiete.
Una quiete pesante, però: più vicina al tormento che alla pace.
Marianna sedeva da sola, come ogni mattina da quando il tempo aveva smesso di contare.
Stava nello stesso tavolino contro il muro, sotto quella stampa sbiadita di un porto francese che non aveva mai guardato davvero.
Aveva ordinato il caffè ma non lo toccava.
Non c’era fretta.
Non c’era più nulla.
Il barista non le chiedeva più niente.
Non le domandava come stava, non tentava battute.
Le portava il bicchierino d’acqua, le lasciava il giornale chiuso.
Forse per rispetto; forse perché, a volte, il dolore si legge meglio nel silenzio che sulla pelle.
Franco entrò, puntuale come sempre, ma quella mattina qualcosa lo fece voltare prima del solito.
Non fu il profumo di caffè né lo scricchiolio della porta.
Fu l’assenza che si tagliava nell’aria.
L’assenza di uno sguardo, di un bambino, di un nome.
La vide.
Non la salutò: si avvicinò lentamente, non per parlare, ma per esserci.
A distanza giusta e da lì, la storia poteva cominciare.
Marianna gli si appoggiò piano.
Non fu un gesto improvviso, né cercato.
Semplicemente, si lasciò andare, inclinando la testa fino a poggiarla contro il petto di Franco.
Lui non si mosse.
Non alzò la mano per accarezzarla.
Non abbassò gli occhi.
Rimase immobile, come se quell’appoggio fosse parte di un rito da non disturbare.
Il suo respiro era regolare, ampio, ma silenzioso come la sua presenza.
Marianna chiuse gli occhi per un istante.
Nessuna lacrima, nessun tremore.
Solo quella gravità nuova: sentirsi sorretta senza essere trattenuta.
Non dissero nulla.
Non era il momento delle parole
Era il momento del peso condiviso, quello che, se appoggiato al posto giusto, non affonda ma tiene a galla.
— Lui non mi guarda più nemmeno quando piango.
Gli sussurrò.
Non c’era seduzione nella voce.
Solo una stanchezza svuotata, scavata a fondo, come dopo una lunga febbre.
La frase non cercava risposta: non era nemmeno un’accusa.
Sembrava più una constatazione gettata nell’aria, come si lascia cadere un oggetto inerte dalla tasca.
Franco la ascoltò senza cambiare espressione.
Non per freddezza, ma perché aveva imparato che certe parole vanno attraversate in silenzio.
Non rispose:
— Mi dispiace
Neppure:
— Sei forte!
Né:
— Meriti di più..
Restò immobile: semplicemente quello.
Nella piega di quel non-dialogo, qualcosa si compattò: per Franco la sua presenza; per Marianna la sua frattura.
Tra loro, un vuoto non più rispettato.
Finalmente.
Franco non rispose.
Non per mancanza di parole, ma perché le parole, in quel momento, avrebbero solo sporcato la trasparenza del gesto.
Allora fece l’unica cosa che il corpo conosceva meglio della voce:
le appoggiò una mano sul braccio.
Leggera.
Attenta.
Come si fa con le foglie secche d’autunno, quando si sfiorano per non spezzarle.
Quando anche il rumore più lieve è già di troppo.
Il contatto durò pochi secondi, ma fu preciso.
Un punto d’appoggio senza peso.
Una presenza che non invocava, non chiedeva ma riconosceva.
Marianna non si voltò.
Il suo respiro cambiò appena.
Bastava quello.
— Ho sempre sognato di avere un angelo a vegliarmi, ma non riuscivo a dargli un volto.
— Ora sì,
Disse Marianna, con lo sguardo perso nella tazza vuota.
Non cercava conforto.
Non lanciava un segnale.
Stava solo affermando quello che sentiva, con una semplicità che aveva il peso delle cose certe.
L’angelo non era una figura celeste: era suo figlio finalmente riconosciuto nel suo nuovo stato.
Franco non parlò.
Non abbassò gli occhi.
Solo respirò più piano, come se volesse farsi da parte senza andarsene.
Marianna non piangeva, ma il bordo della tazza sembrava umido: o forse era solo uno scherzo della luce.
Franco non rispose.
Aveva imparato che certe parole non chiedono conferma: solo silenzio.
In quel silenzio si sentiva intero: né muto, né assente: presente senza invadere.
Lasciò che la frase di Marianna scivolasse nell’aria, si adagiasse tra loro come una coperta sottile.
Non serviva avvolgerla, né scioglierla.
Bastava esserci mentre galleggiava attorno a loro
Marianna non si mosse ma il respiro era diventato più largo.
Sembrava che quel silenzio la legittimasse: non giudicata, non compatita: solo vista.
Così, il momento durò interamente.
Fu allora che lei gli sfiorò il viso.
Una carezza lieve, quasi infantile, come si fa agli assenti immaginati: quelli che si accarezzano nei sogni, o nelle fotografie sbiadite.
Franco si irrigidì.
Non per rifiuto, ma per istinto: il suo corpo non era allenato alla tenerezza.
L’intimità, per lui, era sempre stata fatta di distanza rispettata, di ascolto composto, mai di pelli a contatto.
