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Briganti


di adad
22.02.2021    |    9.950    |    5 8.9
"” “E poi non è vero che è finita: il principe Gualtieri sta raccogliendo uomini in Calabria, verrà a darci man forte..."
Pioveva a dirotto quel pomeriggio della tarda estate del 1862. Il cielo era già nero e brontolava in lontananza quando Ludovico si era messo in cammino: la più elementare prudenza gli avrebbe consigliato di non muoversi o per lo meno di spiare l’evolversi degli eventi; ma l’urgenza lo spingeva ad andare. Le notizie appena diffuse in paese erano troppo gravi per essere trascurate: doveva avvertire Angelo al più presto, il pericolo che correva... che correvano era serio, mortale. Erano tre mesi ormai che Angelo era alla macchia, nascosto in montagna, dopo che la banda, a cui si era aggregato con i suoi compagni, era stata sgominata dal colonnello Mainardi e ne era seguita una repressione feroce. Ma Angelo non era un brigante, era un patriota che la forza degli eventi avevano spinto ad unirsi a Cammisello, nel tentativo di cacciare i Piemontesi.
Maledetto Garibaldi! Si era presentato con i suoi discorsi di libertà, aveva infinocchiato quei quattro gonzi che gli avevano creduto e poi li aveva consegnati a quel farabutto di Vittorio Emanuele… il re Galantuomo… bel galantuomo! Libertà… libertà per i signori, che la libertà già ce l’avevano, ma non per la povera gente, che si era ritrovata più povera di prima. Maledetto Garibaldi e maledetti savoiardi!
Ludovico aveva percorso sì e no qualche chilometro, immerso in queste considerazioni, quando un fulmine più dirompente degli altri aveva squarciato la pesante coltre di nuvole e la pioggia aveva cominciato a cadere come nel giorno del Diluvio. Il giovane pensò di fermarsi un momento sotto una delle grandi querce che delimitavano la strada, ma da un lato la paura dei fulmini, dall’altra la medesima urgenza che lo aveva spinto ad uscire, gli consigliarono di proseguire il cammino. Del resto, il percorso da fare era ancora lungo, prima di arrivare sulle montagne, e il cielo cupo di nuvole sembrava affrettare il calare delle tenebre.
Nessun’anima, né umana, né animale si scorgeva in quella desolata strada di campagna, a tratti quasi tutta allagata da pozzanghere, che Ludovico non si curava neanche più di aggirare. Si era tirato in testa un lembo del mantello, ma la pioggia gli penetrava dappertutto, se la sentiva scendere dal collo, scorrere lungo la schiena, incollargli alle natiche e alle cosce il ruvido tessuto delle braghe; i piedi sciaguattavano nelle scarpe, tanto che alla fine preferì togliersele e continuare scalzo.
I campi vuoti dopo la mietitura e gli alberi di solito lussureggianti di frutti erano ora del tutto offuscati come da una coltre di nebbia: il grigiore plumbeo del cielo sembrava essere sceso fino a terra.
Maledetto Garibaldi, che li aveva costretti a questa vita.
Dopo un altro lungo tratto di strada, in cui la pioggia aveva continuato a sferzarlo implacabilmente, Ludovico era talmente stanco, che si sarebbe buttato sul ciglio della strada, pur di mettere fine a quello strazio; ma non poteva, doveva avvertire Angelo, doveva arrivare in tempo, convincerlo a fuggire, prima che giungessero i soldati ad arrestarlo… e arrestarlo significava una cosa sola: fucilazione immediata, dopo una farsa di processo, ed esposizione al pubblico ludibrio del suo povero corpo straziato… quel corpo che lui amava più di se stesso.
Il ricordo del loro amore, prima che quell’ orrore cominciasse, il ricordo degli incontri segreti nelle grotte, dopo che Angelo si era dato alla macchia per la sua malriposta fedeltà a quel Re debole e pauroso, che aveva preferito andarsene in esilio, piuttosto che immolarsi al fianco dei suoi fedeli, il ricordo delle carezze e della sublime dolcezza dei suoi baci valse a ridargli la forza di affrontare la salita sempre più erta verso i rifugi montani dei briganti.
