bdsm
Scultura del desiderio Cap. 1


20.05.2025 |
196 |
0
"Vuole giocare, e io non sono da meno, pensò, notando il modo in cui lui si fermava a un passo di distanza, abbastanza vicino da farle percepire il calore..."
L’aria di fine primavera portava con sé il profumo dei vigneti, un misto di terra umida e fiori selvatici, mentre il sole accendeva le colline toscane di una luce dorata. Livia Moretti guidava lungo la strada sterrata che serpeggiava tra gli uliveti, le gomme della sua Fiat 500 che scricchiolavano sulla ghiaia. Aveva 28 anni, un’architetta con un talento per trasformare vecchie strutture in spazi che respiravano vita, ma il suo cuore batteva più forte del solito quel giorno. Non era solo l’importanza del progetto – la ristrutturazione della villa di famiglia dei Valenti, una delle case vinicole più prestigiose del Chianti – ma l’uomo che l’aspettava. Edoardo Valenti, 42 anni, un nome che evocava potere, mistero e un’eleganza che aveva già fatto breccia nella sua immaginazione.Livia si sistemò una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio, controllando il suo riflesso nello specchietto. Il vestito di lino nero che aveva scelto era semplice ma audace, con una scollatura a V che lasciava intravedere la curva delicata del décolleté, e i tacchi alti aggiungevano un ritmo deciso ai suoi passi. Non era solo una questione di stile: sapeva che il primo incontro con un cliente come Edoardo richiedeva un equilibrio tra professionalità e presenza. E qualcosa le diceva che lui non era un cliente qualunque.
La villa apparve all’orizzonte, un gioiello di pietra toscana incastonato tra i vigneti. Le mura color miele si ergevano contro il cielo, interrotte da grandi finestre ad arco che riflettevano il sole. Le travi di quercia sporgevano dal tetto, e un glicine in fiore si arrampicava su un lato, come se la natura stessa volesse abbracciare la casa. Livia parcheggiò accanto a una fontana in pietra nel cortile, il gorgoglio dell’acqua che le calmava i nervi. Scese dall’auto, il taccuino con i bozzetti sotto il braccio, e inspirò profondamente. Ce la puoi fare, Livia.
La porta principale, in noce massiccio con cardini in ferro battuto, si aprì prima che potesse bussare. Edoardo Valenti era lì, appoggiato allo stipite con una disinvoltura che sembrava studiata. Alto, con spalle larghe e un portamento che tradiva anni di controllo, indossava una camicia bianca con le maniche arrotolate, i bottoni slacciati quel tanto che bastava a rivelare un accenno di petto scolpito. I capelli castano scuro, leggermente brizzolati sulle tempie, incorniciavano un viso dai lineamenti decisi, e i suoi occhi grigi la scrutarono con un’intensità che le fece quasi mancare il respiro. La differenza di età tra loro – quattordici anni – sembrava amplificare la sua presenza, come se ogni anno in più gli avesse scolpito una sicurezza che Livia trovava tanto affascinante quanto intimidatoria.
“Signorina Moretti,” disse, la voce bassa e vellutata, con un accenno di sorriso. “Benvenuta a Villa Valenti.”
“Grazie, signor Valenti,” rispose Livia, stringendo la mano che lui le porse. Il suo tocco era caldo, fermo, e per un istante le loro dita si intrecciarono più a lungo del necessario. “È un onore lavorare a un progetto come questo.”
“Chiamami Edoardo,” disse lui, lasciandole la mano con una lentezza che sembrava deliberata. “E il piacere è mio. Ho sentito parlare del tuo talento. Vediamo se le voci sono vere.”
Livia sorrise, un misto di sfida e sicurezza. “Spero di superarle, allora.”
