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Michela una vita da sottomessa: l'Inizio


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
27.06.2025    |    1.050    |    4 8.9
"Una delle clausole del contratto mi obbligava a obbedire a ogni capriccio di Luisa, senza esitazione..."
Sedevo nel mio ufficio, il profumo di carta fresca e caffè amaro che riempiva l’aria, il ticchettio dei miei tacchi da 12 cm sul parquet lucido, il ronzio del plug anale da 10 cm che vibrava nel mio culo, un peso che mi dilatava e mi faceva gemere, e ripensavo a come tutto era iniziato. Il mio corpo era un tempio di lussuria, ogni centimetro marchiato dalla volontà di Daniela, ma la mia mente tornava indietro, al profondo Sud, alla ragazza che ero stata prima di diventare la troia sfondata che sono oggi. Quella ragazzina ribelle, umiliata nella pineta a 15 anni, viveva ancora dentro di me, il suo desiderio di degrado proiettato fino a quei giorni, un fuoco che non si era mai spento. Quando tornavo a casa dopo il lavoro, in quegli anni, mi profanavo il culo e la fica con cetrioli, carote, deodorante più mi dilatavo, più godevo, un piacere che mi faceva tremare, le lacrime di estasi che mi rigavano il viso, schiava del mio desiderio.
Ero arrivata al Nord con mia sorella Sabrina, sette anni più grande, una donna che consideravo tradizionalista, bacchettona, con la sua vita ordinata, il marito, i figli, una famiglia che per me era una prigione. Io, Michela, la sorella minore, avevo sempre cercato altro, qualcosa che accendesse la mia anima inquieta. Con gli investimenti della nostra famiglia, avevamo aperto un’agenzia di viaggi, facendoci strada a gomitate in un mondo competitivo. L’odore di salsedine e ulivi della nostra terra natale si era trasformato nel profumo di inchiostro, moquette e acciaio degli uffici milanesi, un cambiamento che mi eccitava e spaventava. La nostra agenzia si specializzava in viaggi di alto livello, per clienti facoltosi che cercavano servizi esclusivi, un mondo di lusso e precisione che richiedeva ogni grammo della nostra energia. Sabrina e io lavoravamo senza sosta, il suono dei telefoni che squillavano, le tastiere che ticchettavano, le voci dei clienti che chiedevano l’impossibile. Ero impeccabile, una leader rispettata, il mio tailleur grigio che abbracciava le mie curve, i capelli castani raccolti in uno chignon ordinato, il rossetto rosso che brillava sotto le luci al neon. Ma dentro di me bruciava una ribellione, un desiderio che non potevo soffocare.
Tutto era iniziato al liceo, a 15 anni, in una pineta profumata di resina e mare, il suono delle onde in lontananza, il calore del sole che filtrava tra i pini. Un ragazzo mi aveva legata a un albero per scherzo, la corda ruvida che mi stringeva i polsi, la corteccia che mi graffiava la schiena, l’umiliazione di sentirmi esposta quando mi aveva tolto le mutandine, il vento caldo che accarezzava la mia fica scoperta. Avevo supplicato, le lacrime che mi rigavano il viso, il cuore che martellava di paura e vergogna. Ma poi lo scherzo si era trasformato: sull’asciugamano disteso sugli aghi di pino, avevamo fatto l’amore, il profumo di salsedine, sudore e resina che mi inebriava, il suono dei miei gemiti che si mescolava al fruscio delle foglie. Quella sensazione—umiliazione, paura, piacere—mi aveva segnata, un seme che era cresciuto dentro di me, proiettandosi fino a quei giorni. Quella ragazzina, con il suo desiderio di essere dominata, di essere usata, guidava le mie mani ogni sera, quando tornavo a casa e mi perdevo nei miei giochi, le zucchine, le carote che profanavano i miei buchi, il dolore che si trasformava in estasi, un’ossessione che mi rendeva viva.
