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incesto

L’odore del tuo sale Atto.1


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
03.06.2025    |    1.715    |    2 9.7
"Di notte, quando la casa dormiva, tu venivi da me..."
La casa respirava quando tu non c’eri. Si riempiva di silenzio, di spazio vuoto da riempire con te. Io aspettavo che i passi di nostra madre si perdessero nelle scale, che il rumore della TV in salotto diventasse un brusio lontano. Poi, solo allora, mi muovevo.
Il corridoio che portava al tuo bagno era un confine che attraversavo con il fiato sospeso. La maniglia della porta era sempre un po’ appiccicosa, per via delle tue creme, dei tuoi profumi. Dentro, l’aria era densa del tuo vapore, del tuo shampoo, del tuo dentifricio alla menta. Ma io non cercavo quello.
Il cesto della biancheria era lì, accanto alla doccia, semivuoto perché nostra madre lavava i panni il mercoledì. Ma il martedì sera, quando tornavi dalla palestra o da lui, lasciavi cadere i tuoi vestiti dentro con noncuranza. Li rovistavo con le dita tremanti, cercando quello che avevi portato più a lungo, quello che sapeva di te.
Quando trovavo quello che volevo -uno slip, un reggiseno, a volte solo una calza- lo portavo al viso e chiudevo gli occhi. Il tessuto era ancora umido del tuo sudore, del tuo sale. Respiravo finché i polmoni non mi bruciavano, finché non sentivo il tuo sapore in fondo alla gola. Poi, lentamente, mi slacciavo i pantaloni.
Era sempre più veloce di quanto volessi. Le mani mi tremavano, il respiro si faceva corto, e io cercavo di resistere, di prolungare quel momento in cui potevo fingere che fossi tu a toccarmi. Ma poi il ricordo delle tue gambe sul letto, della tua schiena curva mentre ti vestivi al mattino, mi travolgeva. E io crollavo, in silenzio, con i denti serrati e il tuo nome sulla lingua come una bestemmia.
Dopo, il vuoto. La vergogna che mi scivolava addosso mentre ripiegavo i tuoi vestiti e li rimettevo a posto.
Lui veniva il giovedì sera. Tu dicevi che studiavate insieme, e i nostri genitori annuivano, troppo stanchi per sospettare. Io sapevo.
Mi nascondevo nel corridoio, dietro la porta semiaperta della tua stanza. Prima c’erano le risate, i tuoi sospiri teatrali mentre fingevi di non volerlo. Poi il rumore dei vestiti che si muovevano, il letto che scricchiolava.
A volte riuscivo a vedere qualcosa. Le tue gambe che si aprivano, la schiena di lui che si irrigidiva mentre ti spingeva sotto di sé. Altre volte era solo il suono dei tuoi gemiti soffocati, il respiro affannoso di lui, il sordo sbattere della testata contro il muro.
Ma la cosa che mi uccideva di più era quando ti inginocchiavi.
Lui si sedeva sul bordo del letto, ti afferrava per i capelli, e tu lo guardavi con quegli occhi che io conoscevo da sempre, gli stessi occhi che mi avevano sfidato da bambini, che avevano pianto quando ti avevo spezzato il braccio spingendoti dall’altalena. Solo che ora non c’era sfida. C’era solo obbedienza.
"Fallo bene," ti diceva. E tu annuivi, aprendo la bocca e succhiandolo.
Io mi mordevo la mano, strofinandomi contro il legno della porta, immaginando che fossi tu a guardarmi così. Che fossi tu a volermi.
Di notte, quando la casa dormiva, tu venivi da me.
Non eri tu, ovviamente. Era solo la mia mente malata che giocava con i pezzi che le avevo rubato. Ma nei sogni eri reale.
Mi sedevo sul letto e tu entravi dalla porta, con indosso solo quella maglietta larga che ti copriva a malapena le cosce. Sorridevi, come facevi quando volevi qualcosa.
"Sei sicuro di volerlo?" mi chiedevi, avvicinandoti.
Io non rispondevo. Non c’era bisogno.
Nei sogni non c’era vergogna. Nei sogni potevo toccarti, baciarti, sentire il caldo tra le tue gambe senza dover rubare niente. Nei sogni eri mia.
Poi mi svegliavo, sudato, con il cuore in gola e il lenzuolo macchiato. E tu, dall’altra parte del muro, russavi leggera, ignara di tutto.
Un giorno trovai il tuo diario.
Era per sbaglio. Stavo cercando una penna nella tua scrivania e il quaderno cadde, aprendosi su una pagina piena di cuori e iniziali.
"Oggi L. mi ha fatto male, ma mi è piaciuto."
"Ho sognato che qualcuno mi guardava. Forse sono io che sono malata."
"A volte penso che M. sappia."
M. Ero io.
Chiusi il quaderno con le dita che mi formicolavano. Per la prima volta, avevo paura. Perché se tu sapevi, allora non ero più solo uno spettatore. Ero diventato parte del tuo gioco.
E non sapevo se questo mi rendeva più colpevole, o più umano.
Ora ti osservo ancora. Ma ogni volta che mi sorridi, mi chiedo se lo fai perché sei mia sorella, o perché sai.
E io continuo a rubare pezzi di te, come un mendicante che si nutre di briciole.
Forse un giorno mi fermerò.
O forse mi farò scoprire da te.
Ogni silenzio era un’accusa, ogni scricchiolio un avvertimento. Non so quando me ne accorsi per la prima volta, ma c’era qualcosa nei tuoi occhi, nei tuoi sorrisi, che non era più innocente. Non eri solo mia sorella maggiore, la ragazza con le gambe lunghe e il seno sodo che mi ossessionava. Eri diventata un mistero, una presenza che mi seguiva anche quando non eri nella stanza. E io, come un ladro, continuavo a rubare pezzi di te, ignaro che tu stessi iniziando a rubare pezzi di me.
Tutto era iniziato con il tuo diario. Quella pagina, trovata per caso, con le tue parole che mi avevano trafitto: “A volte penso che M. sappia.” Non ero più solo uno spettatore, un’ombra dietro la tua porta. Ero diventato reale per te, e quella scoperta mi terrorizzava tanto quanto mi eccitava. Da allora, non riuscivo a smettere di cercarlo, il tuo quaderno nero nascosto sotto il materasso, ogni volta che uscivi di casa. Ogni pagina era un coltello, ogni riga un fuoco che mi consumava. Non scrivevi solo di lui, del suo corpo, delle sue mani che ti afferravano. Scrivevi di me. E quello che leggevo mi spezzava e mi ricostruiva ogni volta.
Non so quando iniziasti a sospettare. Forse era stato il modo in cui i tuoi slip sparivano dal cesto della biancheria e riapparivano, piegati troppo perfettamente. Forse era il rumore dei miei passi nel corridoio, troppo lenti quando passavo davanti alla tua stanza. O forse, come scrivevi, era il mio sguardo, quel modo di guardarti che non riuscivo a nascondere, anche quando ci sedevamo a tavola con i nostri genitori. “I suoi occhi mi seguono,” avevi scritto una settimana fa. “Non so se mi spaventa o mi piace.” Quelle parole mi avevano fatto tremare, il cazzo che si induriva solo a leggerle, mentre ero chiuso nella tua stanza, il tuo profumo ancora nell’aria.
Cominciasti a spiarmi, lo so ora. Lo so perché l’hai scritto, e perché, ripensandoci, i tuoi movimenti erano cambiati. Non chiudevi più la porta del bagno del tutto, lasciandola socchiusa quel tanto che bastava per un’occhiata furtiva. Lasciavi i tuoi vestiti in giro, non più solo nel cesto, ma sul pavimento, come se volessi che li trovassi. E poi, una sera, ti vidi. Non eri nella tua stanza, non eri con lui. Eri nel corridoio, nascosta nell’ombra, mentre io ero in bagno, con il tuo reggiseno premuto contro il viso. Non me ne accorsi subito. Ero perso, come sempre, il tuo odore che mi avvolgeva, il tessuto morbido che sfiorava le mie labbra mentre mi masturbavo, il cazzo duro nella mano, immaginando il tuo seno, la tua pelle bianca sotto le mie dita. Ma poi sentii un fruscio, un respiro che non era il mio. Aprii gli occhi, e per un istante pensai di averti vista, un lampo dei tuoi capelli castani dietro la porta. Ma quando guardai meglio, non c’eri. Pensai fosse la mia immaginazione, la colpa che mi giocava brutti scherzi. Ma il tuo diario raccontava un’altra storia.

