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Storie della Storia del mondo, 2 - Caino e Abele


di adad
03.08.2020    |    4.972    |    6 9.0
"Un impulso misterioso, come un bisogno a cui non poteva e non voleva sottrarsi lo spingeva verso quel fratello, lo spingeva a cercarlo, ad ammirarlo, a..."
Slut e Truz ebbero molti figli nel corso della loro lunga vita, maschi e femmine li ebbero, che, congiungendosi fra loro, altri ne generarono e la Terra cominciò a popolarsi. Tra gli innumerevoli figli, che Slut e Truz ebbero, due ce ne furono che hanno lasciato traccia nella storia del mondo. Le cronache del tempo…
Qualcuno si chiederà:”Come, le cronache del tempo? Ma se siamo ancor prima dell’Età della Pietra!”
Beh, è vero che siamo ancor prima dell’Età della Pietra, quando per definizione gli esseri umani non sapevano né leggere né scrivere; ma è anche vero che ci sono molti modi per raccontare quello che succede anche quando non si sa né leggere né scrivere: il compito degli storici è appunto di scoprire le tracce nascoste fra le pieghe del tempo, e quello di noi narratori è di interpretarle, onde riportare alla luce la vita e le passioni di quegli antichi uomini, possibilmente liberandole dal cumulo di menzogne, sotto il quale sono state sepolte.
Le cronache del tempo, dicevo, ci raccontano di due figli di Slut e Truz: uno era un giovanottone ben piantato, fortificato dal duro lavoro dei campi, a cui si dedicava. A quei tempi infatti, non esistevano ancora i trattori e si cominciavano appena ad addomesticare i buoi, che solo diversi secoli più tardi qualcuno penserà di aggiogare ad un aratro. Si faceva tutto a mano e a furia di zappare e dissodare il duro terreno, il giovane aveva messo su dei muscoli alle braccia, al torace, alle gambe, che erano una meraviglia a guardarli.
Quando lavorava nei campi, coperto solo da un minuscolo perizoma, che evidenziava, quanto invece avrebbe dovuto celare, tutte le donne della sua enorme famiglia, sorelle, cugine, nipoti, si fermavano ad ammirarlo, seguendone con gli occhi il guizzare dei muscoli e sentendosi rimescolare le parti intime. Tutte anelavano ad essere scelte da lui e ricorrevano ad ogni mezzo per mettersi in mostra ai suoi occhi; ma il giovane, il cui nome era Caino, sembrava che neanche le notasse.
Aveva infatti un carattere schivo e solitario, e la sera, dopo il duro lavoro nei campi, preferiva distrarsi seduto davanti alla sua capanna ad ammirare il progressivo scintillio delle stelle nel cielo sempre più buio, anziché andarsi a fare una birra all’osteria “Dalla Buona Comare” con qualche amico.
L’altro si chiamava Abele ed era un giovane pastore dalle forme armoniose e dal carattere più aperto ed estroverso. Naturalmente non sappiamo con esattezza quanti anni avessero al momento dei fatti, che stiamo per raccontare, un po’perché a quei tempi non si usava ancora festeggiare i compleanni, e un po’ perché, vivendo centinaia e centinaia di anni, ad un certo punto finivano col perderne il conto; però, rapportandolo ai tempi moderni, potremmo dire con sufficiente veridicità che Caino era sui ventisette o ventotto anni e Abele sui venticinque.

Un pomeriggio, Caino era intento a dissodare un duro terreno pietroso su cui intendeva seminare una manciata di lenticchie, che aveva barattato dal fratello Asper con un paio di mele, che quell’anno gli erano venute davvero belle; il sole picchiava forte, nonostante l’imminenza dell’autunno, e lui era totalmente assorbito dal lavoro, quando:
“Ciao, fratello.”, risuonò una voce alle sue spalle.
Caino sobbalzò, lasciando cadere a terra la zappa. Si voltò di scatto, pronto a fronteggiare qualsiasi insidia; ma si tranquillizzò subito alla vista di Abele.
“Ciao, fece allora con un sorriso – che ci fai da queste parti? Pensavo che fossi da qualche parte con le tue pecore.”
“Con questo sole, si stanno riposando pure loro, laggiù, al limitare del bosco.”, rispose l’altro, fissando ammirato i muscoli del fratello, lucidi di sudore.
“Ho pensato di portarti un po’ d’acqua fresca. - riprese poi, porgendogli un piccolo otre – L’ho appena riempito al ruscello. Ma vieni a sederti un momento all’ombra… riposati un po’ pure tu.”, e si diresse verso un grosso sicomoro, che protendeva i rami per un vasto raggio.