Edoardo la guidò all’interno, e Livia si trovò immersa in un mondo di bellezza antica. Il pavimento in cotto brillava sotto la luce che filtrava dalle finestre, le pareti in pietra mostravano i segni del tempo, e un soffitto con travi di quercia dominava l’ingresso. Ma c’erano anche segni di abbandono: affreschi sbiaditi, angoli polverosi, un’aria di nostalgia che chiedeva di essere riportata in vita. Edoardo spiegò la sua visione: voleva che la villa restasse un omaggio alla sua storia, ma con un’anima moderna, un luogo dove il passato e il presente potessero convivere. Livia annotava ogni parola, ma non poteva ignorare il modo in cui lui la guardava, come se ogni suo movimento – il modo in cui teneva la penna, il leggero ondeggiare del vestito – fosse un dettaglio da studiare.
“Dove vuoi iniziare?” chiese Edoardo, appoggiandosi a un tavolo in noce nell’ingresso, le braccia incrociate che mettevano in risalto i muscoli sotto la camicia.
Livia aprì il taccuino, posandolo sul tavolo. “Ho preparato alcuni bozzetti preliminari, basati sulle foto che mi hai mandato. Partirei dalla cucina, è il cuore della casa.” Si chinò leggermente per mostrare i disegni, consapevole che la scollatura del vestito si apriva appena, catturando lo sguardo di Edoardo per un istante. Non era calcolato, ma non le dispiaceva l’effetto. “Propongo un open-space con un’isola centrale in acciaio satinato e marmo di Carrara. Il cotto del pavimento resta, ma possiamo integrare un sistema di riscaldamento a pavimento e luci a LED nascoste per un tocco moderno.”
Edoardo si avvicinò, sfiorando il bordo del disegno con le dita. “Acciaio e marmo,” mormorò, come se stesse assaporando le parole. “Freddo, ma caldo al tocco. Mi piace.” Il suo sguardo si alzò su di lei, e Livia sentì un brivido. Era un complimento al progetto, o a lei? La linea tra i due si stava già sfumando.
“E il salone?” chiese lui, indicando un altro schizzo. Livia passò al disegno successivo, i tacchi che risuonavano sul cotto mentre si spostava accanto a lui. Il profumo di Edoardo – un misto di legno di sandalo e qualcosa di più terroso – la avvolse, e per un momento si chiese come sarebbe stato avvicinarsi ancora di più. Scacciò il pensiero e si concentrò.
“Qui restaurerei l’affresco sul soffitto,” disse, indicando le linee sbiadite di una scena mitologica. “E aggiungerei pannelli scorrevoli in vetro temperato per creare spazi fluidi. Un divano in pelle grigia, un camino restaurato per le serate d’inverno.” Le sue dita tracciavano i contorni del disegno, e Edoardo si chinò accanto a lei, il suo respiro vicino al suo orecchio.
“Sai rendere una stanza… invitante,” disse, la voce bassa, quasi un sussurro. Livia girò il viso verso di lui, i loro occhi a pochi centimetri di distanza. La differenza di età sembrava dissolversi in quel momento, sostituita da una tensione che vibrava tra loro.
“È il mio lavoro,” rispose lei, un sorriso appena accennato. “Rendere gli spazi desiderabili.”
Edoardo rise piano, un suono che le fece accelerare il battito. “Sei brava, Livia Moretti.”
Il tour della villa continuò, con Livia che prendeva appunti mentre Edoardo descriveva i suoi desideri: una camera da letto padronale con un letto minimalista e una parete di vetro opaco verso il bagno, una cantina antica trasformata in uno spazio per eventi esclusivi, un bagno con una vasca freestanding e una doccia a pioggia. Ogni stanza sembrava portare con sé una promessa, un’immagine di loro due che si insinuava nella mente di Livia: un bacio contro il marmo della cucina, un abbraccio davanti al camino, un incontro nella vasca sotto l’acqua calda. Si rimproverò per quei pensieri, ma il modo in cui Edoardo la guardava – con un misto di ammirazione e desiderio – non aiutava.
