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Ci vuole una pompa


di adad
20.07.2020    |    16.402    |    12 9.6
"“Se ne hai un’altra, te la cambio..."
“La sai quella della pompa?”, chiese Mimmo all’amico Evaristo.
“No”, rispose quello, sbirciandogli il notevole malloppo fra le gambe.
“Dunque, c’è una ragazza ferma per strada con la bici rotta. Passa un tipo, abbastanza figo, e lei gli fa: - Scusa, ho la bici rotta, mi daresti una mano? - Lui vede subito che si tratta solo di una gomma a terra e le fa: - Ci vuole una pompa.- E lei: - Va bene, ma dopo me l’aggiusti la bici? –“
Mimmo non aveva ancora finito di raccontarla, che già si scompisciava dalle risate. Anche Evaristo rise, un po’ amaro, per la verità, immaginandosi nei panni della ragazza inginocchiata davanti all’amico che gli tirava fuori l’uccello e… Un brivido di libidine lo riportò alla realtà.
“Ci vuole una pompa…”, continuava a sghignazzare Mimmo, coinvolgendo dopo un po’ anche l’amico nella sua ilarità.
Quel giorno, i due stavano facendo un’escursione in bici, e forse da questo era nata la battuta di Mimmo, mentre facevano sosta all’ombra di una quercia.
I due giovani erano molto amici fin dagli anni della scuola ed era per loro un’abitudine ormai consolidata inforcare la bici la domenica pomeriggio, d’estate o d’inverno che fosse, e partire per lunghe pedalate nelle strade solitarie delle campagne circostanti. Erano entrambi freschi e aitanti, Mimmo gioviale ed estroverso, Evaristo più riservato. Non erano sposati né fidanzati nessuno dei due, Mimmo perché non trovava la ragazza giusta, Evaristo perché neanche gli interessava cercarla. E non occorre che dica altro: ognuno ha diritto alla sua riservatezza.
Ripreso fiato, i due amici tornarono ad inforcare le bici: Mimmo pedalava con maggior vigore e precedeva Evaristo di qualche metro, il che dava modo a quest’ultimo di fissare con occhi ammaliati quelle sue chiappe sode, che strabordavano carnose ai lati dello stretto sellino, inviandogli messaggi di sfrenata libidine. Tanto che, ad un certo punto, esasperato, Evaristo prese lo slancio e superò l’amico, lanciandosi in una folle corsa.
“Ehi, dove diavolo credi di andare?”, gli urlò dietro l’altro, continuando a pedalare col suo ritmo tranquillo.
Evaristo non rispose e ben presto era scomparso dietro una curva della strada. Il distacco divenne sempre maggiore, finché mentre si apprestava ad affrontare con foga una salita, nel cambio della marcia successe il patatrac: la catena si sganciò e si aggrovigliò inestricabilmente ai rapporti. Il povero Evaristo tentò invano di rimediare al guasto, dopo di che rimase lì scoraggiato ad aspettare l’arrivo dell’amico.
“Che ti succede?”, fece quello quando lo raggiunse.
Evaristo fece un gesto sconsolato, indicandogli la bicicletta buttata a terra.
“Mi dai una mano a sistemarla?”, chiese, mentre l’amico smontava si avvicinava, dopo aver puntellato la sua col cavalletto.
“Ci vuole una pompa.”, scherzò Mimmo, alludendo alla barzelletta di prima.
“Okay”, rispose Evaristo, cogliendo la palla al balzo.
E senza dargli tempo di pensare alcunché o di reagire, gli si accosciò davanti, gli strattonò in giù i pantaloncini e le mutande, quindi afferrò con due dita il cazzetto molle e glielo prese in bocca fino alla radice.
Mimmo non fece in tempo a dire:
“Ma che diavolo…”, che già il suo cazzo gli stava lievitando nella bocca di Evaristo.
Il che avvalora la tesi del famoso naturalista Adadius, il quale, sostenendo la supremazia del cazzo sull’uomo, diceva che spesso l’uomo ragiona con il cazzo, ma il cazzo ragiona sempre come gli pare, si adatta senza remore alle circostanze e le sfrutta spregiudicatamente per il proprio vantaggio e il proprio piacere.
E in effetti, se Mimmo era combattuto da imbarazzi e pregiudizi, il suo cazzo prese gaudiosamente possesso del cavo orale di Evaristo, proclamando, come l’antico eroe: “Hic manebimus optime!” vale a dire: “Qui ci staremo benissimo!”
E infatti ci si trovò talmente bene, che in brevissimo tempo solo la grossa cappella era rimasta all’interno della bocca, alle prese con la lingua di Evaristo, che ci danzava intorno il minuetto, la giga e la gavotta.