Caino lo seguì e gli si sedette accanto sopra un grosso masso. Quando sollevò il braccio per portarsi l’otre alle labbra, un intenso aroma gli si sprigionò dall’ascella sudata. Abele si sentì rabbrividire, mentre istintivamente se ne riempiva i polmoni con un respiro profondo. Buttata indietro la testa, Caino bevve a lunghe sorsate l’acqua così piacevolmente fresca, sentendosene ristorare, mentre Abele gli fissava l’incavo dell’ascella, e uno strano languore lo prendeva alla bocca dello stomaco.
“Grazie fratello, - gli disse Caino, restituendogli il piccolo otre – mi ci voleva. Ne ho lasciato un sorso anche per te.”
Abele lo prese e se lo portò alle labbra: l’acqua rimasta gli parve ancora più dolce.
“E’ meglio che vada, - fece Caino dopo un po’ – le lenticchie non si seminano da sole.”, e si alzò per andarsene.
Abele rimase a fissare i muscoli poderosi delle gambe e dei glutei, che gli guizzavano sotto la pelle ad ogni passo: la striscia del perizoma gli si infossava profondamente nel solco delle natiche, mostrandolo pressoché nudo. Un impulso misterioso, come un bisogno a cui non poteva e non voleva sottrarsi lo spingeva verso quel fratello, lo spingeva a cercarlo, ad ammirarlo, a stargli vicino. La vista del suo corpo lo turbava, l’odore della sua pelle lo inebriava, il contatto sia pure fuggevole gli dava i brividi, gli seccava la gola.
Nel suo sangue evidentemente scorreva lo stimolo che un tempo lontano aveva spinto suo padre Slut fra le braccia del povero Var, sacrificato per la sopravvivenza della specie.
Appena il disco del sole toccò l’orizzonte come una palla di fuoco, Caino andò a riporre la zappa di pietra in un capanno di frasche, che era anche la sua abitazione, e si avviò verso uno stagno nei pressi, ansioso di ritemprarsi nelle acque, che alcuni torrenti e ruscelli, che scendevano dalle vicine montagne, mantenevano sempre deliziosamente fresche.
Giunto sulla riva, Caino si slacciò la fascia del perizoma ormai fradicia di sudore; i grossi coglioni ricaddero pesanti, non più sostenuti, mentre l’uccello carnoso gli si allungava molle verso il basso. Si accosciò allora sulla riva e per prima cosa lavò con cura la fascia inguinale, stendendola su un sasso al sole morente; quindi con un brivido di pura voluttà, entrò nello stagno, avanzò finché non fu dentro fino all’ombelico e poi si lasciò andare di schiena, lasciando che la spinta dell’acqua lo tenesse a galla. Amava galleggiare così, facendo il morto, mentre l’indolenzimento della fatica gli si scioglieva dai muscoli nella frescura dell’acqua, e a poco a poco cominciava a sentirsi rinvigorito e come rinato.
Aveva scoperto che muovendo leggermente le braccia e le gambe, non solo facilitava il galleggiamento, ma poteva anche muoversi, andare in una direzione o nell’altra, e la cosa lo divertiva molto; così Caino rimase un pezzo a sguazzare nello stagno; del resto, era l’unico svago che il suo carattere schivo gli permetteva ad una vita altrimenti di duro lavoro e magre soddisfazioni.
Quando si sentì sereno e rilassato, venne fuori dallo stagno; scrollò la testa per togliersi l’acqua dai lunghi capelli riccioluti, poi si distese sull’erba ad asciugarsi. Non si accorse che qualcuno lo stava spiando, nascosto dietro un folto cespuglio. Sapendo, infatti, che il fratello aveva l’abitudine di bagnarsi nello stagno dopo il lavoro, dopo aver riportato le pecore all’ovile, Abele aveva raggiunto il posto e si era nascosto dietro un opportuno riparo. Aveva atteso con impazienza, e infine lo aveva visto tornare verso la riva.
Fu una vera emozione, una frustata di libidine assoluta vederlo emergere grondante d’ acqua e poi stagliarsi nudo e statuario contro gli ultimi raggi del sole morente. La sua eccitazione era ormai incontrollabile e quando lo vide stendersi sull’erba e adagiarsi il cazzo molle sulla pancia, dopo esserselo lisciato per un po’, Abele vinse ogni titubanza, venne fuori dal suo nascondiglio e si fece avanti.
Caino si volse al leggero calpestio.
“Ciao, - fece con un sorriso – sei qui anche tu?”