Finalmente, offuscata dalla pioggia e dal crepuscolo incombente, intravide da lontano l’edicola della Madonna, quella Madonna delle Grazie che era lì da tempi immemorabili a proteggere i viandanti. Si avvicinò e si inginocchiò sulla terra bagnata, ma più per riposarsi un momento che per pregare. Intrecciò, comunque, le mani e si volse alla rozza immagine sbiadita:
“Madonna benedetta, - pregò dentro di sé – aiutami a convincerlo, aiutami a salvarlo…”.
Un po’ ristorato sia dalla sosta che dalla preghiera, Ludovico si rimise le scarpe, lasciò la strada e prese a inerpicarsi per un sentiero, che saliva fra rocce e boscaglie subito dietro l’edicola della Madonna.
Era ormai notte fonda, quando arrivò nei pressi della grotta in cui Angelo si era nascosto per sfuggire alle rappresaglie del colonnello Mainardi. Si fermò ansimante. A questo punto si faceva pericoloso anche per lui: al buio poteva essere scambiato per chissà chi e un fuorilegge disperato fa presto a sparare. L’unica era proseguire facendo più rumore possibile, in modo da far capire che non aveva cattive intenzioni; e così riprese a camminare senza precauzioni e imprecando a voce alta, ogni volta che inciampava in un sasso.
“Sta zitto. Vuoi attirare quassù tutto l’esercito savoiardo?”, si sentì sussurrare alle spalle, mentre la punta di un coltello gli pungeva la schiena.
Ludovico si bloccò, paralizzato.
“Sto cercando Angelo Danieli…”, disse dopo un po’, cercando di controllare la paura che lo aveva preso.
Non sapeva, non immaginava che ci fossero altri lassù. Forse altri sbandati che si erano uniti a lui?
“E chi lo sta cercando?”, continuò la voce, che non aveva però un tono minaccioso.
“Sono… un amico…”
“Un amico? Il suo amico Vicuzzo, per caso?”
E due braccia forti lo strinsero da dietro. Il sollievo e la gioia furono così forti, che Ludovico si sentì sfuggire dagli occhi due lacrime, che si mescolarono alla pioggia che gli rigava le guance. Si voltò, appena si allentò la stretta delle braccia.
“Sei tu… - disse piano – m’hai fatto paura.”
“Vicuzzo…”, sospirò Angelo, tornando a stringerlo a sé e cercandone le labbra.
Fu un bacio lungo e appassionato: un minimo risarcimento per i mesi di lontananza.
“Che ci fai qui, a quest’ora e con questo tempo?”, chiese Angelo.
“Devo parlarti.”, rispose Ludovico, carezzando con entrambe le mani il volto amato.
“Aspetta, vieni dentro… sei tutto bagnato.”, fece Angelo.
Lo prese per mano e gli fece aggirare un folto macchione di rovi, oltre il quale si intravvedeva, leggermente più chiaro nell’oscurità circostante, il basso ingresso di una grotta, un rifugio di pastori e briganti, come succede spesso in quelle montagne. Si chinarono per entrare. Dentro la grotta si ampliava ed era rischiarata da un focherello che scoppiettava in un angolo: accanto, uno strato di paglia con sopra alcune pelli di pecora cucite insieme, quale arredo per quel rustico giaciglio. Nell’aria gravava un sentore acre di fumo, di escrementi di pecora, di trasandata sporcizia.
Ludovico arricciò il naso e gli si strinse il cuore al pensiero che l’amato era costretto a vivere in quelle condizioni, ma nascose il disagio e si avvicinò al fuoco.
“Angelo, devo parlarti.”
“Dopo, togliamoci questa roba di dosso, prima, - disse Angelo, cominciando a spogliarsi - mettiamola ad asciugare.”
Dopo un po’ erano entrambi nudi e i loro vestiti appesi a delle stanghe vicino al fuoco. La vista del corpo di Ludovico, morbidamente illuminato dalla fiamma guizzante, eccitò Angelo, che gli si avvicinò per abbracciarlo.
Ma Ludovico si ritrasse con una smorfia:
“Puzzi come un caprone!”, fece.
“E cosa ti aspettavi in questo magnifico appartamento? – gli sorrise tristemente l’altro – Ma a tutto c’è rimedio. Vieni.”, e presolo per mano. Lo trascinò fuori dalla grotta, sotto la pioggia che continuava a cadere incessante, anche se non più con la violenza temporalesca del pomeriggio.
E lì, ridendo come due bambini, si lavarono l’un l’altro, abbracciandosi, carezzandosi, rotolandosi su un minuscolo spiazzo d’erba davanti all’ingresso della caverna. E lì fecero l’amore, sotto la pioggia, con furia, con famelica ingordigia dopo una così lunga e disperata separazione.
