tradimenti
Il dissidio interiore: Prologo


03.06.2025 |
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"Con te, sento che potrei abbandonarmi senza paura, sapendo che il tuo sguardo, la tua voce, la tua presenza mi terrebbero ancorata a me stessa..."
Carissimo Fabio,ti scrivo queste parole con la timidezza di chi si affaccia a un confine, ma anche con il coraggio di chi, da tempo, ha smesso di temere le zone d’ombra che abitano l’anima. Non è facile per me trovare il tono giusto - quello che non ferisce, non scuote, non giudica, ma solo racconta. Racconta qualcosa che porto dentro da tempo, un pensiero che ha la forma di un dubbio, forse di un dissidio interiore, forse solo di un bisogno antico di confronto.
In questo mondo che spesso si traveste di tolleranza ma custodisce ancora antichi moralismi, mi sembra che una delle ipocrisie più grandi sia quella di pretendere di distinguere con nettezza tra ciò che è “giusto” e ciò che non lo è.
Come se esistesse davvero una linea chiara, netta, oggettiva, capace di dividere l’umanamente lecito da ciò che è da condannare. Come se tutto si potesse ridurre a una questione di categorie morali, di norme sociali, di giudizi esterni.
E invece come donna che ha vissuto, letto, amato, osservato la vita anche nei suoi angoli meno luminosi, sono giunta -seppur provvisoriamente - a una convinzione personale: forse l’unico discrimine autentico non è tra il bene e il male, ma tra ciò che mi appartiene e ciò che non mi appartiene.
Tra il “mi fa bene, lo sento mio, lo scelgo” e il “non mi somiglia, non mi nutre, lo lascio andare”.
È un pensiero che potrebbe sembrare semplice, ma che, se applicato con onestà, diventa rivoluzionario. Significa, per esempio, che non mi sento di condannare alcuna pratica, alcun desiderio, alcuna esplorazione, finché questa si muove entro i confini della libertà reciproca e del consenso.
Dal voyeurismo alla zoofilia, dalle dinamiche del dolore al bisogno di molteplicità: non condanno ciò che per altri è fonte di piacere, se in quel piacere non c’è prevaricazione né violenza. La mia posizione non è complice, ma è umana. E, soprattutto, non è giudicante.
Eppure, ed è qui che nasce il mio dissidio, non riesco a fermarmi a questa apparente apertura. C’è qualcosa che continua a inquietarmi, una domanda che mi brucia dentro e che sento il bisogno profondo di condividere: quando un desiderio smette di essere tale e diventa un bisogno esistenziale, cosa accade? Come si affronta quella soglia?
Le fantasie, tutte, possono essere lecite nel mondo della mente, dei giochi simbolici, delle pulsioni che ci attraversano. Ma cosa succede quando non sono più trasgressive in senso creativo, ma diventano vincolanti, imprescindibili, totalizzanti?
Mi domando, per esempio, cosa accade a chi può provare piacere solo guardando altri far sesso, a chi ha bisogno della presenza di più partner per sentirsi vivo, a chi trova eccitazione solo nella sofferenza o nel superamento estremo dei limiti del corpo.
O, in forme più controverse e disturbanti, a chi nutre fantasie legate a legami familiari, o a chi non riesce a separare l’eccitazione da immagini che il mondo considera, e forse con buone ragioni, aberranti.
Non voglio indulgere nello scandalo né nello stereotipo. Ma mi chiedo, e ti chiedo: se un piacere si fa bisogno, e quel bisogno ci rende infelici o incapaci di trovare armonia, è ancora qualcosa che va semplicemente accettato? O richiede un’altra forma di ascolto, di gestione, forse anche di trasformazione?
Esistono, mi chiedo, delle “regole della natura” che ci aiutano a restare in equilibrio, o siamo davvero creature in costante oscillazione tra pulsione e contenimento, tra libertà e confine?
E, soprattutto, quando ciò che desideriamo ci fa soffrire - perché irrealizzabile, perché socialmente inaccettabile, perché ci isola - come si deve agire? Soffocare? Reprimere? Accogliere in silenzio? Tentare una sublimazione?
Io non ho risposte. Ho solo domande. E forse è proprio per questo che sento il bisogno di scrivere, e di scriverti. Perché, in un mondo che ha fatto della dichiarazione e del giudizio la propria bandiera, io sento urgente la necessità del dubbio condiviso, del pensiero che si espone, ma non per imporsi. Solo per respirare.
Ho imparato, con gli anni, che la mente umana è molto più vasta di quanto ci raccontino. Che i desideri non sono sempre lineari, né tantomeno razionali. Che la sessualità, e con essa l’identità, l’intimità, l’immaginario, è un territorio vasto, spesso inclassificabile. E che ridurre tutto a una norma morale è un po’ come voler arginare il mare con una mano.