La nostra agenzia era decollata quando avevamo iniziato a gestire i viaggi di due grosse corporate dell’informatica, un mondo di sale riunioni con pareti di vetro, dove l’odore di caffè costoso si mescolava a quello di toner, un profumo freddo che contrastava con il calore della mia terra natale. Il suono delle stampanti che ronzavano, delle tastiere che ticchettavano, delle voci dei clienti che chiedevano destinazioni esotiche riempiva l’open space, un’orchestra di efficienza che guidavo con mano ferma. Le brochure sulle scrivanie di legno chiaro esplodevano di colori—azzurro mare, verde giungla, oro dei deserti—promesse di lusso per clienti facoltosi. Sabrina, metodica, si occupava dei dettagli logistici, il fruscio delle sue carte che si mescolava al ticchettio dei suoi tacchi bassi, mentre io coordinavo il team, la mia voce che risuonava con autorità, il tailleur grigio che abbracciava le mie curve, i capelli castani raccolti in uno chignon, il rossetto rosso che brillava sotto le luci al neon. Ero rispettata, una leader impeccabile, i miei tacchi da 10 cm che echeggiavano sul parquet, ma dentro di me bruciava una ribellione, un fuoco che mi spingeva a cercare altro, a risvegliare la ragazzina di 15 anni umiliata nella pineta, il suo piacere perverso che si proiettava fino a quei giorni.
Fuori dall’ufficio, la mia vita era un’esplorazione segreta. Dopo lunghe giornate di lavoro, tornavo nel mio appartamento di 100 metri quadri, un rifugio arredato con gusto che mi accoglieva con l’odore di lavanda delle candele, un aroma dolce che si mescolava al mio muschio intimo. Le tende bianche filtravano la luce arancione del tramonto, dipingendo il velluto beige del divano, morbido sulla pelle. Ma il mio rituale iniziava al sexy shop dietro l’ufficio, un negozietto con luci al neon rosa e viola, il suono del campanello che tintinnava all’ingresso, l’odore di lattice e incenso che mi avvolgeva. Sfogliavo gli scaffali, i miei occhi che brillavano alla vista di vibratori sempre più grandi, plug di dimensioni estreme, ogni acquisto un passo verso la mia liberazione. Tornavo a casa, la borsa di carta nera del negozio che frusciava, i tacchi che echeggiavano sulle scale, l’anticipazione del piacere che mi faceva tremare.
Nel mio appartamento, il letto diventava un altare di lussuria, il profumo di lubrificante e lattice che si mescolava alla lavanda. Mi spogliavo, il tessuto del tailleur che scivolava via, il suono della zip che si abbassava, le calze nere che cadevano sul parquet. Nuda, accendevo una candela, la fiamma che tremolava sulle pareti bianche, e aprivo il cassetto dei giocattoli. Ogni vibratore, ogni plug, comprato al sexy shop, era un trofeo, il loro odore di silicone che mi inebriava, il lubrificante che schizzava mentre li preparavo. Mi sdraiavo, le lenzuola bianche che frusciavano, e mi profanavo la fica e il culo, il ronzio dei vibratori che si mescolava ai miei gemiti, un suono gutturale che echeggiava. Più mi dilatavo, più godevo, il dolore che si intrecciava al piacere, un orgasmo che mi faceva urlare: “Siiiiiii!” Il sudore mi colava lungo la schiena, bagnando il velluto beige del divano quando mi spostavo lì, incapace di contenermi. Ogni inserimento era un omaggio alla ragazzina della pineta, al suo desiderio di umiliazione.
Spingevo i limiti, scegliendo plug sempre più grandi, il loro peso che mi dilatava il culo, un dolore che si trasformava in piacere selvaggio, un’estasi che mi faceva tremare, le gambe che cedevano, le lacrime che mi rigavano il viso. Mi guardavo allo specchio, una troia che si sfondava senza vergogna, la fica che gocciolava, il culo che si apriva, un’immagine oscena che mi eccitava. Ogni sera era un rituale, il ronzio dei vibratori che diventava la mia musica, i gemiti la mia voce, il dolore e il piacere la mia vita. Ero rispettata in ufficio, le ragazze che mi chiamavano “dottoressa”, il fruscio delle carte che firmavo, l’odore di inchiostro che si mescolava al mio muschio. Ma nessuno conosceva la vera Michela, quella che si perdeva nei suoi giochi, schiava di un desiderio che solo l’umiliazione poteva saziare, il mio corpo che tremava, il profumo di lavanda e lattice che mi rendeva viva.