Mimmo fece ancora per protestare, ma il piacere si era impadronito ormai di lui e reclamava il suo pegno; così lasciò che l’amico continuasse il suo lavoro e si arrese allo scempio.
A Evaristo non sembrava vero di ritrovarsi finalmente con l’uccello dell’amico nella bocca, di gustare finalmente quel sapore che aveva fino ad allora assaporato solo nei sogni e nelle lunghe masturbazioni notturne: accosciato davanti al suo idolo, non aveva altro pensiero nella mente, se non di godersi quanto più possibile quella insperata fortuna.
E così, lo leccò, lo succhiò, lo slurpò, insinuandosi dappertutto con la punta della lingua, ripassandolo con la lingua a spatola, beandosi al sughetto che sgorgava copioso ed entusiasmandosi ai gemiti e ai sospiri, che pur flebili e quasi vergognosi, sfuggivano dalle labbra dischiuse di Mimmo.
E quando giunse il momento, quando il ritegno di Mimmo non riuscì più a trattenere la marea montante del piacere, quando finalmente si arrese e si lasciò sopraffare e travolgere dall’inevitabile, fu con la più pura estasi che Evaristo accolse la fiumana inarrestabile che gli riempì la bocca.
Trangugiò mugolando quel liquido denso che gli raschiava la gola e quando il flusso si attenuò e poi si interruppe, lui continuò a leccare con voglia ancora insoddisfatta la cappella ormai sgonfia e spompata del magico arnese.
“Cosa diavolo hai combinato?”, chiese infine Mimmo, tuttora boccheggiante, restando lì con i pantaloncini e le mutande ancora calati a mezza coscia e l’uccello moscio da cui colava un filo di bava lattiginosa.
“Me l’hai detto tu che ci voleva una pompa.”, rispose Evaristo con una presenza di spirito che non sapeva neanche lui da dove gli veniva.
“Ma sei scemo? – sbottò l’altro – Non l’hai capito che era una battuta, che non era questo che intendevo?”
Evaristo fece spallucce:
“Ormai è fatta.”, disse filosoficamente.
“Già, e scommetto che ti è pure piaciuta!”
“Beh, mi sembra che anche a te è piaciuta, visto quanta ne hai fatta!”, esclamò Evaristo con una punta di sarcasmo nella voce.
Mimmo preferì non rispondere: si dedicò a sbrogliare la catena della bici dell’amico e poco dopo:
“Ecco fatto, - fece riconsegnandogliela – e non dire niente!”, lo minacciò con la faccia truce.
“Non dico niente.”, ridacchiò, l’altro.
Risalirono in sella e presero la via del ritorno, senza scambiarsi neanche una parola.
***
Si erano lasciati con un leggero senso di imbarazzo, una volta tornati a casa; dopo di che, erano passati diversi giorni e non si erano più sentiti. Evaristo era preso tuttora dall’euforia per essere riuscito a… ci siamo capiti! E continuava a rivivere nella sua immaginazione quell’attimo sublime, ricostruendone i particolari che nello straniamento del momento gli erano sfuggiti. Ma nello stesso tempo era combattuto da un senso di colpa, per aver costretto l’amico a subire qualcosa di estraneo alla sua natura. Cercava di non pensarci, ma il timore di aver compromesso irrimediabilmente la loro amicizia, non gli dava requie.
Perché lo aveva fatto? Perché non aveva tenuto a freno la sua maledetta…
Fu in quel momento che il citofono suonò.
“Chi è?”
“Mimmo”
Il sollievo fu tale, che gli vennero quasi le lacrime agli occhi. Premette il pulsante di apertura, poi spalancò la porta dell’appartamento e aspettò che l’ascensore arrivasse.
“Ciao, Risto.”
Nulla sembrava mutato nell’atteggiamento cordiale e sorridente dell’amico.
“Ciao, Mi’.”
Si strinsero la mano e stavolta Evaristo la sentì più calda… o fu una sua impressione. I soliti convenevoli, i soliti sorrisi, le solite cordialità: ma si sentiva che c’era qualcosa di inespresso nell’aria.: i discorsi erano inconcludenti, gli occhi evitavano il più possibile di incontrarsi.
Fu Mimmo a rompere gli indugi.
“Perché non mi hai mai detto che sei gay?”
“Io non sono gay!”, replicò piccato Evaristo.
“Ah, no? E tu vai in giro a succhiare il pisello alle persone, ma non sei gay?”
“Io non vado in giro a succhiare il pisello alle persone! L’ho succhiato solo a te.”
“Per farti aggiustare la bici, immagino!”
Il tono aspro di Mimmo colpì Evaristo, che rimase un pezzo in silenzio, ad occhi bassi, stringendo fra le mani la lattina di coca.