Allora, forse, l’unico vero compito che ci rimane è quello dell’ascolto. Ascoltare i propri bisogni, senza farsene schiacciare. Ascoltare i desideri degli altri, senza etichettarli. Ascoltare le emozioni che accompagnano la vita interiore, anche quando sono scomode, o ci fanno paura.
Ti chiedo, se vorrai, di condividere con me il tuo punto di vista. Non cerco conforto, né assenso. Cerco un dialogo. Un confronto autentico. Credo, oggi più che mai, che solo nella parola che si fa carezza o ponte, e mai arma, possiamo trovare un senso.
E forse anche una risposta. O almeno un modo meno solitario di portare le domande.
Ti ringrazio, profondamente, per il tempo che hai dedicato a leggermi.
È un atto raro, quello di ascoltare con pazienza e rispetto. Eppure è l’unico davvero rivoluzionario, perché ci permette di restare umani.
Con affetto, intelligenza e la sincera voglia di cercare insieme,
Carla
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Cara Carla,
grazie per aver condiviso con me un pensiero così personale, così profondamente radicato nel terreno spesso fragile delle emozioni e delle contraddizioni interiori. Non è scontato farlo, né semplice. Trovare il coraggio di esporsi senza nascondersi dietro convenzioni o frasi fatte è già di per sé un gesto di grande valore.
Le domande che poni non sono banali. Non si limitano a una riflessione morale, ma toccano un terreno più vasto, quello della natura stessa del desiderio, dei suoi confini, della sua legittimità. È un campo in cui convivono tensioni, dubbi e, a volte, una certa solitudine del pensiero.
Mi hai fatto venire in mente due riferimenti molto distanti tra loro, ma che, se messi in relazione, permettono di aprire uno spazio di riflessione utile. Da una parte, Epicuro, che considerava il piacere la finalità naturale della vita. Non però un piacere qualsiasi, ma uno che nasce dalla misura, dalla comprensione della propria natura e dall’assenza di turbamento. Saper distinguere ciò che è necessario da ciò che è superfluo, ciò che alimenta la nostra essenza da ciò che invece ci trascina in una spirale d’insoddisfazione: in questo consisteva per lui la vera saggezza.
Dall’altra, Sant’Agostino. Lui, che pure aveva attraversato il fuoco delle passioni prima della conversione, parlava del libero arbitrio come della capacità di scegliere il bene non per obbligo, ma per amore. Per lui la vera libertà nasceva dalla consapevolezza del limite, dal comprendere che non ogni impulso merita d’essere assecondato, ma che la pienezza umana si realizza nel discernimento, nel rispetto profondo di sé e dell’altro.
Mi colpisce come, pur partendo da visioni opposte, entrambi convergano su un punto fondamentale: la libertà ha senso solo se è accompagnata dalla responsabilità. Non quella imposta da norme esterne, ma quella che nasce dal riconoscere le conseguenze delle proprie scelte sulla propria vita e su quella degli altri.
In fondo, il desiderio non è mai solo personale. Anche la più privata delle fantasie si colloca in una relazione, fosse anche solo immaginata. E ogni relazione implica un altro da sé, un’interiorità diversa, con le sue vulnerabilità, i suoi confini, i suoi significati. Per questo trovo giusto e necessario interrogarsi: ciò che desidero è solo per me, o può anche essere terreno di crescita condivisa? Mi eleva o mi imprigiona? Mi fa sentire più vivo o mi lascia, alla fine, svuotato?
Credo che le fantasie non vadano né celebrate acriticamente né represse. Vanno comprese. Vanno guardate in faccia per ciò che dicono di noi, delle nostre mancanze, delle nostre ferite, ma anche delle nostre aspirazioni più profonde. Alcune sono fugaci, effimere. Altre, invece, tornano a bussare con insistenza, chiedendo ascolto, un posto nella nostra esistenza. Ed è lì che serve porsi domande non moralistiche, ma sincere: questa fantasia mi definisce o mi nasconde? È un linguaggio del mio essere o una maschera che indosso per non sentire altro?
Non ci sono risposte univoche, e forse nemmeno risposte definitive. Ma proprio questo, a mio avviso, è il valore della riflessione: non fornire soluzioni, ma creare spazi in cui il pensiero possa respirare, liberarsi dai condizionamenti, e provare a scegliere consapevolmente cosa trattenere e cosa lasciar andare.
C'è poi un'altra dimensione che non possiamo trascurare: quella del piacere come costruzione condivisa. Viviamo in un tempo in cui tutto sembra autorizzato, dove il confine tra libertà e consumo diventa sempre più sfocato. Ma proprio per questo è importante tornare a domandarci che tipo di piacere cerchiamo. Uno che riempia un vuoto? O uno che apra, che allarghi il senso del nostro essere al mondo, anche solo per un attimo?