Nessuno mi chieda di descrivere quello che successe: fu una frenesia delirante di baci, di carezze, di morsi… e tale era il loro desiderio, che vennero solo a strusciarsi l’uno contro l’altro i corpi bagnati.
Placata la prima urgenza, tornarono dentro la grotta e si sdraiarono sulla ruvida coperta di pelli di pecora, al lieve tepore del piccolo fuoco.
“Angelo, devo parlarti”, cominciò Ludovico.
“Shhhh… - fece però Angelo, poggiandogli un dito sulle labbra – godiamoci questo momento, Vicuzzo mio.”, e avvicinò le labbra a deporre un bacio sulle sue.
Ludovico chiuse gli occhi e in quel momento, scomparvero lo squallore e l’oscurità, scomparve il fetore del fumo e degli escrementi: la grotta si trasformò una sala rutilante di luci dorate, lo strato di paglia divenne un morbido letto con soffici coltri di seta; un dio pietoso, di quelli che un tempo abitavano quelle montagne, li avvolse nella nebbia e li isolò in una bolla luminosa di calore e di felicità. Una bolla di pura estasi tutta per loro. Finalmente i due amanti si ritrovavano, tornavano a conoscersi come la prima volta che avevano scoperto il loro amore, tanti anni prima, un amore segreto, che nessuno avrebbe mai dovuto conoscere. Le mani, le labbra, la lingua di Ludovico tornarono ad esplorare il corpo anelante di Angelo, che poteva solo sospirare:
“Vicuzzo… Vicuzzo mio…”, e si lasciava travolgere dalle sensazioni, incapace di reagire, incapace perfino di ricambiare.
Ma quando Ludovico prese a leccargli il glande snudato del grosso uccello, Angelo sembrò come svegliarsi dalla sua catatonia e si precipitò sul cazzo dell’amante, che ingoiò con un gemito di assoluta libidine. Se lo succhiarono come se fosse l’ultimo gesto della loro vita e ingoiarono con gioiosa bramosia il frutto della loro passione.
Con lo spegnersi dell’eccitazione, si spensero anche le luci dorate, la bolla si dissolse e si ritrovarono distesi sulle ruvide pelli di pecora, bagnati di sudore, intontiti e quasi increduli di quanto era appena successo. E tornò anche il raziocinio, tornò la consapevolezza della loro terribile situazione.
“Cosa volevi dirmi, prima.”, chiese Angelo, carezzandogli teneramente la guancia.
Ludovico si congedò con un lungo sospiro dalle piacevolezze appena provate.
“Devi andar via, devi partire da qui…”, disse in fretta.
“Devo?...”
“Dobbiamo partire subito, verrò con te.”
“Che succede?”
“Stamattina… no, ieri, è arrivato in paese un battaglione di soldati: vogliono rastrellare la montagna… Hanno intenzione di fare piazza pulita dei briganti, dicono…”
“Io non sono un brigante! - urlò Angelo – Che stai dicendo?”
“Per loro lo sei… e lo sono anch’io, anzi sono un fiancheggiatore e ci fucileranno tutti e due, se ci prendono. Dobbiamo andare via subito.”
“Non posso! Non posso e non voglio! Ho giurato di lottare… di dare la vita per la mia patria, per l’onore del mio Re e adesso dovrei fuggire?”
“Ascolta, Angelo: hai combattuto per la nostra patria, per l’onore del nostro Re, è vero, e nessuno potrà mai rimproverarti di niente. Ma adesso è finita, non ci sono più speranze. I galantuomini sono passati tutti con Vittorio Emanuele, siamo rimasti solo noi, la povera gente, i cafoni... Capisci che non ha più senso? Nessuno ci aiuterà… è finita, la nostra bella patria non esiste più, è persa per sempre…”
“Anche se non rimane più niente, abbiamo sempre l’onore per cui morire.”, disse Angelo, cominciando a rivestirsi.
“E credi che serva a qualcosa? Credi che qualcuno ci ricorderà? Non c’è posto per i morti vinti, danno solo fastidio.”
“E poi non è vero che è finita: il principe Gualtieri sta raccogliendo uomini in Calabria, verrà a darci man forte.”
Ludovico abbassò la testa: come poteva sapere?
“Il principe Gualtieri è stato fucilato a Potenza la settimana scorsa. Si è saputo sta… ieri, per questo sono corso ad avvertirti.”
