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Alla regina di Troia


di adad
05.10.2019    |    17.024    |    13 8.7
"E siccome non portava le mutande, come la maggior parte dei coatti di allora, che le consideravano roba da fighetti, sedendosi scodellò all’aria tutta la..."
[NOTA: il seguente racconto presenta situazioni oscene in gran quantità e linguaggio triviale. Se ne sconsiglia pertanto la lettura a quanti presumano di poterne
rimanere turbati o scandalizzati. Chiunque decida diversamente, lo farà a suo intero rischio e pericolo. Grazie.]

Seduto su uno sgabello fuori dalla porta della taverna ALLA REGINA DI TROIA, Ercole ordinò un altro boccale di birra. Fece un smorfia, quando la vecchia Ecuba gliela portò:
“Puah, che schifezza! – mugugnò mezzo ubriaco – possibile che non avete niente di meglio in questo schifo di taverna!”
“Se non ti piace la mia birra, paga e vattene fuori dalle palle!”, ribatté acidamente la vecchia Ecuba.
“Ma lo sai con chi stai parlando?” si inalberò Ercole.
“Chi sei tu non lo so e non lo voglio sapere, ma io sono la regina di Troia e…”
“Ex regina.”, precisò Ercole.
La vecchia sbuffò e si rintanò nelle tenebre fumose della sua taverna, dove il sole non riusciva a penetrare neanche a mezzogiorno.
Ecuba era stata davvero regina di Troia ai bei tempi della sua giovinezza, quando re Priamo spasimava per lei, tanto che le aveva fatto fare ben quattordici figli! Ma poi era giunta la rovina: quel disgraziato di Paride si era portato a casa la moglie di Menelao e ne era seguita una guerra disastrosa. Lei stessa era finita schiava di Ulisse, dopo la caduta di Troia, ma aveva fatto tanto di quel casino sulla nave, che al primo scalo l’avevano spedita a terra con un calcio nel sedere. E le era andata anche bene, visto che parecchi non ne potevano più e volevano sbudellarla in mare per darla in pasto ai pescecani. Una volta libera, si era stabilita in questo villaggio del Chersoneso, dove aveva aperto una taverna: ALLA REGINA DI TROIA, appunto.
“Tutti i miei figli mi hanno ammazzato…”, risuonò dall’interno la sua voce lamentosa.
“Peccato che non t’hanno ammazzato pure a te!”, mugugnò Ercole, ingollando un altro sorso di quella schifosa birra babilonese.
Anche lui, comunque, non è che fosse messo molto meglio: giunto ormai ad una certa età, nessuno più si interessava a lui, tenuto in vita solo dal ricordo delle antiche imprese, che cercava di raccontare in giro in cambio di un boccale di birra e una scodella di zampe di gallina. Comunque, era ancora un bell’uomo e se si fosse dato una ripulita, avrebbe ancora fatto la sua porca figura.
Un gruppo di giovinastri chiassosi, sbucò da un angolo della strada e vociando entrarono nella taverna. Si sedettero ad un lungo tavolo.
“Mamma Ecuba, portaci da bere! Birra per tutti.”, ordinò il capoccia, un tipo sui vent’anni, alto e ben piazzato, i cui muscoli erano a stento contenuti nella lisa tunichetta, che gli arrivava appena sotto l’inguine.
E siccome non portava le mutande, come la maggior parte dei coatti di allora,
che le consideravano roba da fighetti, sedendosi scodellò all’aria tutta la sua mercanzia. Mercanzia di ottima qualità, bisogna dirlo, e di cui lui andava giustamente fiero. Mostrando di non badare all’osceno spettacolo, Ecuba servì da bere a tutti e rimase in attesa che la pagassero: con certa gente, fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, come la vita le aveva dolorosamente insegnato.
“Cosa vuoi?”, le chiese il capoccia, grattandosi le palle.
“Fanno cinque pezzi di rame.”, disse lei imperturbabile.
“Cinque pezzi di rame per questa sciacquatura di figa?”, fece un altro del gruppo.
“Se non vi piace la mia birra, quella è la porta. Adesso pagate o chiamo i vigili.”
L’accenno ai vigili riportò il gruppo a più miti consigli, sapendo bene quanto fosse severo re Prassineo con quelli che turbavano la quiete pubblica. Pagarono, quindi, senza fiatare e ripresero le loro chiacchiere spassose.
Ercole pensò che fosse l’occasione buona per scroccare un boccale di birra: entrò nella taverna e andò a sedersi ad un’estremità del lungo tavolo, aspettando l’occasione giusta per intromettersi nella compagnia. E approfittando di un momento di silenzio:
“Avete mai sentito di quando ho ripulito le stalle di re Augia?”, fece.
“Basta Ercole, almeno cinquanta volte ce l’hai raccontata questa storia merdosa!”, sbottò un tipetto mingherlino, suscitando l’ilarità generale.
“Perché non ci racconti invece di quando ti sei fatto inculare dal Minotauro?”, fece il capobanda, che si chiamava Argante.
“A me non mi ha inculato mai nessuno!”, si impuntò Ercole, battendo il pugno sul tavolo.
“Raccontala a Iolao!”, sghignazzò il mingherlino, che si chiamava Tereo.
“Che ne sai tu di Iolao?”, fece Ercole.
“Ne so – rispose quello – che se la faceva con mio fratello e un giorno, mentre pomiciavamo io e lui, mi ha raccontato di quante volte te lo ha messo nel culo!”
Ercole arrossì e abbassò la testa davanti a quel fatto incontestabile.
“E mi ha raccontato pure che glielo succhiavi…”
“Cosa?”, intervenne Launos, un biondino lentigginoso.
“L’uccello, che altro?”, precisò Tereo.
“Ah, che schifo! – esclamò Argante – prendere il bocca l’affare da dove si piscia!”
“E perché, tu non lo ficchi dove il tuo amichetto caga?”, sbottò Ercole, accennando con la testa verso il biondo lentigginoso.
“Che c’entra! Non gli ci ficco mica la lingua nel buco del culo!”
La discussione andò avanti a lungo con toni più o meno accesi, più o meno rissosi. Intanto era stato ordinato un altro giro di birre, nel quale per fortuna venne incluso anche Ercole.
“Allora, ci racconti del Minotauro?”, fece Argante, in tono adesso più amichevole.
E in effetti, non c’è niente che valga meglio di una buona birra a riportare l’armonia fra le persone; e anche se quella babilonese, servita dalla vecchia Ecuba, faceva francamente schifo, servì comunque egregiamente allo scopo.
Ercole scrollò le spalle.
“Mah, in realtà non c’è niente da dire. Ero in viaggio per la fatica dei pomi d’oro delle Esperidi, quando decido di fare tappa a Creta… A proposito, ve l’ho mai raccontata?…”
“Decidi di fare tappa da Creta.”, lo riportò uno nel seminato.
“Già, perché volevo fare un saluto al mio caro amico Minosse…”
“E’ vero che la moglie è una gran baldracca?”, lo interruppe un giovanottello brufoloso e con i denti mezzo marci.
“Chiamarla baldracca significa farle un complimento.”, fece Ercole, bevendo ancora un sorso di piscio babilonese.
“Quella notte, - riprese, dopo essersi pulito la bocca col dorso della mano – quella bagascia di Pasifae venne nella camera dove stavo dormendo, mi si infilò nel letto tutta nuda e pretendeva che la scopassi. Io le dissi che poteva scordarselo, che non avrei ficcato il cazzo nello stesso buco dove aveva sborrato un toro. Tutt’al più potevo ficcarglielo nel culo, se voleva. Al che, quella baldracca mi fece prendere, legare e mi gettarono nella grotta del Minotauro. Mi lasciarono lì e se ne andarono. Dopo un po’ arrivò il mostro.”
“E’ vero che c’ha la testa da toro”
“E non solo quella… - confermò Ercole con tono cupo – Insomma, arriva, mi guarda, si frega le mani e dice tutto allegro: ‘Ma chi abbiamo qui? Toh, Ercolino che è venuto a farci visita.’ Ridacchia con la bocca tutta bavosa poi mi fa: ‘Sai che ti dico? Che sei fortunato, perché mi sono appena fatto una scorpacciata di ragazzine… Ma sai, a me dopo aver mangiato, mi viene sempre un certo languorino all’uccello… eh, eh, eh… e tu mi capiti proprio a puntino.’ E così, mi ha preso con le sue zampone, mi ha messo a pecorina e me l’ha ficcato tutto dentro, ché gli era venuto duro solo all’idea…. Mi ha ridotto il culo peggio di una figa di vacca… Ho cagato sborra per tre giorni. E meno male che dopo se n’è andato a dormire, così piano piano mi sono slegato e sono scappato via.”
“E basta con queste sconcezze! – intervenne Ecuba, brandendo una ramazza –
E dove credete di essere? Sciò, sciò, andatevene via, ché mi scandalizzate i clienti per bene.”
“I clienti per bene? – sghignazzò Argante? - Ma se ci siamo solo noi!”
“Verranno, se voi vi toglierete dalle palle. Su, su, andate a smaltire da qualche altra parte la vostra sbornia.”
E facendo atto di dar loro addosso con la ramazza, in quattro e quattr’otto la vecchia Ecuba sgomberò il locale.
Il gruppetto si disperse, mentre Ercole tornava a sedersi sullo sgabello davanti alla taverna, in attesa di qualche altro gonzo, che gli offrisse un boccale di quella schifosa birra babilonese o una scodella di zampe di gallina.
***
Era scesa ormai la notte e gli ultimi clienti erano andati via, quando Ecuba si affacciò alla porta della taverna.
“Vattene a dormire, ubriacone! - disse ad Ercole, togliendogli letteralmente lo sgabello da sotto il sedere – E’ ora di chiudere.”, e rientrò in casa, serrando la porta.
Ercole si rialzò da terra e, soffocando a stento l’impulso di sfondare la porta, si spolverò il retro della tunichetta unta e strappata e si avviò verso la capanna in cui abitava. Le strade erano strette, buie, irte di ostacoli e lastricate di immondizia di ogni tipo, rifiuti ed escrementi umani e animali.
Erano già difficili da percorrere in pieno giorno, possiamo immaginare quanto fosse difficile di notte evitare tutte quelle trappole. E infatti, ben poche riusciva ad evitarne il povero Ercole, la cui mente non era, del resto, delle più lucide, dopo tutta la birra bevuta.
Andava sbatacchiando da un muro a un ceppo messo di traverso, quando sentì dei bisbigli provenire da dietro un muretto:
“Dai…”
“No…”
Incuriosito, si avvicinò in silenzio per vedere cosa stava succedendo, e arrivato in capo al muretto sporse un poco la testa. C’erano due persone… due ragazzi, sembravano… La vista, intanto, gli si era un po’ schiarita, così, grazie anche al fievole chiarore della luna sbucata da dietro una tettoia, riuscì a intravvedere che uno dei due, quello più corpacciuto, era nudo e con una mano si impugnava l’uccello duro, con l’altra invece cercava di spingere il suo compagno a chinarsi, tenendolo per la nuca.
“Dai…”, ripeteva il più grosso, facendogli forza sulla nuca.
“No…”, resisteva l’altro.
Avendolo di fronte, Ercole riconobbe Argante: l’altro doveva essere il suo amichetto Launos. Ma cosa voleva fargli fare? Ercole si sporse un po’ di più per vedere meglio.
“Dai, prendilo in bocca, cazzo!”, disse Argante con voce infuriata.
“No, mi fa schifo!”
“Ma se l’ha fatto Ercole!”, sibilò il giovane, esercitando ancora più forza sulla nuca dell’amico.
“Allora fallo fare a lui, che sa pure come si fa.”
E con uno scrollone si sottrasse alla presa, allontanandosi di qualche passo; ma così facendo, si trovò a ruotare un poco la testa:
“Toh, eccolo appunto che ci stava spiando, - disse notandolo – vieni, Ercole, vieni: Argante ha qualcosa per te.”
Già in altre occasioni Ercole aveva avuto modo di scorgere l’uccello di Argante, che gli spuntava dall’orlo della tunica, ma trovarselo davanti adesso turgido e incredibilmente grosso, gli provocò tutto uno sconvolgimento viscerale: le mani presero a tremargli, il respiro gli si fece pesante, la bocca gli si riempì di saliva… Lentamente si fece avanti, allungò la mano, prima gli sfiorò le palle piumose, poi impugnò la verga, mosse un paio di volte su e giù, poi si chinò e lo ingoiò tutto intero, fino alla radice. Da quanto tempo non gli capitava più di farlo!
“Cazzo… che bello!”, esclamò Argante, incredulo ed estasiato, sentendosi risucchiare e avvolgere l’uccello dalla calda mucosa orale.
“Oh, oh, oh…”, fece ancora, appoggiandosi con le spalle al muro per non crollare a terra, da tanto che gli tremavano le ginocchia.
Ma anche Ercole, pur senza parlare, si stava godendo quella meraviglia di cazzo, dal quale sgorgavano copiose colate di sugo amarognolo, puntualmente lappate e degustate.
“Per tutti gli dei! – sospirò Argante – Chi lo avrebbe mai immaginato… Oh… Mi stai facendo morire, Ercole! Oh… dai, continua e giuro che ti pagherò birra e zampe di gallina tutte le volte che vorrai!...”
Ma Ercole non aveva bisogno di quell’incentivo per continuare il suo godurioso lavoro. Così, incrementò la suzione, ma nel contempo, lanciato un occhio all’altro e visto che si stava menando un bell’uccellone duro, allungò una mano, lo afferrò e tirandoselo verso il culo:
“Mettimelo dentro…”, biascicò con la bocca piena.
Quello, già incannato di suo, alla prospettiva di inculare Ercole e sborrargli dentro, non se lo fece ripetere due volte: aggiustò il tiro e piantò tutto il dardo nell’ano di Ercole in un colpo solo. Per quanto avesse a suo tempo provato il Minotauro, l’eroe sentì tuttavia il dindo del giovanotto forarlo impetuoso e sospirò, dando inavvertitamente un leggero morso all’uccello di Argante, che gemette di ulteriore piacere.
A quel punto, Ercole si ritrovò a pompare davanti il nerchione di Argante, ormai sull’orlo del delirio, e a subire di dietro gli assalti impetuosi di Launos, che gli spappolarono presto il già rotto buco del culo. L’idea, però, che stava dando piacere ai due ragazzi lo entusiasmava, e tanto più lo entusiasmò, quando Launos allungò la mano, gli afferrò la clava già in fibrillazione e cominciò a menargliela a ritmo con i suoi affondi.
Ma ormai non è più possibile tenere la conta della situazione e di chi godeva di più: la loro mente non funzionava più, erano solo il concentrato di un unico piacere. Argante fu il primo a venire: con un grugnito di petto, affondò il cazzo nella bocca di Ercole e ci riversò a schizzate l’intero contenuto delle sue palle rattrappite; poi fu l’eroe, mentre ancora degustava le ultime gocce del seme di Argante, a varcare la soglia e con un guaito si contrasse, espellendo tutto il suo carico sulla polvere della strada. Sentendo gli scatti del cazzo di Ercole, stretto nella sua mano, e le strizzate poderose dello sfintere attorno al proprio uccello, Launos perse del tutto il controllo e scatarrò una fenomenale raffica di sborrate nell’intestino dell’eroe.
Placato l’ardore dei sensi e ritrovati la calma e il respiro, i tre si scollegarono.
“Wow – fece Argante – non l’avrei mai detto…”
“Neppure io…”, gli fece eco il pischello, che per la prima volta assaggiava il culo, dopo aver dato il suo chissà quante volte in pasto ad altri.
E nel suo entusiasmo allungò una lisciata al culo peloso dell’eroe, bagnandosi la mano con la sborra che gli colava fuori dal buco disfatto.
“Non so voi, ragazzi, - disse allora Ercole – ma io mi sono proprio divertito. Che ne dite di andare dal Persiano a farci una birretta?”
E messosi in mezzo ai due, passò a entrambi un braccio sulla spalla, stringendoli a sé. Quelli gli passarono un braccio attorno alla vita e si avviarono da buoni amiconi, lasciando intravvedere il soddisfacente seguito che questo loro recente sodalizio prometteva di avere.

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