“Ciao, fratello.”, lo salutò Abele, cercando di nascondere la sua erezione sotto il rozzo gonnellino di pelle d’agnello, ma l’altro sembrò non farci caso.
Senza staccargli gli occhi di dosso, Abele gli si sdraiò accanto, poggiandosi sul gomito. Stette un pezzo a rimirarlo in silenzio.
“Cosa c’è?”, fece Caino.
Abele scosse la testa.
“Niente, ti guardavo.”
“Mi guardavi?”
Abele avvampò, poi, col cuore che gli batteva all’impazzata:
“Sei bello… - mormorò – Un vero maschio…”, e gli sfiorò il petto con la punta delle dita.
Caino lasciò fare: non capiva l’atteggiamento del fratello, ma sentire quel tocco leggero sulla pelle ancora bagnata gli dava una sensazione davvero piacevole. Abele fraintese la acquiescenza del fratello, scambiandola per consenso? È difficle dirlo, sta di fatto che quella mano indiscreta, dopo aver indugiato sui pettorali, prese a scendere verso il basso, si fece strada fra la peluria del ventre e, giunta nelle vicinanze dell’agognata appendice, ci scivolò sopra e la prese delicatamente in pugno.
“Cosa fai?”, fece Caino, senza però accennare alcuna ripulsa.
Il che ancora una volta fu scambiato da Abele per un consenso, tanto più che, vistosi oggetto di tali insolite attenzioni, l’organo in questione aveva reagito con un leggero inturgidimento.
“Mi piaci…”, soffiò a quel punto Abele, col cuore in tumulto e l’inguine in subbuglio.
“Ma cosa dici?”, reagì finalmente Caino, cercando di allontanarlo.
Abele strinse ancora più forte il suo cazzo ormai turgido: per nulla al mondo ci avrebbe rinunciato, adesso che se lo sentiva pulsare caldo e poderoso fra le dita.
“Ti prego, fratello, - lo implorò Abele - lasciamelo tenere un po’… un momento solo… è così bello stringere in mano il tuo cazzo… lo desidero tanto…”
Caino era basito, sconvolto. Fosse stato un altro, avrebbe reagito con violenza, ma non voleva fare del male a suo fratello. Cercò ancora una volta di respingerlo con le buone.
“Abele, - iniziò con voce che voleva essere calma e suadente – lo sai non possiamo fare queste cose… non è permesso fra uomini, lo sai…”
Ma l’altro non lo ascoltava.
“Ti prego, - continuava a pregarlo – ti prego… un momento solo…”, e approfittando della remissività di Caino, riuscì col volto ad accostarglisi al cazzo e dopo un paio di frenetiche slinguate al glande scappellato, se ne fece scivolare in bocca una buona metà.
Suo malgrado, Caino non poté reprimere il piacere di ritrovarsi inglobato nel cavo orale del fratello, di sentirsi il glande avvolto e risucchiato nel calore bagnato della sua lingua, e la reazione non si fece attendere: il giovane perse ogni velleità di preservare la propria innocenza, si arrese agli stimoli della carne e lasciò che Abele proseguisse la sua opera di perdizione.
Vedendo scemare ogni resistenza, questi si dedicò al suo compito con maggior fervore, premiato dalle sempre più copiose colate di sugo che sgorgavano dall’uccello e gli impastavano la lingua. I due erano ormai persi in un vortice di godimento, estraniati da qualsiasi realtà: Caino si abbandonava sul prato con gli occhi chiusi e gemiti sommessi gli sfuggivano dalle labbra dischiuse, mentre artigliava l’erba con le dita contratte e un fuoco sempre più virulento gli bruciava i coglioni; Abele, dal canto suo anfanava e sbavava sul cazzo corposo del fratello, succhiandolo e leccandolo come se non ci fosse domani.
Poi, d’un tratto, Abele si strappò il gonnellino d’agnello dai fianchi e, come allucinato, gli saltò addosso a cavalcioni, si puntò il suo cazzo sul buco del culo e ci si lasciò cadere di schianto. Riscosso per un attimo dal suo torpore, Caino non fece in tempo a dire: che fai?, che un urlo di lancinante piacere gli sfuggì dalla gola, sentendosi quasi sbucciare l’uccello a quella subitanea penetrazione in un buco di verginale strettezza. Fu il colpo di grazia: Abele non era ancora arrivato in fondo, che le cateratte gli si aprirono e lui sborrò con tutto se stesso nel culo del fratello. Senza muoversi, allora, Abele si afferrò il suo e con poche, rapide smanacciate raggiunse l’orgasmo anche lui, inondando la pancia e il petto di Caino fino al collo.