La mia ribellione mi aveva condotta a un sito web, un angolo oscuro del Nord Italia dove avevo conosciuto Luisa, una ragazza di 25 anni, aggressiva e provocante, le sue parole crude che mi accendevano come una fiamma. Ero sicura di poter gestire qualsiasi situazione, forte del mio carattere e della mia esperienza come donna di 32 anni, leader di un’agenzia di successo. Le avevo dato appuntamento in un bar in centro, il profumo di caffè tostato e croissant appena sfornati che riempiva l’aria, il suono delle tazze che tintinnavano contro i piattini, le luci al neon che riflettevano sui tavoli di marmo bianco, un bagliore freddo che contrastava con il calore che sentivo dentro. Indossavo un vestito nero attillato, il tessuto che aderiva alle mie curve, i tacchi da 10 cm che ticchettavano sul pavimento lucido, il rossetto rosso fuoco che brillava come un segnale di sfida. Ma quando Luisa era arrivata, il mio cuore aveva saltato un battito. Non era sola: un uomo imponente l’accompagnava, il corpo coperto di tatuaggi—un teschio inquietante sul collo, le orbite vuote che sembravano fissarmi, un drago che si snodava sul braccio muscoloso, l’odore di cuoio e sudore che mi intimidiva. Non era negli accordi, e la sua presenza mi aveva spiazzata, il suono della sua voce profonda che rimbombava mentre si presentava, per poi sparire, prendendo la macchina e lasciandomi sola con Luisa.
Luisa era minuta, i capelli biondi raccolti in una coda alta, ma ciò che mi colpiva era il suo abbigliamento: tutta vestita di nero, un top di pelle aderente che scricchiolava a ogni movimento, mini gonna di pelle nera lucida che rifletteva la luce al neon, stivaletti neri con tacchi a spillo che ticchettavano come i miei, un contrasto che mi faceva rabbrividire. L’odore del suo profumo dolce, quasi stucchevole, si mescolava al sentore di pelle e al suo muschio intimo, un cocktail che mi stordiva. Si era seduta di fronte a me, il tavolo di marmo freddo sotto le mie mani, il suono del suo braccialetto d’acciaio che tintinnava mentre posava il bicchiere di vino rosso, il liquido che ondeggiava come sangue. All’inizio sembrava insicura, quasi una ragazzina, i suoi occhi azzurri che evitavano i miei, e io avevo preso il controllo, la mia voce calma ma decisa: “Come mai ti piace dominare le donne?” Lei mi aveva guardato, un lampo che le attraversava gli occhi, e aveva risposto: “È la mia rivincita. Da piccola ero discriminata, umiliata. Ora, far soffrire una donna, vederla piegarsi, mi fa godere.” Il suo tono, basso e tagliente, mi aveva fatto rabbrividire, un brivido che scorreva lungo la schiena, la mia fica che si bagnava sotto il vestito, un calore umido che si spandeva, tradendo la mia eccitazione.
Avevo incalzato, il cuore che martellava: “Come mi umilieresti ora?” Un sorriso sadico le aveva curvato le labbra, il rossetto nero che brillava, e si era sporta sul tavolo, il profumo di pelle che mi avvolgeva, ordinando: “Togliti le mutande, ora.” Il mio cuore si era fermato, l’umiliazione mi aveva travolta come un’onda, ma il piacere era stato più forte, un fuoco che mi bruciava dentro. Con movimenti furtivi, nascosta dal tavolo, mi ero sfilata le mutande, il tessuto nero che scivolava lungo le cosce, il suono del pizzo che sfregava contro la pelle, e gliele avevo porte, le mie mani che tremavano. Luisa le aveva prese, inspirando il mio odore, il suo sorriso che si allargava, poi aveva infilato il suo stivaletto nero sotto il tavolo, il cuoio freddo e sporco che premeva contro la mia fica, schiacciandola con forza. Il dolore mi aveva fatto mordere il labbro, un gemito soffocato che si mescolava al brusio del bar, ma la mia fica gocciolava, un liquido caldo che bagnava la sedia, un’umiliazione pubblica che mi faceva sentire viva, una troia sotto gli occhi di sconosciuti. Il suono del suo tacco che grattava contro il pavimento, il tintinnio del suo braccialetto, l’odore del suo muschio che si mescolava al caffè, tutto amplificava la mia vergogna, il mio piacere che cresceva, il rossetto rosso che si sbavava mentre mi mordevo il labbro.
