incesto
L’odore del tuo sale Atto.2


03.06.2025 |
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"Attraverso la porta socchiusa, intravidi un gesto deliberato, un lampo di tessuto nero che scivolava sopra il cesto della biancheria, non dentro, ma in..."
La casa aveva smesso di respirare. Quel martedì sera, il silenzio non era più un rifugio, ma una trappola, un invito che mi stringeva il petto. Ogni scricchiolio del parquet, ogni fruscio lontano, sembrava gridare il tuo nome. Ero seduto nella mia stanza, le mani sudate, il cuore che martellava come se sapesse che stavi tornando dalla palestra, portando con te quel profumo che mi faceva impazzire. Non era solo il tuo sudore, la vaniglia del tuo shampoo, o la menta del tuo dentifricio. Era qualcosa di più profondo, più intimo, che mi chiamava come una droga. E io, come un tossico, non potevo resistere.Ti sentii entrare. La porta d’ingresso sbatté, i tuoi passi rapidi attraversarono il corridoio, e il bagno si animò del tuo rumore: l’acqua che scorreva, il tuo canticchiare distratto, il tonfo morbido dei tuoi vestiti che cadevano. Ma stavolta non era il solito caos. Attraverso la porta socchiusa, intravidi un gesto deliberato, un lampo di tessuto nero che scivolava sopra il cesto della biancheria, non dentro, ma in bella vista, come un’esca. Il tuo perizoma, lucido di umori, brillava sotto la luce del bagno, un invito che mi fece deglutire a vuoto. Uscisti in fretta, i tuoi passi che si perdevano nella tua stanza, lasciando il corridoio immerso in un silenzio che mi soffocava.
Aspettai solo un minuto, forse meno. Non potevo farne a meno. Ogni passo verso il bagno era un rischio, ogni respiro un’ammissione di colpa. La maniglia, appiccicosa come sempre, cedette sotto le mie dita tremanti. Dentro, l’aria era densa, calda del tuo vapore, impregnata del tuo odore: sudore, vaniglia, e quel profumo inconfondibile della tua fica, che mi colpì come un pugno. Il cesto della biancheria era lì, i tuoi vestiti sportivi sparsi sopra, ma il perizoma nero dominava la scena, sgualcito, con una macchia lucida che tradiva il tuo tocco. Non era solo sudore. Sapevo, dal tuo diario, che ti eri masturbata prima di tornare a casa, pensando a me. Quelle pagine, lette di nascosto, mi avevano rivelato il tuo desiderio, e ora quel perizoma era la prova tangibile, un’offerta che non potevo ignorare.
Lo raccolsi con le dita che tremavano, il tessuto morbido e umido sotto i polpastrelli. Lo portai al viso, chiudendo gli occhi, e inspirai. L’odore era una droga, più intenso di qualsiasi altra volta: il tuo sudore, il tuo sale, gli umori della tua fica che mi riempivano i polmoni, bruciandomi la gola. Era come assaggiarti, come essere dentro di te. Il mio cazzo si indurì all’istante, premendo contro i jeans, una pulsazione che mi faceva quasi male. Mi slacciai i pantaloni, liberandolo, e iniziai a masturbarmi, lento, cercando di prolungare quel momento. La mano scivolava sul mio cazzo, il perizoma premuto contro il naso, il tuo odore che mi avvolgeva come un sogno. Immaginavo le tue gambe lunghe e bianche, il tuo seno sodo che si muoveva sotto la canottiera, la tua bocca che succhiava lui, ma nei miei pensieri eri mia. Ogni movimento era un tentativo di trattenerti, di rubarti ancora un po’.
Non ti sentii entrare. Ero perso, il mondo ridotto al tuo profumo, al calore del mio cazzo, al ritmo del mio respiro corto. La porta si aprì con un cigolio, e quando aprii gli occhi, eri lì. Indossavi una canottiera larga e un paio di short, i capelli umidi che ti cadevano sulle spalle, le gambe bianche che brillavano sotto la luce. Mi guardavi, e per un istante pensai che fosse la fine: rabbia, disgusto, un urlo che avrebbe svegliato nostra madre. Ma non dicesti nulla. I tuoi occhi, quegli occhi che conoscevo da sempre, si posarono sul mio cazzo, sul perizoma nero nella mia mano, e un sorriso, piccolo e complice, ti curvò le labbra. Chiudesti la porta dietro di te, il clic della serratura che risuonò come un tuono nel mio petto.