Estratto dal Diario di Lei - Mercoledì, due settimane fa
Non so cosa mi stia succedendo. Oggi l’ho visto. Ero tornata prima dalla palestra, e lui era in bagno. La porta era socchiusa, e io… non so perché mi sono fermata. L’ho guardato, M., con il mio reggiseno in faccia, le mani che si muovevano, il suo respiro corto. Avrei dovuto essere disgustata, arrabbiata. Invece, il mio cuore batteva così forte che pensavo sarebbe esploso. Il suo cazzo era lì, duro, e io non riuscivo a smettere di guardarlo. È sbagliato, lo so. È mio fratello. Ma c’era qualcosa in lui, nella sua vulnerabilità, nel modo in cui sembrava perso in me, che mi ha fatto tremare. Sono scappata nella mia stanza, ho chiuso la porta, e mi sono toccata, pensando a lui. Non riesco a smettere di pensarci. È malato? O sono io quella malata?
Ogni volta che leggevo il tuo diario, era come cadere in un abisso. Scrivevi di me con una chiarezza che mi spaventava. Avevi notato tutto: il modo in cui mi fermavo fuori dalla tua stanza quando eri con lui, il rumore del mio respiro mentre vi spiavo, nascosto dietro la porta. “So che è lì,” avevi scritto. “Lo sento. E una parte di me vuole che guardi.” Quelle parole mi avevano fatto quasi crollare, il cazzo che pulsava mentre leggevo, immaginando che tu sapessi, che tu volessi che fossi lì, a guardare lui che ti prendeva, a sognare che fossi io.