La situazione si era surriscaldata, il desiderio che ci consumava, il bar che sembrava restringersi attorno a noi, le luci al neon che pulsavano come il mio clitoride. Avevo preso l’iniziativa, ma in modo sommesso, la voce tremula che tradiva la mia sottomissione: “Padrona, possiamo andare a casa mia, non lontano, dove potrai usarmi come vuoi.” Luisa aveva sorriso, il suo stivaletto ancora premuto sulla mia fica, il cuoio che scricchiolava, e aveva detto: “Brava, schiava.” Avevo chiamato un taxi, l’odore di benzina e cuoio dell’abitacolo che ci avvolgeva, il suono del motore che ronzava mentre ci allontanavamo. Luisa mi aveva baciato, la sua lingua che invadeva la mia bocca, un sapore dolce e salato, il rossetto nero che lasciava tracce sul mio viso, mentre la sua mano si infilava sotto la gonna, esponendo la mia fica bagnata allo sguardo del tassista, che fingeva di non vedere, il suo respiro pesante che echeggiava. Le sue dita mi sfondavano, due, poi tre, un piacere che mi faceva gemere, il suono umido della mia fica che si mescolava al ronzio del motore, la gonna che si inzuppava, una macchia umida di 20 cm sul retro, un’umiliazione oscena che mi faceva tremare. Le lacrime mi rigavano il viso, non di dolore ma di estasi, il mio clitoride che pulsava, schiava del suo dominio. Il taxi si era fermato davanti al mio palazzo, il suono della portiera che sbatteva, i tacchi di Luisa che ticchettavano sull’asfalto, il suo abbigliamento nero che brillava sotto la luce dei lampioni, un’ombra di potere che mi guidava verso la mia sottomissione, il profumo di pelle e muschio che mi seguiva, un presagio di ciò che mi aspettava.

A casa, l’odore di lavanda delle mie candele si mescolava al muschio intimo e al sentore acre di lattice, il suono del parquet che scricchiolava sotto i nostri passi, un’eco che amplificava la mia trepidazione. Luisa mi aveva fatto inginocchiare, il freddo del pavimento che mi mordeva le ginocchia, e si era seduta sul divano di velluto beige, il fruscio del suo top di pelle nera che echeggiava, il suono secco della sua minigonna di pelle nera che si tendeva mentre accavallava le gambe. Il suo abbigliamento, tutto nero—top aderente che scricchiolava a ogni movimento, minigonna che a malapena copriva le sue cosce, stivaletti con tacchi a spillo che ticchettavano—was un simbolo di dominio, il bagliore delle luci al neon che rifletteva sulla pelle lucida, un nero profondo che contrastava con il beige caldo del mio salotto. Mi aveva ordinato di leccarle i piedi, infilando i suoi stivaletti sporchi nella mia bocca, il sapore di cuoio e polvere che mi invadeva, un’umiliazione che mi faceva rabbrividire. Il pizzicore del cuoio contro la mia lingua era insopportabile, ma la mia fica gocciolava, un liquido caldo che scivolava lungo le cosce, il suono dei miei gemiti soffocati che si mescolava al tintinnio del suo braccialetto d’acciaio. L’odore del suo muschio, mescolato al profumo dolce e stucchevole che emanava, mi stordiva, un cocktail che mi avvolgeva mentre la mia lingua lavorava, pulendo ogni centimetro di cuoio, un atto di sottomissione che mi devastava ma accendeva un fuoco dentro di me.
Luisa si era tolta il perizoma, il fruscio della minigonna di pelle che si sollevava, esponendo la sua fica già bagnata, pronta per essere leccata, il suono del tessuto che scivolava lungo le sue cosce che echeggiava nella stanza. Aveva ordinato: “Leccami la fica.” Era stata la prima volta che leccavo una donna, la mia lingua che esplorava le sue pieghe, un sapore dolce e acre che mi inebriava, il suono dei suoi gemiti che si alzava, acuto e selvaggio, mentre il mio viso era premuto contro di lei. L’odore del suo muschio era intenso, quasi soffocante, la minigonna di pelle nera che si accartocciava attorno ai suoi fianchi, un quadro osceno che mi eccitava. Ogni lappata mi faceva tremare, il mio clitoride che pulsava senza che mi toccassi, il suono umido della mia lingua che si mescolava al suo respiro spezzato. Poi mi aveva fatto leccare il suo culo, un’umiliazione che mi spezzava, l’odore acre che mi riempiva i polmoni, il suono del mio respiro che si spezzava mentre la mia lingua si insinuava, pulendo ogni parte di lei. La minigonna, sollevata, lasciava la sua fica e il suo culo esposti, un’offerta che mi umiliava, la mia fica che gocciolava, un piacere perverso che mi consumava. Ero una troia, una puttana sottomessa a una ragazzina di 25 anni, e mi sentivo viva, il mio corpo che tremava, le lacrime di estasi che mi rigavano il viso, il rossetto rosso che si sbavava, mescolandosi al sapore di lei.