“No, - disse dopo un po’ con un filo di voce – no, perché volevo farlo… da un pezzo che volevo farlo.”
“Perché?”
E finalmente Evaristo lo guardò negli occhi:
“Perché mi piaci.”
“Ti piaccio? - stavolta fu Mimmo ad essere sorpreso – In che senso, scusa.”
“Beh, in quel senso lì.”
“E perché non me l’hai mai detto?”
“Sarebbe cambiato qualcosa?”
“Sì, mi avresti risparmiato di fare l’idiota chissà quante volte con le mie battute!”
“Come la pompa?”
“Che stronzo! - fece Mimmo, scuotendo la testa con una mezza risata – Credi davvero che sarebbe cambiato qualcosa, se me lo avessi detto?”
Evaristo fece spallucce.
“Non lo so… Come faccio a saperlo? Certe volte è tutto così complicato.”
“E quando non lo è per conto suo, ci pensiamo noi a farlo complicato, giusto?”
Evaristo non rispose, in effetti non c’era niente da rispondere. Si alzò e andò a prendere un’altra coca in frigo.
“Accidenti!”, esclamò, quando con uno scoppiettio la cucina piombò nel buio
“Cosa c’è?”, gli gridò Mimmo dal soggiorno.
“C’è che si è fulminata la lampadina, qui.”
L’amico lo raggiunse.
“Se ne hai un’altra, te la cambio.”, gli disse.
Evaristo cercò a tastoni in un cassetto e gliela porse.
“Prendo una sedia, così ci arrivo.”, fece Mimmo.
E una volta salito, Evaristo si trovò faccia a faccia con il suo pacco prominente. Chiuse gli occhi, respirando il leggero sentore che ne traspirava. Avrebbe voluto baciarlo, toccarlo, morsicarlo…
“Beh, cosa aspetti? – lo riscosse la voce di Mimmo – vuoi che rimanga tutta la sera sopra questa sedia?”
Evaristo rimase interdetto, poi, alla luce che tornò ad illuminare la cucina, si accorse che sotto i jeans dell’amico si allungava di traverso il serpentone che ben conosceva. Allora, con le mani che gli tremavano slacciò la cintura dei jeans, tirò giù la zip, e glieli sfilò sotto le chiappe, premendo poi il volto su quell’inguine sudato, aspirandone a pieni polmoni l’aroma intenso. Poi gli abbassò anche lo slip e finalmente appagò la sua fame.
Stavolta poté lavorare con più calma e gratificazione, sapendo di avere la sua approvazione. Leccò la cappella a tutta lingua, trovandola gradevolmente bagnata, rovistò con la punta sotto la corona e fra le pieghe del prepuzio carnoso, alla ricerca dei sapori più reconditi, scoprendo ad ogni guizzo delizie inaspettate.
Il cazzo di Mimmo, adesso che ci si poteva dedicare con cura, gli si stava rivelando un universo di meravigliosi sapori. L’oggetto di tanta adorazione, non restava ovviamente indifferente: ogni leccata erano una vibrazioni che si irradiavano come vere onde sismiche, percorrendo l’intera asta del cazzo e ripercuotendosi fino ai coglioni e al buco del culo. Ogni slinguata era un fremito, ogni fremito una colata di sugo, ogni colata, prontamente leccata, era un premio per un Evaristo al settimo cielo, ed un incentivo a prodigarsi con maggior calore.
Mimmo si sentiva tremare le gambe e dovette poggiarsi con entrambe le mani sulle spalle di Evaristo. Non riusciva ancora a capacitarsi di essere l’oggetto di tanta passione. Sentendo sulle sue spalle il peso dell’amico, Evaristo proseguì il suo lavoro con gaudio e fervore ancora maggiori e anche stavolta il premio finale fu abbondante e saporito.
“Come vedi, non sempre ci vuole una pompa… - commentò Mimmo, scendendo a fatica dalla sedia, l’uccello penzolante fuori fai pantaloni e gli occhi ancora appannati dall’orgasmo – A volte basta una lampadina… O magari… basta solo chiederlo…”, e ridendo strinse in un caldo abbraccio l’esterrefatto Evaristo.
“Sei grande, amico!”, mormorò sistemandosi il cazzo nelle mutande e avviandosi poi, con passo malfermo, verso il divano.
“Ti va di offrirmi una coca?”, chiese, dopo essersi seduto.
E quando Evaristo gli porse la lattina già aperta, Mimmo gli prese la mano:
“Vieni, siediti vicino a me.”, disse e gli passò un braccio sulle spalle, stringendolo a sé.
Solo allora Evaristo si accorse che i pantaloni dell’amico erano ancora slacciati.
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