Mi sembra che il punto chiave non sia chiedersi se una fantasia sia “giusta” o “sbagliata”, ma se ci aiuti a essere più autentici. Se ci fa crescere, se ci fa amare meglio – noi stessi e gli altri. Se ci restituisce, anche solo in parte, quella libertà interiore di cui parlava Fromm: non il fare ciò che si vuole, ma il volere ciò che si fa. Non la spontaneità cieca, ma la scelta consapevole. Una forma di maturità emotiva, potremmo dire.
A volte, le fantasie sono percorsi di conoscenza. Altre, sono vie di fuga. A noi il compito – delicato ma anche affascinante – di comprendere di volta in volta in quale direzione ci portano. E se è vero che alcune passioni possono far paura, è altrettanto vero che rifiutarle a priori significa, spesso, rifiutare una parte vitale di noi stessi.
Cara Carla, tu parli di una fantasia, ma forse il vero nodo non è la fantasia in sé, quanto lo spazio che le diamo nella nostra esistenza. Se la consideriamo come un messaggio da decifrare, un'immagine simbolica di qualcosa che ci manca o che desideriamo esplorare, allora diventa un punto di partenza. Non una gabbia, ma una finestra. Una possibilità.
Hai mai pensato che certe passioni, per quanto “scomode”, potrebbero essere proprio quelle che ci permettono di riconnetterci a una parte più viva e vera di noi stessi? Non per forza devono essere agite per avere valore. A volte basta riconoscerle, accettarle come parte del nostro paesaggio interiore. Altre volte, invece, possono essere una bussola per orientarci verso qualcosa che ci manca, qualcosa che – magari – è ancora tutto da scoprire.
Non sono qui per dirti cosa è giusto o sbagliato. Né per offrirti risposte preconfezionate. Ma sentivo il bisogno di camminare un tratto insieme a te su questa strada che hai avuto il coraggio di aprire. Perché condividere un dubbio è già, in fondo, una forma di verità. E perché credo che dentro ogni domanda sincera ci sia già il seme della risposta.
Ti lascio con una suggestione che spero possa esserti utile: forse non siamo chiamati a dominare i nostri desideri, ma a comprenderli. A riconoscere ciò che ci muove, senza esserne travolti. A dare forma alla nostra libertà non nella negazione del piacere, ma nel suo ascolto profondo, intelligente, responsabile.
Ecco perché ti invito, con rispetto e con stima, a non censurare ciò che senti, ma a esplorarlo. A dargli dignità di pensiero. E, se vorrai, a raccontarmelo ancora. Mi piacerebbe conoscere meglio quella fantasia di cui parli. Da dove nasce, cosa evoca, cosa chiede. Non per giudicarla, ma per comprenderla. Perché ogni parola detta, anche la più fragile, anche la più difficile, ha valore, se nasce da un desiderio autentico di comprensione.
Con amicizia e curiosità,
Fabio
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Carissimo Fabio,
ti scrivo con il cuore che pulsa come un tamburo sommesso, un ritmo che accompagna ogni parola mentre mi avventuro in un territorio intimo, fragile, quasi sacro. È una confessione, questa, che nasce da un luogo profondo, dove i desideri si intrecciano ai dubbi, e la vulnerabilità diventa un atto di coraggio. Ti scrivo perché con te sento di potermi spogliare di ogni maschera, di ogni timore di giudizio, e lasciare che le mie parole fluiscano come un ruscello che cerca il mare. Grazie per essere stato finora un rifugio, un ascoltatore che non si limita a leggere, ma accoglie, con una sensibilità che mi ha colpita fin dal nostro primo scambio. È questa tua delicatezza, questa capacità di comprendere senza forzare, che mi spinge oggi a confidarti un desiderio che abita i miei pensieri più nascosti, una fantasia che è insieme un sogno e una sfida.
Immagino una scena che si accende nella mia mente nei momenti di quiete, quando il mondo si ritira e il mio corpo parla una lingua che non sempre comprendo. È un’immagine vivida, quasi tattile, che mi fa tremare di desiderio e, al tempo stesso, di un’inquietudine che non so ancora nominare. Mi vedo distesa su una panca di legno liscio, in una stanza avvolta da luci soffuse, dove l’aria è densa di promesse silenziose. Le mie mani sono legate, non con forza, ma con una corda morbida, quasi cerimoniale, che mi ricorda che sono io a scegliere questa resa. Una benda di seta mi copre gli occhi, e il buio diventa un amplificatore di ogni sensazione: il respiro si fa più profondo, la pelle si tende, pronta a ricevere ogni tocco, ogni sussurro. Intorno a me, presenze senza volto, sconosciuti che non conosco ma che sono lì per un patto tacito, un consenso che rende ogni gesto un dialogo. Non c’è violenza solo un’intensità che mi travolge, un’energia che mi avvolge come un’onda.