Umilmente, avevo proposto: “Padrona, possiamo andare in camera da letto.” Luisa mi aveva schiaffeggiato, il suono secco della sua mano che colpiva la mia guancia, un pizzicore che mi aveva fatto gemere, il mio viso che bruciava sotto il suo sguardo. Mi aveva afferrato per i capelli, il dolore acuto che mi strappava un altro gemito, e mi aveva trascinato a quattro zampe, la mia faccia premuta contro il suo culo, l’odore acre che mi soffocava, il fruscio della minigonna di pelle che accompagnava ogni passo. Il parquet scricchiolava sotto le mie ginocchia, il suono dei miei capelli che si tendevano sotto la sua presa, un’umiliazione che mi faceva gocciolare, la mia fica un lago che lasciava una scia sul pavimento. In camera, l’odore di lavanda e lubrificante riempiva l’aria, il letto con lenzuola bianche che frusciavano sotto la luce al neon, un bagliore freddo che illuminava il mio santuario di lussuria. Avevo aperto il cassetto dei miei giocattoli, il suono del legno che scorreva, e Luisa, vedendoli, mi aveva insultato: “Puttana schifosa!” La sua voce era un ringhio, la minigonna di pelle nera che si tendeva mentre si chinava, il profumo di pelle e muschio che mi avvolgeva.
Luisa aveva rovistato nel cassetto, il tintinnio dei giocattoli che si scontravano, e aveva preso uno strap-on con fallo nero doppio ed un fallo che si infilava nella vagina di chi lo indossava, un mostro di silicone che brillava sotto la luce, il suo peso che mi faceva rabbrividire. Lo aveva indossato, il cuoio della cintura che scricchiolava, un suono che mi faceva tremare, e mi aveva messo a 90 sul letto, le lenzuola bianche che si increspavano sotto le mie mani. La minigonna di pelle, sollevata, lasciava la sua fica esposta mentre si preparava, un’immagine che mi umiliava e mi eccitava. Aveva appoggiato il fallo al mio culo, il silicone freddo che premeva contro di me, e con un colpo secco, senza preparazione, me lo aveva infilato, un dolore che mi aveva sventrata, un urlo che mi era sfuggito: “Nooo, mi rompi!” Il mio culo si contraeva, cercando di respingere l’invasione, ma Luisa mi aveva tenuta ferma, le sue mani che mi afferravano i fianchi, le unghie che si conficcavano nella mia pelle. Ogni spinta era un tormento, il suono del silicone che sbatteva contro le mie chiappe, i miei gemiti che si mescolavano al ronzio del ventilatore, il profumo di lubrificante e sudore che riempiva la stanza. Luisa incularmi con forza, il suo respiro che si spezzava, i suoi insulti che piovevano su di me: “Troia, rotta in culo!” Il dolore era insopportabile, ma il piacere era più forte, un’onda che mi travolgeva. Luisa era venuta in un orgasmo violento, il suo urlo che squarciava l’aria, il suo corpo che tremava, la minigonna di pelle che scricchiolava mentre si abbandonava al piacere, il suo muschio che si mescolava all’odore di lavanda, un’esplosione di lussuria che mi umiliava ma mi faceva sentire viva.