Angelo si accasciò sul lettuccio di paglia e stette un lungo momento con la testa fra le mani.
“”E’ tutto perduto, allora…”, mormorò con infinita amarezza.
“Siamo ancora vivi.”
“Che senso ha, quando non abbiamo più per cosa combattere?”
“Combattiamo per noi stessi.”
Angelo lo fissò, aveva le lacrime agli occhi.
“Ascolta, - continuò Ludovico – possiamo combattere con le idee, possiamo sbugiardare questo governo di assassini. Andiamo via, Angelo, possiamo ancora fare molto per la nostra gente, molto di più che non facendoci uccidere qui. Ricordi quello che diceva il nostro maestro? È meglio un asino vivo, che dieci leoni morti. Ormai, qui restano solo i briganti, ma quelli fanno la loro guerra, che non è più la nostra. ”
Quelle parole parvero riscuotere Angelo e riportarlo alla ragionevolezza.
“Già, è meglio un asino vivo, che dieci leoni morti... Ma dove possiamo andare?”
“Se riusciamo ad arrivare a Manfredonia, prendiamo una barca di pescatori e cerchiamo di arrivare in Albania…”
“Quella è terra dei turchi.”
“E allora a Corfù o in una delle isole: lì comanda l’Inghilterra, saremo al sicuro.”
“D’accordo, - cedette Angelo – a giorno partiamo.”
Ma come in preda ad una strana inquietudine:
“Partiamo adesso, Angelo. Ha smesso di piovere, i soldati saranno già in marcia.”
Angelo lo fissò, nei suoi occhi cupi c’era come la premonizione di un’imminente catastrofe. Assentì:
“D’accordo, Vicuzzo, - disse con tono funereo – partiamo subito.”
Raccolsero un fucile e un paio di pistole, misero in uno zaino le poche munizioni che avevano e della carne secca, riempirono alcune borracce con l’acqua piovana raccolta in un mastello, e si misero in marcia per una stradicciola che si inerpicava fra i macigni.
Dopo alcune ore di estenuante cammino, sbucarono su una mulattiera.
“Prendiamo questa. – ansimò Angelo – siamo abbastanza lontani dal paese e il passo è vicino…”
Ma avevano percorso a malapena un paio di chilometri, che si sentirono alle spalle il calpestio di cavalli al trotto e poco dopo un urlo:
“Laggiù!”
Da un lato la mulattiera aveva il costone di roccia, dall’altro lo strapiombo: non c’era modo di nascondersi o di fuggire.
“Salvati, li trattengo io!”, gridò Ludovico, dando uno spintone all’altro perché stesse indietro.
Ma non fece in tempo a sollevare la pistola, che una raffica di carabina lo falciò in pieno petto, gettandolo a terra morto.
“Vicuzzo! No! Maledetti! – urlò Angelo fuori di sé, cercando di imbracciare il fucile – Male…”
E un’altra raffica di fucileria gli troncò la parola di bocca e lui si accasciò morente sul corpo esanime dell’amato, cercandone le labbra in un ultimo anelito.
Poi sopraggiunsero i soldati a cavallo, come una canea di mastini ringhianti all’odore del sangue. I poveri corpi, straziati dalle baionette furono gettati nel dirupo, resi alla terra che li aveva nutriti. Le teste, mozzate, furono esposte la mattina dopo sulla pubblica piazza, a triste monito di quanti ancora si illudessero di riscattare la patria tradita e la perduta libertà.

[NOTA: nel 1860 la Spedizione dei Mille segna la fine del Regno delle Due Sicilie, retto allora da Francesco II, il quale, incapace di far fronte alla situazione, preferisce lasciare il Regno e andarsene in esilio. La transizione, se è indolore per le classi alte, trova la netta opposizione delle classi popolari, vuoi per atavica fedeltà alla Monarchia napoletana, vuoi per protesta ai soprusi e alle pesanti vessazioni che subiscono da parte della nuova amministrazione. Ne deriva una guerra civile, lunga e sanguinosa, che viene repressa dal Governo italiano con inaudita ferocia e senza neanche l’onore delle armi, declassata come fu, ed è tuttora, a guerra di briganti.
In tale contesto storico si inquadra, indegnamente, il presente racconto, in cui sono presenti molti patemi d’animo e ben poco sesso. I luoghi e i personaggi sono di pura fantasia]

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