L’ultima tappa fu la vecchia stalla, raggiungibile attraverso una porta interna che collegava la villa al cortile. Livia si fermò sulla soglia, colpita dall’atmosfera: pareti in pietra grezza, mangiatoie in legno logoro, anelli di ferro arrugginiti fissati al muro, travi a vista che sembravano raccontare storie di un’altra epoca. L’odore di terra e paglia aleggiava ancora, nonostante la stalla fosse vuota da anni. Edoardo si fermò accanto a lei, le mani in tasca, il suo profilo illuminato dalla luce che filtrava da una finestra rotta.
“Questo è il mio sogno,” disse, la voce più morbida ora, quasi vulnerabile. “Voglio trasformarla in un laboratorio d’arte. Creo sculture, Livia. Creta e acciaio. Voglio che questo spazio resti ciò che è 'ruvido, vero' ma con un’anima nuova.”
Livia si avvicinò a una mangiatoia, sfiorando il legno con le dita. “Posso lavorarci,” disse. “Manteniamo le pareti in pietra, le mangiatoie come mensole, gli anelli come supporti per le tue opere. Un pavimento in cemento lucidato, un lucernario per la luce, luci industriali regolabili. Uno spazio che respira storia, ma guarda al futuro.”
Edoardo si avvicinò, fermandosi a pochi passi da lei. “Sai vedere quello che voglio prima ancora che lo dica,” disse, e il suo tono era un misto di sorpresa e desiderio. “Non è una cosa da poco.”
Livia si voltò, il vestito che si muoveva con lei, la scollatura che catturava un raggio di sole. “È il mio lavoro,” ripeté, ma questa volta la sua voce era più bassa, un invito involontario. Edoardo fece un passo verso di lei, e per un momento il mondo si ridusse al suono dei loro respiri, al profumo di creta che già immaginavano in quello spazio, al freddo degli anelli di ferro contro la parete.
“Vorrei che mi aiutassi con una scultura,” disse lui, rompendo il silenzio. “Non oggi, ma presto. Voglio vedere come lavori con le mani.”
Livia sentì un calore salirle al viso, ma non distolse lo sguardo. “Solo se posso guidare io, almeno un po’,” rispose, un sorriso audace. “Non sono il tipo che segue e basta.”
Edoardo rise, un suono profondo che le vibrò nel petto. “Vedremo chi guida, Livia.”
Tornarono nella villa, ma la tensione tra loro era cambiata, come se la stalla avesse acceso qualcosa di più profondo. Livia presentò un ultimo bozzetto, quello della camera da letto, e mentre descriveva il letto in acciaio e legno, la sua voce si fece più lenta, i suoi occhi cercarono quelli di Edoardo. Lui la ascoltava, appoggiato al tavolo, ma il suo sguardo era fisso su di lei, sulla curva del suo collo, sulla scollatura che si apriva appena mentre si muoveva. Quando Livia finì, il silenzio era carico di possibilità.
“Mi piace la tua visione,” disse Edoardo, alzandosi. “Ma non è solo la villa che mi intriga.” Si fermò, lasciando le parole sospese, poi aggiunse: “Ci vediamo domani per discutere i dettagli. Porta altri bozzetti. E… quel vestito. Ti dona.”
Livia sorrise, il cuore che batteva forte. “Vedrò cosa posso fare,” rispose, e mentre si dirigeva verso l’auto, i tacchi che risuonavano sul cotto, sapeva che quel progetto e quell’uomo avrebbero cambiato tutto.