Non riuscivo a muovermi, paralizzato dal tuo sguardo. Il mio cazzo pulsava ancora nella mano, il perizoma nero stretto tra le dita, e tu eri lì, reale, non un sogno. Non un’ombra rubata dal tuo diario. Ti avvicinasti, lenta, le tue gambe che si muovevano come in un sogno, e senza dire una parola, la tua mano si chiuse attorno al mio cazzo, sostituendo la mia. Fu come un’esplosione: il tuo tocco, caldo, deciso, mi fece gemere, un suono che cercai di soffocare. Ero in estasi, in paradiso, non mi sembrava vero. Le tue dita scivolavano sul mio cazzo, stringendolo, muovendosi con una sicurezza che mi faceva tremare. Mi guardavi, i tuoi occhi nocciola che bruciavano, e io vedevo il desiderio, lo stesso desiderio che avevo letto nel tuo diario.
Poi mi baciasti. Le tue labbra si posarono sulle mie, morbide, calde, e le nostre lingue si intrecciarono, un danza frenetica che sapeva di menta e di te. Il tuo sapore era reale, non più un’eco rubata dal tuo intimo. Le tue mani non si fermavano: una continuava a segarmi, l’altra scese, stringendo le mie palle, massaggiandole con una delicatezza che mi fece quasi crollare. Gemetti nella tua bocca, il tuo nome che mi sfuggiva come una preghiera. “Sapevo che ti piaceva,” sussurrasti, tirandoti indietro, le labbra lucide, un sorriso che era sfida e promessa.
Ti inginocchiasti, lenta, le tue ginocchia che toccavano il pavimento freddo del bagno. Il mio cazzo era davanti a te, duro, pulsante, e tu lo guardasti, poi guardasti me. “Fallo bene,” dissi, imitando le parole che avevo sentito lui dirti, le parole che mi avevano tormentato per settimane. Tu sorridesti, un lampo di trionfo negli occhi, e poi lo prendesti in bocca. La sensazione fu un terremoto: il calore delle tue labbra, la tua lingua che scivolava sulla punta, assaporandomi, succhiandomi con una devozione che mi fece gemere più forte di quanto volessi. Ogni movimento era un sogno diventato realtà, ogni succhiata un’esplosione di piacere. Le tue mani continuavano a massaggiarmi le palle, e io mi aggrappavo al lavandino, cercando di non crollare.
Poi, un rumore. Passi nel corridoio, il suono familiare delle pantofole di nostra madre. Il mio cuore si fermò, ma tu non ti fermasti. Continuavi, la tua bocca che mi avvolgeva, il tuo sguardo che mi teneva prigioniero. Un colpo alla porta. “Tutto bene?” chiese nostra madre, la voce preoccupata ma lontana. Non so come trovai la voce. “Sì, mamma, tutto bene,” ansimai, cercando di sembrare normale. “Sto facendo vedere una cosa a mia sorella.” Tu soffocasti una risata contro il mio cazzo, il tuo respiro caldo che mi fece tremare. I passi si allontanarono, e il silenzio tornò, ma il rischio ci aveva accesi ancora di più.
Ti alzasti, il tuo sorriso ora più audace. Con un gesto rapido, ti togliesti gli short, lasciandoli cadere sul pavimento. Non indossavi nulla sotto. La tua fica, nuda, era lì, appena rasata, lucida di desiderio. Ti avvicinasti, aprendo le gambe, invitandomi. “Assaggiami,” sussurrasti, la voce bassa, carica di bisogno. “Voglio che senti il mio sapore alla fonte.” Mi inginocchiai, il tuo profumo che mi travolgeva, più intenso del perizoma, più vivo. La tua fica era calda, umida, e quando la mia lingua la sfiorò, gemesti piano, un suono che mi fece quasi venire. Il tuo sapore era salato, dolce, inebriante, come bere da una fonte proibita. Leccavo, succhiavo, perdendomi in te, il mio cazzo che pulsava, la mano che istintivamente lo cercava. Ma tu mi bloccasti, afferrandomi il polso. “No,” dicesti, severa ma dolce. “Solo la mia fica. Dedicati a me.”
Obbedii, la mia lingua che esplorava ogni piega della tua fica, i tuoi gemiti soffocati che riempivano il bagno. Le tue mani si intrecciavano nei miei capelli, guidandomi, spingendomi più a fondo. Ogni leccata era un atto d’amore, un’ammissione di tutto ciò che avevo desiderato. Il tuo profumo, il tuo sapore, erano una droga che mi teneva prigioniero, e io non volevo essere libero. Gemesti più forte, le cosce che tremavano, e io capii che eri vicina. Ma non ti fermasti. Ti girasti, posando l’addome sulla lavatrice, piegandoti a novanta gradi. La tua fica era lì, aperta, invitante, e tu mi guardasti oltre la spalla. “Prendimi,” dicesti, la voce rotta dal desiderio. “Fallo con forza.”