Aveva tolto lo strap-on, il suono del cuoio che si slacciava, e mi aveva ordinato di leccarle la fica di nuovo, la minigonna ancora sollevata, la sua fica bagnata e pronta, il sapore del suo orgasmo che mi inondava, dolce e salato. Poi, senza preavviso, mi aveva pisciato in bocca, un liquido caldo e amaro che mi bruciava la gola, un’umiliazione che mi devastava, il suono del getto che colpiva la mia lingua, le lacrime che mi colavano, ma la mia fica che schizzava, un piacere che mi consumava. Luisa si era rivestita, il fruscio della minigonna di pelle che echeggiava, il suo abbigliamento nero che brillava, e era uscita, dicendo: “Mi farò viva io.” Ero rimasta nuda, sporca di piscio, il culo in fiamme, il pavimento che luccicava di lubrificante e umori, l’odore di lavanda sopraffatto dal mio muschio e dal suo piscio. Mi ero sdraiata sul letto, le lenzuola bianche che si appiccicavano alla mia pelle sudata, e mi ero masturbata, le mie dita che sfondavano la mia fica, il suono umido che si mescolava ai miei gemiti, il dolore del mio culo che amplificava ogni sensazione. L’orgasmo mi aveva travolta, un’esplosione che mi aveva fatto urlare: “Siiiiiii!” Schizzavo ovunque, il liquido che bagnava le lenzuola, le lacrime che mi rigavano il viso, il mio corpo che tremava, schiava del mio desiderio. Ero una troia, umiliata e viva, il piacere della ragazzina della pineta che si era proiettato in quel momento, il ronzio del ventilatore che accompagnava il mio respiro spezzato, l’odore di lavanda e piscio che mi avvolgeva, un santuario di degrado che mi definiva ero felice era quello che desideravo.
Il giorno dopo il nostro incontro, Luisa mi aveva mandato un contratto di schiavitù, un documento semplice ma vincolante, scritto in un inchiostro nero che sembrava sanguinare sulla carta. Lo avevo letto, il cuore che martellava, le clausole che mi avrebbero resa sua proprietà, un sigillo che mi legava a lei. Una delle prime regole era chiara e umiliante: dovevo andare in giro sempre senza intimo, la mia fica e il mio culo esposti sotto ogni vestito, un’umiliazione costante che mi faceva gocciolare solo a pensarci. Avevo firmato, il suono della penna che graffiava la carta, l’odore dell’inchiostro che si mescolava al profumo di lavanda del mio appartamento, e avevo inviato una foto del contratto a Luisa, il flash della macchina fotografica che illuminava il mio viso rigato di lacrime di eccitazione. La storia tra me e Luisa era solo all’inizio, un viaggio di degrado che mi avrebbe trasformata, il mio corpo e la mia anima offerti al suo dominio.
Luisa mi umiliava costantemente, ogni giorno un nuovo atto di sottomissione. Mi ordinava di indossare gonne corte, il tessuto che sfiorava appena le cosce, il vento che accarezzava la mia fica nuda, il suono dei miei tacchi che ticchettavano mentre camminavo per le strade di Milano, consapevole degli sguardi che mi trafiggevano. Spesso mi portava in locali affollati, l’odore di sudore e profumo costoso che mi avvolgeva, e mi faceva inginocchiare sotto i tavoli, il freddo del pavimento contro le mie ginocchia, mentre leccavo i suoi stivaletti o la sua fica, il sapore acre che mi riempiva la bocca, i suoi gemiti che si mescolavano al brusio della folla. Altre volte mi offriva al suo uomo, Marco, l’uomo tatuato che mi aveva intimidita al nostro primo incontro. Mi usava nei modi più osceni, il suo cazzo che mi sfondava la fica o il culo, il suono dei suoi grugniti che echeggiava, l’odore di cuoio e sudore che mi soffocava mentre mi teneva per i capelli, insultandomi: “Troia, puttana rotta in culo!” Ogni penetrazione era un tormento, il dolore che si trasformava in piacere, le lacrime che mi rigavano il viso, la mia fica che schizzava, un’umiliazione che mi faceva sentire viva.
Una delle clausole del contratto mi obbligava a obbedire a ogni capriccio di Luisa, senza esitazione. Mi faceva indossare plug sempre più grandi, il ronzio che mi devastava mentre lavoravo in ufficio, il suono dei miei gemiti soffocati che si mescolava al ticchettio delle tastiere, il rossetto rosso che sbavava quando mi mordevo il labbro per trattenermi. Una volta mi aveva ordinato di pisciare in pubblico, in un vicolo dietro un bar, l’odore di asfalto bagnato e piscio che mi avvolgeva, il suono del getto che colpiva il pavimento, gli sguardi di passanti che mi umiliavano, la mia fica che gocciolava mentre Luisa rideva, il suo top di pelle nera che scricchiolava. Ero sua, una schiava marchiata dal suo dominio, il mio corpo un altare di lussuria, il mio piacere legato alla mia vergogna.