Il sole del mattino inondava la villa Valenti, accendendo il pavimento in cotto di riflessi caldi che danzavano sulle pareti in pietra. Livia, seduta a un tavolo di noce nel salone principale, sfogliava i suoi bozzetti, il cuore che batteva un ritmo irregolare. Il primo incontro con Edoardo aveva lasciato un’impronta che non riusciva a ignorare: il modo in cui i suoi occhi grigi la scrutavano, la voce vellutata che sembrava sfiorarle la pelle, il gioco di provocazioni che aveva acceso qualcosa di pericoloso dentro di lei. È solo lavoro, si ripeté, ma il pensiero era fragile, sgretolato dal desiderio che le pulsava sottopelle. Oggi avrebbe presentato i bozzetti per la camera da letto padronale e il bagno, spazi che già nella sua mente evocavano immagini proibite, e la consapevolezza di quel pensiero la faceva tremare di eccitazione e paura.
Indossava un abito aderente color crema, che scivolava sulle sue curve con una sensualità discreta, la scollatura appena accennata che rivelava la clavicola e un’ombra del décolleté. I sandali neri con cinturini sottili risuonavano sul cotto mentre si alzava per sistemare i disegni, ogni passo un promemoria della sua presenza. Resta professionale, si disse, ma una parte di lei voleva che Edoardo notasse il modo in cui il tessuto le accarezzava i fianchi, il ritmo dei suoi tacchi che spezzava il silenzio.
La porta si aprì, e Edoardo entrò, portando con sé quel profumo di sandalo e terra che ormai Livia associava a lui. La camicia grigia, con i bottoni slacciati quel tanto che bastava a mostrare un accenno di petto, e i jeans scuri che aderivano alle sue gambe lo rendevano quasi troppo perfetto. Il suo sorriso lento era un invito, e i suoi occhi la trovarono subito, accendendo un calore che le risalì lungo la schiena. “Livia,” disse, la voce bassa, come se stesse assaporando il suo nome. “Pronta a sorprendermi di nuovo?”
“Dipende se sei pronto a lasciarti sorprendere,” rispose lei, un sorriso audace che nascondeva il tumulto interiore. Vuole giocare, e io non sono da meno, pensò, notando il modo in cui lui si fermava a un passo di distanza, abbastanza vicino da farle percepire il calore del suo corpo.
“Mostrami cosa hai,” disse Edoardo, appoggiandosi al tavolo, le braccia incrociate che mettevano in risalto i muscoli sotto la camicia. Il suo sguardo scivolò per un istante sulla scollatura di Livia, poi tornò ai suoi occhi, un lampo di desiderio che non cercava di nascondere.
Livia aprì il taccuino, posando i bozzetti sul tavolo. “Partiamo dalla camera da letto padronale,” disse, la voce ferma nonostante il battito accelerato. Si chinò leggermente, il vestito che si tendeva, la scollatura che attirava lo sguardo di Edoardo. “Un letto minimalista con testiera in acciaio e noce, tende di lino che lasciano filtrare la luce delle colline, una parete di vetro opaco verso il bagno en-suite. Uno spazio che invita… all’intimità.” La parola le uscì più carica di quanto intendesse, e il sorriso di Edoardo si fece più intenso.
Si avvicinò, sfiorando il disegno con le dita, le nocche segnate che tradivano il suo lavoro con la creta e l’acciaio. “Intimità,” ripeté, la voce un sussurro che le sfiorò la pelle. “Sai rendere una stanza pericolosa, Livia.” Il suo sguardo era un fuoco lento, e lei sentì il desiderio di avvicinarsi, di sfidarlo.
“E il bagno?” chiese lui, rompendo il silenzio ma non la tensione. Livia passò al bozzetto successivo, i tacchi che echeggiavano mentre si spostava accanto a lui. Il profumo di Edoardo la avvolse, e per un momento immaginò le sue mani su di lei, forti e sicure. “Una vasca freestanding in pietra, una doccia a pioggia con pareti in vetro e acciaio,” disse, indicando i dettagli. “Il cotto resta, ma con riscaldamento a pavimento. Uno spazio per rilassarsi… o perdersi.” Le sue parole erano un invito, e il modo in cui Edoardo la guardava le disse che l’aveva colto.