Lo facevi di proposito, ora lo so. Lasciavi la porta della tua stanza socchiusa quando lui veniva il giovedì sera. I tuoi gemiti erano più forti, come se volessi che li sentissi. E io, come un animale in trappola, non potevo resistere. Mi nascondevo nel corridoio, il cuore che martellava, il cazzo duro contro i pantaloni mentre guardavo. Le tue gambe lunghe si aprivano per lui, la tua bocca che lo accoglieva, succhiandolo con una devozione che mi uccideva. “Fallo bene,” ti diceva, e tu obbedivi, i tuoi occhi che brillavano quando il suo cazzo ti penetrava la fica. Ma nel tuo diario, scrivevi che pensavi a me. “Quando L. mi prende, a volte chiudo gli occhi e immagino M. È sbagliato, ma non riesco a fermarmi.”

Estratto dal Diario di Lei - Giovedì, una settimana fa
Stasera L. è venuto, e io l’ho fatto apposta. Ho lasciato la porta socchiusa, sapendo che M. sarebbe stato lì. L’ho sentito, il suo respiro dietro la porta, il fruscio dei suoi vestiti. Quando L. mi ha spinto sul letto, quando mi ha preso, ho gemuto più forte, perché volevo che M. mi sentisse mentre prendevo il cazzo dentro. Non so perché. È come se volessi che sapesse quanto lo desidero, anche se non dovrei. Quando L. mi ha detto di succhiarlo per farlo venire, ho guardato verso la porta, immaginando che fosse M. lì, con il suo cazzo duro, a guardarmi. Dopo, quando L. se n’è andato, mi sono toccata, pensando a M., al suo odore, al modo in cui si masturba con le mie cose. Lo voglio toccare. Voglio sentire il suo sesso nella mia mano, nella mia bocca. È una follia, ma ogni settimana lo desidero di più.

Leggere quelle parole era come bere veleno e nettare insieme. Ogni pagina del tuo diario mi avvicinava a te, ma mi faceva anche più paura. Non eri più solo un’ossessione, un sogno rubato. Eri reale, e il tuo desiderio per me era un fuoco che cresceva, proprio come il mio per te. Scrivevi di come ti masturbavi pensando a me, di come il pensiero del mio cazzo ti faceva tremare. “È più grande di quello di L.,” avevi scritto dopo avermi visto in bagno. “Voglio sapere com’è sentirlo.” Quelle parole mi avevano fatto venire nella tua stanza, il tuo diario aperto sul letto, il tuo profumo che mi avvolgeva.
La settimana prima del martedì sera, il tuo desiderio era diventato esplicito, quasi disperato. Avevi scritto di voler sentire il mio cazzo dentro di te, e quelle parole mi avevano tenuto sveglio per notti intere, il cuore che batteva troppo forte, il cazzo che non mi dava pace. Non era più solo un gioco, un sogno. Era una possibilità, e quella possibilità mi terrorizzava tanto quanto mi eccitava.

Estratto dal Diario di Lei - Lunedì, il giorno prima
Non riesco più a fingere. Ogni volta che M. mi guarda, sento il suo desiderio, e il mio cresce. L’ho visto di nuovo, ieri, in bagno, con le mie mutandine sporche in mano, come se volesse essere più vicino a me. Il suo cazzo era così duro, e io volevo toccarlo, stringerlo, sentirlo pulsare. Quando mi masturbo, penso a lui, al suo odore, al suo respiro. Non mi basta più immaginare. Voglio sentirlo dentro di me. Voglio il suo cazzo nella mia fica, voglio che mi prenda come L. non potrà mai fare. Domani torno dalla palestra, e lascerò qualcosa per lui. Voglio vedere cosa fa. Voglio che sappia che lo desidero. Sono spaventata, ma non riesco a fermarmi. Lo voglio, e so che anche lui mi vuole.

Leggere quelle parole, nascoste nella tua stanza mentre eri fuori, mi aveva fatto tremare. Il tuo desiderio era reale, tangibile, scritto in inchiostro nero che non potevo ignorare. Sapevi che ti spiavo, sapevi che rubavo i tuoi vestiti, e invece di odiarmi, mi desideravi. Ogni settimana, il tuo diario si riempiva di me, del tuo bisogno di toccarmi, di sentirmi. E ora, quel martedì sera, avevi lasciato cadere le tue mutandine di proposito, un’esca che non potevo ignorare. La casa respirava, e io ero pronto a cadere nella tua trappola.
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