“Non so se è bene quello che abbiamo fatto.”, disse Caino poco dopo, riprendendo il controllo.
“Non può che essere bene quello che ci procura piacere.”, commentò Abele con una punta di cinismo.
Da quella volta, i due fratelli continuarono a trovarsi in riva allo stagno ogni giorno al tramonto, e prima si purificavano dalla fatica e dal sudore nelle fresche acque, poi si abbandonavano ai loro piaceri sempre più completi. Il risultato fu che, dopo le esitazioni iniziali, Caino andò sempre più legandosi ad Abele, con cui sognava ormai di poter organizzare il resto della sua vita.
“Vivremo come uomo e donna, - diceva – e tu mi insegnerai a farti da donna, così ci completeremo l’uno con l’altro.”
Ma Abele era innamorato della conquista più che del conquistato; indurre gli altri ai propri desideri: era questo che lo gratificava, più che fondare le basi di una vita in comune; così, dopo un po’ i suoi ardori cominciarono a diventare semplici esternazioni, esternazioni vuote di sincerità e sentimento, fino a trasformarsi in mera finzione. E quanto più Caino si legava a lui, lui si estraniava, indifferente ormai a quello che il fratello poteva offrirgli.
Accecato dall’amore, Caino non si accorgeva di nulla. Certo, coglieva ogni tanto una certa svogliatezza nelle affettuosità che Abele gli riservava, un che di falso, di non sincero, ma non ci faceva caso: troppa era la gioia che derivava dai baci e dalle carezze che ne traeva.
Del resto, un giovane schivo e introverso come era per sua natura, è comprensibile che Caino si fosse aperto con tutto se stesso al primo che gli aveva mostrato tenerezza e disponibilità. Le barriere che si era eretto intorno nel corso della vita erano state infrante e lui si era ritrovato nudo e inerme davanti alla realtà, davanti all’amore.
La freddezza che cominciava a notare nell’atteggiamento di Abele, la ritrosia, la svogliatezza nella risposta alle sue effusioni d’amore lo ferivano, ma non erano un campanello d’allarme, come per qualsiasi altro, non era in grado di riconoscerne la portata.
Poi, una sera, Abele non si presentò all’appuntamento sulla riva dello stagno. Caino lo aspettò a lungo, si preoccupò ma solo che poteva essergli capitato qualcosa. E così, dopo averlo aspettato finché il sole non fu sceso sotto l’orizzonte, al calare delle prime ombre, Caino decise di andarlo a cercare. Si avviò verso il recinto in cui il fratello racchiudeva le pecore per la notte, l’animo tormentato da mille brutti pensieri: forse era caduto in un dirupo, forse era stato attaccato dai lupi che da qualche tempo si aggiravano nella zona. Un’angoscia gelida gli scese nel cuore.
E ad un tratto lo udì: era la sua voce, proveniva da dietro alcuni massi. Caino fu sommerso dal sollievo. Prese ad avvicinarsi… e la sua gioia si mutò in orrore.
“Ti prego, Enoch, - diceva la voce – fammelo toccare… dai… è così grosso, così bello…”
Ma che stava succedendo? Enoch? Frugò disperatamente nella sua memoria alla ricerca di chi fosse questo Enoch, ma nessun volto gli sovvenne.
“Più grosso di quello di Caino?”, disse irridente la voce di Enoch.
“Che c’entra Caino?”
“Vi ho visti assieme, che facevate…”
“Oh! Lascia perdere… Caino è uno stronzo. È un violento, mi tratta male… tu invece sei così dolce… e così bello…”
Il mondo di luce, che Caino si era costruito in quelle settimane, si frantumò e la tenebra invase il suo animo disperato. Senza capire cosa stesse facendo, si avvicinò, fino a vedere oltre la barriera di massi e quello che vide lo sconvolse: Abele accosciato che stava per ingoiare l’organo eretto di un altro.
Allora fu la follia. Allungò la mano, raccolse un sasso alla cieca e urlando:
“Bastardo… traditore…”, gli si lanciò contro e lo colpì alla testa, fracassandogliela.
Poi rimase lì, svuotato di ogni energia, a rimirare quel fratello amato che gli aveva dischiuso le porte della vita e poi gliele aveva sbattute in faccia. Lo riscosse l’urlo di Enoch:
“Caino ha ucciso Abele! All’assassino! Caino ha ucciso Abele!”
Allora Caino lasciò cadere il sasso insanguinato e fuggì senza voltarsi indietro.

(continua)
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