“Dovremmo vedere la stalla,” disse lui, la voce più bassa, quasi un comando. “Voglio capire come immagini il mio laboratorio.”
Attraversarono la villa, i tacchi di Livia che risuonavano, fino alla porta interna che conduceva alla stalla. L’aria lì era fresca, con un sentore di terra e paglia. Le pareti in pietra grezza, le mangiatoie in legno e gli anelli di ferro arrugginiti creavano un’atmosfera cruda, quasi primordiale. Un raggio di sole filtrava da una finestra rotta, illuminando la polvere che danzava nell’aria. Livia posò il taccuino su un tavolo da lavoro, sfiorando una mangiatoia. “Qui manterrei tutto,” disse, la voce morbida. “Le mangiatoie come mensole, gli anelli per le sculture, un lucernario per la luce. Uno spazio che respira la tua arte.”
Edoardo si avvicinò, fermandosi a pochi centimetri da lei. “Sai vedere dentro di me,” disse, e prima che Livia potesse rispondere, le sue dita le sfiorarono il polso, un contatto leggero ma elettrico. Lei trattenne il respiro, il cuore che martellava. Non dovrei, pensò, il ricordo della sua relazione passata che le gridava di fermarsi. Ma il desiderio era più forte, e quando Edoardo le prese entrambi i polsi, guidandoli con delicatezza ma fermezza contro la mangiatoia in legno, Livia cedette. La ruvidità del legno contro la sua schiena, il freddo degli anelli di ferro vicini, la amplificavano. Le labbra di Edoardo sfiorarono le sue, un tocco lento, quasi esitante, che accese un fuoco dentro di lei. “Lasciati guidare,” sussurrò lui, e la sua voce era un comando che la fece tremare.
La mano di Edoardo scivolò sul suo ventre, accarezzando il tessuto del vestito, poi la pelle nuda appena sopra l’orlo, un movimento lento che le fece chiudere gli occhi. Il suo tocco era caldo, deciso, e ogni carezza sembrava modellare la sua pelle come fosse creta. Livia si abbandonò, il corpo che rispondeva a ogni movimento, il respiro che si spezzava. Edoardo la spinse delicatamente contro la mangiatoia, il legno che scricchiolava sotto il loro peso, e quando il suo sesso scivolò dentro di lei, lento e deliberato, Livia sentì ogni centimetro di lui, un’onda di piacere che la travolse. Chiuse gli occhi, la testa che si piegava all’indietro, i polsi ancora fermi sotto la presa di lui. Il mondo si ridusse al loro respiro, all’odore di terra e metallo, al calore che li univa. Livia si lasciò dominare dal piacere, ogni pensiero di controllo svanito, il suo corpo che si arrendeva a lui, alla stalla, a quel momento. Le mani di Edoardo, una sul suo seno, l’altra che le teneva i polsi, erano un’ancora e una liberazione, e lei si perse in lui, in quel ritmo che sembrava scolpire qualcosa di nuovo tra loro. Il suono del suo respiro, il calore della sua pelle, il contrasto tra la ruvidità della stalla e la morbidezza del loro contatto la portarono al confine del piacere, un luogo dove non esisteva più nulla se non loro due.
Quando si separarono, Livia aprì gli occhi, il cuore ancora in tumulto. Edoardo la guardava, il respiro pesante, un misto di trionfo e vulnerabilità nei suoi occhi. “Questo,” disse, la voce roca, “è solo l’inizio.” Livia non rispose, ma il suo corpo vibrava ancora, e mentre tornavano nella villa, sapeva che quel momento nella stalla aveva cambiato tutto.
Disclaimer! Tutti i diritti riservati all'autore del racconto - Fatti e persone sono puramente frutto della fantasia dell'autore.
Annunci69.it non è responsabile dei contenuti in esso scritti ed è contro ogni tipo di violenza!
Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
Commenti per Scultura del desiderio Cap. 1:
