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Gay & Bisex

Nel mezzo del cammin di nostra vita - 2


di adad
09.07.2022    |    3.290    |    4 9.6
"” Continuai a fissarlo con gli occhi smarriti..."
[Questo è un capitolo di collegamento: non ci sono scene di sesso. Chi, nonostante tutto, decidesse di andare avanti nella lettura, non si sbottoni i pantaloni, fino al prossimo capitolo. Grazie.]

“Svegliati… svegliati!”
Il volto infuriato di Renzo incombeva minaccioso sopra di me. Balzai a sedere sul lettuccio, tirandomi indietro, le braccia strette al petto. Avevo gli occhi sbarrati, il respiro ansimante.
“Ehi, calmati… - disse allora il camionista – Stavi facendo un brutto sogno?”
Chiusi gli occhi, cercando di riprendere il controllo: essere riacciuffato dalla banda era il mio peggiore degli incubi in quel momento.
“Dove siamo?”, chiesi.
“Mi dispiace, - disse lui – ma è necessario che scendi qui. Io devo passare la frontiera. Puoi cercare un altro passaggio, se credi, o prendere il treno e proseguire per la Svizzera o la Germania, vedi tu. Hai un documento di identità?”
“Sì.”, risposi con la testa che mi girava per quell’inaspettato cambiamento di programma: per fortuna avevo rinnovato un paio d’anni prima la carta di identità.
“Se stai scappando da gente così brutta, come dici, ti consiglio di lasciare l’Italia per un po’. Hai soldi?”
Avevo quei pochi euro che avevo trovato in un cassetto, prima di andarmene.
“Tieni.”, proseguì il camionista, senza aspettare la mia risposta, e mi porse un biglietto da cento.
Mi tirai indietro, quasi vergognoso.
“No…”
“Avanti, non fare lo scemo, ti serviranno. – insistette – Considera d’aver fatto una marchetta. Sei stato bravo, te li sei meritati. Avanti, prendili.”
Presi quei soldi, ringraziandolo con un cenno della testa. Poi mi guardai attorno, come cercando la direzione da prendere. Quasi indovinando i miei pensieri:
“Vai da quella parte: - mi disse - c’è l’uscita dall’autogrill. Poi a sinistra e segui la strada. La stazione è a un paio di chilometri.”
“Grazie…”, e mi avviai nella direzione indicatami.
“Ehi, - mi richiamò – sta attento, ok?”
Raggiunsi la stazione. Il biglietto per un Eurocity era troppo caro e del resto quei treni non fermavano lì. Così decisi di proseguire con i treni locali, non avevo nessuna fretta di arrivare e non avevo neanche un posto in cui arrivare.
Il primo regionale sarebbe passato fra un paio d’ore, così decisi di concedermi un panino con una birra, al baretto fuori dalla stazione.

Ho le idee un po’ confuse sul resto del viaggio. Posso dire che due giorni dopo misi piedi in una città abbastanza grande a anonima, da convincermi a restarci per un po’. Ci rimasi anni… Anni di sofferenze, di fame, di umiliazioni, sempre borderline, sempre in fuga… La necessità mi costrinse ad imparare un po’ la lingua; racimolai qualche lavoretto, ma per lo più mi mantenni nell’unico modo che sapevo: facendo marchette. Fu una discesa lenta e progressiva verso l’inferno. Solo da una cosa riuscii a tenermi lontano: dalla droga, verso la quale nutrivo un’atavica repulsione. Fatta salva qualche sniffata di popper, naturalmente, quando una situazione particolarmente delicata lo richiedesse: non si possono affrontare certe cose a mente lucida.
Ero seduto su una panchina al parco lungo il fiume, quella sera, e fissavo tristemente i pochi biglietti stropicciati, che avevo appena guadagnato, meglio non dire come, quando l’occhio mi cadde su un giornale che qualcuno aveva lasciato lì. Lo presi, attirato dalla foto in prima pagina… neanche ricordo cosa fosse. Facevo fatica a leggere quella lingua ostica, tanto più alla luce del lampione, e stavo per gettarlo via, quando l’occhio mi cadde sulla data: 13 maggio… 13 maggio… era il giorno del mio compleanno! del mio trentacinquesimo compleanno… All’improvviso mi si spalancò il baratro davanti ai piedi. Avevo appena compiuto trentacinque anni… metà della mia vita era passata… ma
cos’era stata finora? E cosa sarebbe stata domani… e dopodomani?…
Mi sentii pervadere da una stanchezza mortale, la mente mi si svuotò di ogni pensiero, di ogni emozione, mentre le lacrime mi scorrevano da sole, senza piangere, lungo le guance emaciate dalla fame e dalle sofferenze di anni.
Dopo, dopo vennero i singhiozzi, laceranti, mentre mi stringevo il volto fra le mani e piangevo, senza neanche sapere di cosa.
La gente passava, ma nessuno si fermò, nessuno mi chiese cos’avessi… e se anche lo avessero fatto, cosa avrei potuto rispondergli? Piango per una vita che ho buttato via? piango per qualcosa che neanche so?
Era notte fonda, quando mi riscossi: avevo speso a piangere le mie forze residue, le mie residue emozioni; non mi restava più niente.
Mi alzai come un automa e mi diressi verso la scaletta, che scendeva al greto del fiume. Nel chiarore dei lampioni, vedevo l’acqua scorrermi davanti placida… indifferente… Feci un passo avanti… Quello scorrere lento e gorgogliante mi ipnotizzava… Sembrava che mi chiamasse… Feci un altro passo…
“Se vuoi suicidarti, hai scelto il punto giusto.”, disse una voce tranquilla alle mie spalle.
Mi voltai di scatto: c’era qualcuno seduto su una panchinetta scassata. Non lo avevo visto. Lo fissai imbambolato, quasi oltraggiato per essere stato sorpreso in un momento così intimo e drammatico.
“Sono molti quelli che vengono a suicidarsi qui, - continuò il tipo, facendo un tiro alla sigaretta, che teneva fra due dita – l’acqua è profonda e dicono che la corrente ti trascina subito via. Non hai modo di venirne fuori.”
Continuai a fissarlo con gli occhi smarriti.
“Senti, perché non fai un tiro, prima? Potrebbe essere la tua ultima sigaretta.”, e mi allungò quella che teneva in mano.
Non mi mossi.
“Coraggio, solo un tiro e poi ti butti. Magari mi dici se devo avvertire qualcuno.”
Senza neanche sapere come, mi avvicinai e presi la sigaretta dalle sue mani. Era già mezza fumata, ma cosa volete che mi importasse? Il fumo che mi riempì i polmoni mi fece lacrimare gli occhi e tossii.
“Perché non ti siedi un po’? – continuò il tipo, facendomi posto sulla panchina – Tanto, se hai deciso di farlo, adesso o fra dieci minuti non fa differenza, non trovi?”
Già, che differenza faceva? Mi sedetti accanto a lui e finii la sigaretta, senza parlare. Neanche lui parlò, anzi, credo che non si voltasse neanche a guardarmi. Prima ancora che mi rendessi conto dell’assurdità di quella situazione:
“Scommetto che ti andrebbe una birra… - fece, alzandosi – Dai, offro io. Poi torniamo e fai quello che devi.”
Mi prese per un braccio e io mi lasciai tirar su passivamente, seguendolo poi per la scaletta, fino ad un chioschetto nelle vicinanze. Ci sedemmo ad un tavolino. Lui ordinò due birre.
“Ehi, che ne dici di un panino? Qui fanno dei wurstel grigliati davvero buoni.”, e senza aspettare che rispondessi, si alzò e andò a prendere due panini, ponendomene uno davanti, mentre addentava il suo con aria soddisfatta.
Non avevo fame, l’angoscia di prima mi aveva chiuso lo stomaco; pure, l’aroma era così invitante, che lo presi e ci diedi un morso. Il sapore del wurstel grigliato mi ridiede subito colore alle guance.
Solo allora, guardandolo per la prima volta, mi resi conto che indossava una divisa.
“Sei un poliziotto?”, chiesi, mentre masticavo il mio panino.
“Sì, ma tranquillo: non ho intenzione di arrestarti. – ridacchiò – Sembri già messo abbastanza male per conto tuo.”
Stranamente, quelle parole non mi colpirono, anzi sembrarono quasi alleggerire la cupa tensione che ancora mi opprimeva. Sorrisi, mentre davo l’ultimo morso al panino.
“Facciamo un altro? – disse, alzandosi – Non hai l’aria di uno che mangia troppo spesso.”
Poco dopo avevo davanti un altro panino, che gustai con più evidente piacere. Era come se la vita stesse pian piano rinascendo dentro di me: merito del buon cibo o della sua presenza rassicurante?
Bevemmo un altro paio di birre e fumammo un altro paio di sigarette: per quanto assurdo possa sembrare, confesso che era da un pezzo che non mi sentivo così… tranquillo, con l’anima in pace.
“Senti, io devo tornare a casa, - disse, alzandosi – perché non mi accompagni? Per quella faccenda, c’è sempre tempo.”
Cercai di rifiutare, ma lui insistette.
“Dai, almeno fai una doccia e per una notte dormi al coperto.”
Apprezzai la sua delicatezza, ma ero troppo disabituato alla solidarietà umana.
“Senti, - dissi a disagio – non sai chi sono…”
“Certo che lo so! – esclamò lui, dandomi una pacca sulla spalla – sei uno che ha in programma di suicidarsi e io sto cercando di convincerti a non farlo.”
“Perché?”, chiesi, aspettandomi un pippone sull’importanza e la sacralità della vita eccetera, eccetera.”
“Chi lo sa? - rispose invece lui – Forse perché mi sei simpatico.”
“Senti…”
“No, - mi interruppe lui – non dirmi niente, non voglio sapere niente: quello che ti
è successo non sono affari che mi riguardano. Andiamo a farci una bella dormita, dai. Hai l’aria di averne un gran bisogno.”
“Cosa diranno i tuoi?”, chiesi, facendo un ultimo tentativo.
“I miei sono io, non preoccuparti, e sanno già tutto.”
Dalle poche parole che ci scambiammo in macchina, venni a sapere che si chiamava Gunther, aveva trent’anni, faceva il poliziotto e viveva da solo.
Da me, venne a sapere che mi chiamavo Tarcisio ed ero italiano. Sembrava non interessargli altro.
“Fatti una doccia, - mi disse, spingendomi verso il bagno, appena fummo nel suo appartamento – ti cerco qualcosa di pulito, intanto. Siamo pressappoco della stessa taglia, per fortuna.”
Dovevo puzzare davvero tanto…
Oh, Dio… la sensazione, il piacere del getto caldo che mi pioveva sulla testa, mi ruscellava lungo la schiena… Chi lo ricordava più? Rimasi immobile, sentendo ad ogni momento scorrere via non solo la sporcizia dalla pelle, ma anche le brutture che mi pesavano sull’anima. Uscendo dal box, trovai che mi aveva preparato un asciugamano e, su uno sgabello, dei vestiti puliti: un paio di mutande, una maglietta e una tuta.
“Accidenti! – fece quando lo raggiunsi in soggiorno – sembri un’altra persona!”
“Forse lo sono.”, pensai ma senza avere il coraggio di dirglielo.
Anche il divano, che mi aveva preparato con lenzuola pulite, mi parve come il giaciglio d’un re: non feci in tempo a stendermi, che già dormivo… era stata una giornata sfibrante. Dormii profondamente e, per la prima volta, senza sogni.
Mi svegliò la mattina dopo, scuotendomi la spalla. Spalancai gli occhi e ci misi un po’ prima di realizzare dove mi trovavo.
“Senti, - mi disse – io devo andare…”
“Mi alzo subito.”, lo interruppi, pensando che fosse arrivato il momento di sloggiare.
“No, no, rimani pure a dormire. Volevo solo avvertirti. Sul tavolo, in cucina, ho apparecchiato per la colazione. In frigo trovi tutto quello che vuoi, non fare complimenti, d’accordo?”
Lo fissavo imbambolato.
“Sì”, accennai alla fine.
“Io torno nel pomeriggio, verso le quattro, se tutto va bene. Ah, dimenticavo: i tuoi vestiti li ho buttati via; avevi dei soldi in una tasca e i documenti, ho messo tutto in una busta sul tavolo. C’è anche il mio telefono, se hai bisogno di qualcosa. Ciao, a dopo.”
“Ciao…”, mormorai, mentre lui usciva sbattendo la porta.
Oddio… ma cosa mi stava succedendo? mi chiesi, mentre tornavo a stendermi sul divano: la sera prima, ero sull’orlo del baratro, stavo per suicidarmi, e ora… tutto questo… Quale angelo custode si era mosso ad aiutarmi? Ma sul serio è tutto vero? Oh, sì, era tutto vero, conclusi, alzandomi e andando in cucina.
La colazione era apparecchiata sul tavolo, dovevo solo accendere la macchina del caffè… Più tardi feci il giro dell’appartamento… entrai nella sua camera: il letto,
matrimoniale, era ancora disfatto… mi accostai alla coperta ribaltata, sul lato dove aveva dormito e infilai una mano sotto a lisciare il lenzuolo… con un empito di emozione, mi parve di coglierne ancora il tepore del corpo.
Chissà se dorme nudo?, mi chiesi… e in quel momento mi resi conto di quanto mi piacesse quel ragazzone. Inconsciamente, ne avevo subito il fascino fin dalla prima occhiata. Dovevo stare attento… e andarmene… andarmene prima che fosse troppo tardi, anche se solo il solo pensiero bastò a darmi una strizzata al cuore.
Pensai di mettere in ordine la camera: rifeci il letto e sistemai un po’ di cose lasciate in giro. Poi andai in bagno e lì… Buon dio, erano le sue mutande quelle che penzolavano mezzo fuori dalla cesta dei panni… doveva essersele tolte e gettate lì la sera prima o forse quella stessa mattina, perché quando le presi e le annusai, sembravano ancora tiepide… e sapevano di buono… un profumo pulito, quasi di cannella. Non fosse stato per alcune macchie sul davanti, avrei detto che erano pulite, mai indossate… e invece avevano contenuto il suo cazzo, i suoi coglioni, ne avevano assorbito il profumo, la traspirazione, gli spurghi leggeri di chissà quali umori.
Il pensiero che il suo cazzo fosse stato raggomitolato in quell’involucro mi fece avvampare di libidine e mi persi a ricercarne gli odori in ogni fibra di tessuto; e fu così che scoprii il minuscolo pelo ricciuto rimastovi impigliato… un pelo del suo cazzo… lo raccolsi, lo avvolsi in uno strappo di carta igienica e me lo infilai in tasca. Lo avrei custodito gelosamente.
Ma lo stato di eccitazione che avevo raggiunto, mi confermò che era pericoloso per me rimanere lì: dovevo andarmene e lo avrei fatto all’istante, se non fosse che volevo rivederlo almeno per ringraziarlo. Quella sera gli avrei parlato e poi sarei andato via. Sì avrei fatto proprio così. Mi sarei tirato su, avrei cercato un lavoro… Questo glielo dovevo, la mia rinascita sarebbe stato il mio modo per ringraziarlo.
Quando rientrò, nel tardo pomeriggio, Gunther fu ancora più cordiale.
“Ehi, mi hai rifatto il letto! – disse, venendo fuori dalla camera – Non dovevi…”
Feci spallucce.
“Pensavo di rendermi utile. Scusami, se mi sono permesso…”
“Stai scherzando?”, fece in tono allegro.
Poi si accorse della mia aria triste.
“Cos’hai? – chiese, venendomi vicino – Ho fatto qualcosa che non dovevo?”
“Tu? Tu sei un angelo… un angelo mandato da qualcuno lassù, per salvarmi la vita. Senza di te, a quest’ora mi avrebbero ripescato da qualche parte. Non lo dimenticherò mai.”
“Ma?...”
“Ma… devo andarmene… Tu non sai chi sono… - dissi tutto d’un fiato - che razza di persona sono.”
“E che razza di persona saresti?”, chiese fra il serio e il faceto.
“Una brutta persona.”
Mi fissò a lungo negli occhi. Era serio adesso, terribilmente serio. Poi mi prese per mano e mi tirò verso il divano.
“Vieni, sediamoci e raccontami tutto.”
“Gunther…”
“Hai detto che sono un angelo, che ti ho salvato la vita e allora raccontami tutto. Permettimi di salvartela davvero.”
“Non saprei da dove cominciare…”
“Dall’inizio, Tar, comincia dall’inizio.”
Mi accorsi allora che non aveva lasciato la mia mano e fu questo a darmi il coraggio.

(continua)




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