Mi alzai, il mio cazzo duro come mai prima, grosso, pulsante. Mi avvicinai, guidandolo verso di te, e quando entrai, fu come morire e rinascere. La tua fica mi avvolse, calda, stretta, pulsante, un abbraccio che mi fece gemere. Trattenesti un grido, mordendoti il labbro per non far rumore, la paura di nostra madre ancora nell’aria. Ogni spinta era un rischio, ogni affondo un’ammissione. Il mio cazzo ti riempiva, grosso, e sentivo ogni tuo muscolo stringersi attorno a me, ogni tuo respiro spezzato. Spingevo con forza, con vigore, come mi avevi chiesto, il tuo corpo che rispondeva, il tuo seno sodo che ondeggiava sotto la canottiera. “Sei mia,” ansimai, e tu annuisti, gemendo piano, il tuo nome sulla mia lingua come una preghiera.
Il tuo orgasmo arrivò come un’onda, la tua fica che pulsava, calda, stringendosi attorno al mio cazzo, invitandomi a perdermi in te. Non potevo resistere. Con un ultimo affondo, venni, un orgasmo violento che mi fece tremare, il mio seme che ti riempiva, schizzando dentro di te, fino al tuo utero, ogni goccia un segno del mio piacere. Restammo immobili, io dietro di te, il mio cazzo ancora dentro, le nostre braccia intrecciate, il tuo calore che mi avvolgeva. Il silenzio del bagno era sacro, rotto solo dai nostri respiri affannosi.
Lentamente, ci scostammo. Ti girasti, mettendoti in piedi davanti a me, le gambe aperte, il mio seme che colava dalla tua fica, lucido sulla tua pelle bianca. Mi guardasti, gli occhi pieni di desiderio e amore, e mi baciasti, un bacio lento, profondo. “Leccami,” sussurrasti, guidando la mia testa verso di te. Mi inginocchiai, inebriato dalla scena, dalla tua fica che colava di me, di noi. La mia lingua la sfiorò, assaporando il nostro piacere mescolato, salato, dolce, proibito. Ogni leccata ti faceva gemere, ogni tuo tremore mi portava più in alto, in un paradiso che non avevo mai immaginato. Più godevi, più io mi perdevo in te, la tua voce che sussurrava il mio nome, le tue mani che mi stringevano.
Il bagno era un santuario, un luogo sospeso fuori dal tempo, dove il mondo si era fermato. L’aria era densa, impregnata del nostro odore, del tuo profumo che si mescolava al mio, un intreccio di sudore, desiderio e quel qualcosa di proibito che ci aveva portati lì. Eravamo ancora fermi, tu davanti a me, le tue gambe lunghe e bianche aperte, il mio seme che colava lento dalla tua fica, lucido sulla tua pelle come una confessione. Mi guardavi, gli occhi nocciola che brillavano di una luce che non avevo mai visto prima: non era solo desiderio, era amore, un amore malato, forse, ma reale. Il tuo respiro era ancora affannoso, il tuo seno sodo si muoveva sotto la canottiera larga, e io non riuscivo a smettere di guardarti, di assorbire ogni dettaglio di te, come se temessi che tutto sarebbe svanito.
“Facciamo il bidè insieme,” sussurrasti, la voce bassa, carica di un’intimità che mi fece tremare. Era un invito, ma anche una sfida, un altro passo oltre il confine che avevamo già spezzato. Il tuo sorriso, piccolo e complice, mi fece quasi crollare le ginocchia. Annuii, incapace di parlare, il cuore che martellava così forte che pensavo l’avresti sentito. Ti avvicinasti al bidè, i tuoi movimenti lenti, deliberati, come se volessi che ogni gesto si imprimessi nella mia memoria. Ti sedesti, la porcellana fredda contro la tua pelle calda, e apristi le gambe, invitandomi con un’occhiata che era insieme timida e audace. La tua fica, ancora pulsante dal nostro orgasmo, era lì, lucida di noi, un altare che mi chiamava.
“Prima, assaggiami ancora,” dicesti, la voce che tremava leggermente, come se anche tu fossi sopraffatta da quello che stavamo facendo. Mi inginocchiai davanti a te, il pavimento freddo sotto le ginocchia, e il tuo profumo mi travolse, più intenso di qualsiasi perizoma, più vivo. La tua fica era calda, umida, e quando la mia lingua la sfiorò, gemesti piano, un suono che mi fece pulsare il cazzo, ancora gocciolante di sborra. Il tuo sapore era un’esplosione: salato, dolce, mescolato al mio seme, un cocktail proibito che mi inebriava. Leccavo lenta, assaporando ogni piega, ogni tremore del tuo corpo. Le tue mani si intrecciarono nei miei capelli, guidandomi, spingendomi più a fondo, e i tuoi gemiti soffocati riempivano il bagno, un canto che era solo per me.