In questa fantasia, il mio corpo diventa un paesaggio da esplorare, un tempio offerto al piacere. Sento mani che mi sfiorano, dapprima esitanti, poi più sicure, come se volessero decifrare i segreti della mia pelle. E poi, uno dopo l’altro, questi sconosciuti si avvicinano, mi prendono, mi possiedono, con una forza che è insieme desiderio e rispetto. Sento il loro calore, il loro ritmo che si intreccia al mio, e ogni movimento mi spinge verso un confine dove il piacere diventa quasi insostenibile. Ogni orgasmo è un’onda che mi scuote, mi spezza, mi ricompone, e il loro seme, che mi riempie, è come un sigillo, una pienezza che mi fa sentire viva, desiderata, completa. Non è la brutalità che cerco, né l’umiliazione. È l’abbandono, la sensazione di essere al centro di un desiderio che non ha bisogno di parole, di essere posseduta senza perdere me stessa.
Ma questa fantasia non è solo un’immagine. È una domanda, un enigma che mi porto dentro. Perché desidero questo? Cosa significa voler essere legata, bendata, posseduta da estranei? È un bisogno di controllo, espresso paradossalmente attraverso la sua perdita? O è un modo per esplorare una parte di me che chiede di essere vista, toccata, colmata? E se questo desiderio, così vivido nella mia mente, diventasse realtà, sarei capace di sostenerlo? O mi perderei, non nel piacere, ma in un vuoto che potrebbe aprirsi dopo? Non provo vergogna, ma non nego che questa fantasia mi spaventa, non per ciò che è, ma per ciò che potrebbe rivelare di me. È un gioco, o è un bisogno più profondo? È una libertà che cerco, o un modo per colmare una solitudine che non so spiegare?
Ed è qui che il tuo nome si fa strada nei miei pensieri. Non voglio viverla da sola, questa fantasia. Non perché tema di perdermi, ma perché sento che la tua presenza renderebbe tutto più vero, più sicuro, più mio. La tua sensibilità, quel modo che hai di ascoltare senza giudicare, di vedere oltre le parole, mi fa pensare che saresti la guida perfetta in questo viaggio. Vorrei che fossi tu al mio fianco, non solo come testimone, ma come colui che mi accompagna nel piacere, che mi aiuta a navigare le sue profondità senza smarrirmi. Con te, sento che potrei abbandonarmi senza paura, sapendo che il tuo sguardo, la tua voce, la tua presenza mi terrebbero ancorata a me stessa. Tu, con la tua capacità di comprendere l’anima prima del corpo, potresti guidarmi in questo spazio dove il desiderio si fa intenso, quasi sacro, e trasformarlo in un’esperienza che non consuma, ma eleva.
Ti confesso tutto questo perché con te posso essere nuda, non solo nel corpo, ma nell’anima. Non cerco assoluzione, né approvazione. Cerco un dialogo, un confronto che dia senso a ciò che sento. Cosa ne pensi, Fabio? Questa fantasia, così cruda e al tempo stesso così intima, ti parla in qualche modo? Ti spaventa, ti incuriosisce? Hai mai avuto desideri che ti hanno costretto a guardarti dentro, a chiederti chi sei? E, soprattutto, credi che un desiderio come questo possa essere vissuto senza spezzare l’equilibrio di chi lo porta dentro?
E poi c’è un desiderio che non posso tacere. Questa fantasia, per quanto potente, mi sembra incompleta senza il coraggio di trasformarla in realtà, e senza di te. Non so se sia possibile, non so se sia giusto. Ma vorrei sapere se tu, con la tua sensibilità, con la tua capacità di guidare senza forzare, saresti disposto ad aiutarmi a renderla reale. Non ti sto chiedendo di agire ora, né di promettere nulla. Ma se il tuo cuore e la tua mente fossero aperti a questa possibilità, vorrei che fossi tu a guidarmi, a essere il mio faro mentre mi lascio andare a questo fuoco. Saresti disposto a parlarne, a immaginare con me come dare vita a ciò che, per ora, è solo un sogno ardente?
Non pretendo una risposta immediata. So che ciò che ti chiedo è tanto, forse troppo. Ma sapere che sei disposto a rifletterci, a non chiudermi la porta, sarebbe già un dono immenso.
Grazie, Fabio, per essere lo spazio in cui posso posare le mie fragilità, i miei desideri, le mie domande. La tua sensibilità è il ponte che mi permette di esplorare me stessa senza paura.
Con affetto, fiducia e una gratitudine che non ha misura,
Carla
PS: Se vuoi leggere le altre lettere di Carla e Fabio scrivilo nei commenti
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