Arrivò luglio, il periodo delle vacanze, e io avevo offerto a Luisa e Marco un viaggio a Bali, un regalo per la mia padrona, organizzato dalla mia agenzia. L’odore di salsedine e frangipani mi accoglieva, il suono delle onde che si infrangevano in lontananza, i colori vivaci dei mercati—rosso, giallo, turchese—che mi abbagliavano. Una sera, in un ristorante tipico per coppie lesbiche, il profumo di spezie e pesce grigliato che si mescolava al mio muschio, indossavo un vestito corto e semitrasparente, la mia nudità evidente, come ordinato da Luisa. Mi muovevo lentamente, il tessuto che sfiorava la mia fica nuda, un’umiliazione che mi faceva arrossire, il suono dei miei tacchi che ticchettavano sul pavimento di legno. Luisa, con la sua minigonna di pelle nera, mi aveva fatto sedere a un tavolo vicino a due donne. Una di loro, Daniela, mi aveva colpita: il suo vestito nero elegante, con uno spacco che partiva sopra l’inguine, lasciava intravedere un plug rosso quando si muoveva, l’odore del suo muschio che mi raggiungeva. La sua amica sottomessa, in un abito bianco scollato, i capezzoli tesi visibili, si era seduta a pelle sulla sedia, come ordinato.
Luisa aveva posato un dildo a ventosa da 6 cm sulla mia sedia, il silicone che brillava sotto le luci colorate del ristorante. Mi aveva ordinato: “Prima vediamo se la tua fica è aperta e bagnata.” Si era guardata attorno, notando Daniela, e si era avvicinata al suo tavolo, il fruscio della sua minigonna che echeggiava. “Puoi controllare che la fica della mia schiava sia pronta? Non voglio che il dildo le faccia male,” aveva detto. Daniela si era avvicinata, il suo profumo di sandalo che mi avvolgeva, e aveva infilato la mano tra le mie gambe, aprendomi con forza. Le sue quattro dita si erano immerse nella mia fica, un lago di desiderio, il suono umido che echeggiava, un’umiliazione che mi faceva tremare. “È pronta, falla sedere,” aveva detto a Luisa, il suo tono che mi trafiggeva. Luisa mi aveva guidata sulla sedia, il dildo che mi penetrava, un dolore acuto che mi faceva gemere, il mio corpo che si muoveva goffamente, cercando di accoglierlo, il suono del silicone che sfregava, la mia fica che schizzava, un’umiliazione profonda che mi devastava ma mi eccitava. Daniela mi guardava, i suoi occhi che bruciavano, affascinata dalla mia sottomissione, dalle mie forme generose.
Dopo cena, Luisa e Daniela si erano date appuntamento in un parco non lontano, l’odore di erba e terra umida, il suono dei grilli che cantavano. Ero arrivata a quattro zampe, il guinzaglio che tintinnava nelle mani di Luisa, un plug a coda nel culo, il ronzio che mi devastava, il vestito semitrasparente che non nascondeva nulla. Daniela mi aveva usata, il suo frustino che pizzicava la mia pelle, il suono dei colpi che echeggiava, poi mi aveva pisciato in bocca, un liquido caldo e amaro che mi bruciava la gola, un’umiliazione che mi faceva schizzare. Il suo sguardo, intenso e sadico, mi aveva catturata, il suo profumo di sandalo che mi soffocava. Daniela, colpita dalla mia indole sottomessa, aveva deciso di "comprare" il mio contratto da Luisa, il suono della sua voce che negoziava, l'accordo raggiunto e lo scambio del contratto sul cellulare. Ero diventata sua, il mio corpo e la mia anima offerti a un nuovo dominio, il plug che vibrava, le lacrime che mi rigavano il viso, un’umiliazione che mi rendeva viva, pronta a servire Daniela per sempre. Presto avrei assunto Daniela nella mia agenzia come direttrice del personale questo fu l'ultimo ordine che mi diede la padrona Luisa che mi ha cambiato definitivamente la vita.

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