Dopo un momento, mi fermasti, prendendomi il viso tra le mani. “Lavami,” sussurrasti, gli occhi che non lasciavano i miei. Aprii il rubinetto del bidè, l’acqua calda che scorreva con un suono morbido, e presi il sapone, insaponandomi le mani. Le mie dita scivolarono sulla tua fica, lente, precise, pulendo ogni traccia di noi, anche se una parte di me voleva lasciarla lì, come un marchio. L’acqua calda scorreva, mescolandosi al sapone, e i miei movimenti, delicati ma fermi, ti fecero tremare. Sfioravo il tuo clitoride, accarezzavo le tue labbra, e ogni tocco ti strappava un gemito, il tuo corpo che si inarcava contro la porcellana. “Così,” mormoravi, la voce rotta, “non fermarti.” Ben presto, i tuoi gemiti si fecero più intensi, il tuo respiro più corto, e capii che stavi salendo di nuovo verso l’orgasmo. Ti chinasti, il tuo viso vicino al mio cazzo, ancora gocciolante, e lo prendesti in bocca, leccandolo con un’avidità che mi fece gemere. Succhiavi il mio seme, il tuo sapore mescolato al mio, e il calore della tua lingua mi portò al confine del paradiso. Venisti, un orgasmo che ti fece tremare, la tua fica che pulsava contro le mie dita, i tuoi gemiti soffocati dal mio cazzo nella tua bocca.
Ti tirasti indietro, il viso arrossato, le labbra lucide, e mi guardasti con un sorriso che era puro desiderio. “Ora tocca a me lavarti,” dicesti, alzandoti e facendomi sedere sul bidè. L’acqua calda scorreva ancora, e il tuo tocco, quando insaponasti le mani, era elettrico. Cominciasti a lavarmi, le tue dita che scivolavano sul mio cazzo, pulendolo con una cura che era quasi reverenziale. Massaggiavi le mie palle, il sapone che schiumava, l’acqua che scivolava sulla mia pelle, e ogni movimento mi faceva indurire di nuovo, il mio cazzo che si ergeva sotto le tue mani. Poi, con un sorriso malizioso, la tua mano scivolò più in basso, sul mio culo, accarezzandolo, esplorandolo. Per la prima volta, sentii le tue dita premere contro di me, e quando due si fecero spazio dentro, fu come un’esplosione. Era una sensazione nuova, intensa, un paradiso che non avevo mai conosciuto. Non capivo nulla, il mio corpo travolto da un piacere che non sapevo come gestire, ma mi abbandonai, gemendo, il mio cazzo duro che pulsava. “Ti piace,” sussurrasti, e io annuii, incapace di parlare, perso in te.
Ti chinasti, la tua bocca che trovava di nuovo il mio cazzo, ora lavato, profumato di sapone. Lo succhiasti, la tua lingua che danzava sulla punta, le tue labbra che mi avvolgevano, mentre le tue dita si muovevano dentro di me, lente ma decise. Il piacere era insopportabile, un fuoco che mi consumava. Non resistetti a lungo. Con un gemito roco, venni, schizzando tanta sborra nella tua bocca, un orgasmo che mi fece tremare, ogni goccia un’offerta che tu accoglievi con avidità. Ingoiasti tutto, le tue labbra che non si fermavano, e poi mi baciasti, un bacio profondo, lento, passandomi il mio sapore, il nostro sapore, le nostre lingue intrecciate in un’unione che era più di un atto fisico. Era amore, complicità, un segreto che ci legava oltre ogni confine.
Ci guardammo, il tuo sorriso che diceva tutto. Eravamo complici, due anime che avevano trovato rifugio l’una nell’altra, in un luogo dove il mondo non poteva toccarci. Le tue mani mi accarezzavano il viso, i tuoi occhi che non lasciavano i miei, e io sentivo il tuo calore, il tuo profumo, come una promessa che non volevo spezzare. “Domani sera,” sussurrasti, la voce morbida, “nella mia stanza. Voglio di più.” Il tuo bacio, leggero sulla mia fronte, era un sigillo, un gancio che mi chiamava al prossimo incontro. La porta del bagno si chiuse dietro di te, ma il tuo profumo rimase, un filo invisibile che mi legava a te, un desiderio che non si sarebbe mai spento.
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