Eppure, in quell’istante, non si mosse.
Non si scostò.
Socchiuse gli occhi.
Non per piacere ma per accogliere.
Come chi, pur tremando, lascia aperta la porta quando bussa qualcuno che ha atteso da sempre.
La mano di Marianna tremava appena, ma restò lì.
Il silenzio, per la prima volta, si fece caldo mentre un brivido freddo gli attraversava la schiena.
Non parlarono.
l gesto restò lì, sospeso tra loro, come un oggetto lasciato sul tavolo e mai più spostato.
Non pesava, non brillava, non reclamava attenzione ma esisteva.
La sua presenza cambiava la disposizione delle cose attorno: le parole che non venivano dette, le mani che restavano ferme, perfino i pensieri, che ora camminavano in punta di piedi.
Marianna fissava un punto indefinito oltre il vetro.
Franco seguiva il ritmo del suo respiro.
Il tempo non accelerava, non rallentava: stava, come loro.
Quel gesto: lieve, intimo, imprevisto non apriva ad un dopo.
Non prometteva.
Non chiedeva.
Restava ed in quella permanenza silenziosa, succedeva tutto.
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Prima di quel giorno, nessuno aveva mai davvero guardato Franco.
Si notava, certo il viso pulito, l’intelligenza discreta, una gentilezza innata che colpiva più dello sguardo ma dentro, aveva una tensione che lo tirava in due direzioni opposte.
Fin da ragazzo, Franco desiderava.
Desiderava avere una donna con forza, con fragilità, con il corpo e con la mente ma ogni volta che una relazione femminile sembrava sfiorare la possibilità di diventare intima e vera qualcosa lo bloccava.
Non era paura del corpo altrui.
Era terrore di ciò che sarebbe potuto accadere dopo.
Se avesse oltrepassato quella soglia proponendosi e fosse stato rifiutato … avrebbe perso tutto.
Non solo il desiderio ma anche la vicinanza, la complicità, l’amicizia.
Proprio quella perdita gli sembrava intollerabile.
C’era stata una ragazza, anni prima.
La voce gentile, le mani che tremavano come le sue.
Una sera lui provò a sfiorarle la schiena: un gesto incerto, scomposto, pieno di speranza.
Lei si ritrasse senza una parola.
Non fu crudele, ma bastò quello.
Egli non la avvicinò più.
Non perché non l’amasse ma perché aveva capito che, da quel momento, non sarebbe stato più neppure amico.
Da allora, Franco imparò a camminare lungo i bordi: ad essere presente, senza stringere.
Ad ascoltare, senza domandare.
A restare, pur sapendo di non poter toccare.
Le ragazze gli volevano bene.
Ridevano con lui, si confidavano, lo abbracciavano all’improvviso col volto ancora bagnato di lacrime, o con quella leggerezza teatrale che arriva dopo un litigio risolto.
Lo cercavano per un consiglio, un parere, una voce che sapesse ascoltare senza giudicare.
Mai per amore.
Con Franco si sentivano al sicuro.
Questo bastava a non desiderarlo, perchél’emozione ha bisogno di vertigine.
Franco, invece, era terra stabile.
Lui accoglieva tutto.
Quando dentro si agitava qualcosa, un impulso, un pensiero che scaldava la pelle egli lo seppelliva con cura.
Lo chiamava rispetto ma sotto bruciava una fame mai confessata.
Una voglia di essere scelto, di essere guardato con brama, non solo con uno sterile affetto.
Una volta una ragazza gli disse:
— Tu sei la persona più importante della mia vita ma non ti amo.
Egli sorrise.
Rispose che capiva benissimo.
Forse era vero.
Corse in camera sua e diede sfogo a tutte le sue lacrime.
Col tempo imparò a non aspettarsi più nulla.
A restare.
Ad esserci.
Anche quando sapeva già che, dopo un abbraccio, lei sarebbe corsa altrove in cerca di rapporti fisici che mai avrebbe sognato di avere con lui..
Col tempo, quella dinamica: l’essere cercato per conforto ma mai per desiderio scavò in silenzio il suo carattere.
Non lo diceva a nessuno; forse neppure a se stesso, ma dentro, un pensiero ostinato aveva preso dimora: non sono abbastanza uomo per essere scelto.
Non era una convinzione rumorosa.
Era un fondo di malinconia, come una riga sottile sotto ogni gesto.
Persino nei momenti in cui sembrava essere al centro degli interessi, sentiva che gli mancava qualcosa.
Non il corpo.
Non la mente.
Lo slancio che fa dire:
— Sei tu.
Così, piano piano, Franco smise di provarci.
Non fece più il primo passo, né il secondo.
Lasciava che le cose scorressero accanto a lui, senza più tentare di intercettarle.
Lo faceva con una compostezza tale che nessuno se ne accorgeva.
Ma dentro … quel senso d’inadeguatezza lo modellava, lo guidava, gli insegnava a non aspettarsi più nulla.
Non per cinismo: per auto protezione.
Da quella rinuncia lenta, silenziosa mai del tutto accettata era nato un dono che in pochi sanno portare: la capacità di avvertire l’altro, senza bisogno che questi parli.
CONTINUA ? '? ? ? 👍
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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